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Davide Rossi
July 17, 2025
© Photo: Public domain

Si è concluso l’11 luglio 2025 l’incontro alla Casa Bianca tra il presidente statunitense Donald Trump e cinque capi di stato del continente africano, che tuttavia di nazioni ne conta ben cinquantaquattro, insomma avanti adagio, quasi indietro.

Segue nostro Telegram.

Più che un successo, pare il segno evidente di una presenza statunitense che ovviamente anche per responsabilità dei predecessori neo – con e democratici, è del tutto fallimentare e deficitaria per Washington, anche perché improntata al più deleterio neocolonialismo, volto al furto delle materie prime energetiche, minerarie e alimentari.  Dal 1945 gli Stati Uniti si sono comportati con le nazioni del globo e in particolare con Africa, Asia e America Latina in modo predatorio, sottraendo risorse e di fatto pagandole un’inezia, per nulla corrispettiva dell’autentico valore delle merci de facto rubate.

Raddrizzare queste relazioni bilaterali, improntate al più bieco imperialismo, inventandosi nuovi rapporti di amicizia e di collaborazione appaiono difficili e poco credibili, soprattutto in ragione del fatto che Cina, Russia e Turchia hanno messo in campo da almeno un ventennio progetti di cooperazione e collaborazione autenticamente incentrarti su percorsi di emancipazione dal neocolonialismo, di sviluppo e crescita interna, di formazione di una classe media autoctona capace di assorbire le giovani generazioni locali istruite e preparate. Tutto questo è stato possibile partendo da accordi bilaterali tra le singole nazioni e appunto cinesi, russi e turchi, in cui le materie prime delle nazioni africane sono state remunerare il dovuto, ovvero molte volte più del prezzo imposto dagli occidentali.

Certamente la presenza delle tre nazioni varia per stile e per finalità, la Russia ha assolto principalmente compiti legati alla difesa, aiutando le nazioni interessate ad addestrare autonomamente i propri eserciti e dotandosi di strumentazione non statunitense o anglo – francese, la Cina ha implementato il supporto per lo sviluppo di nuovi sistemi amministrativo – burocratici e l’utilizzo delle moderne tecnologie a partire dalle attività lavorative e produttive, la Turchia ha promosso la crescita dell’interscambio bilaterale avventurandosi in nazioni in cui la situazione socio – economica e politica mostrava tutta la sua fragilità, come la Libia e la Somalia, anche facendo leva sulla comune religione islamico – sunnita e offrendosi di mediare sui mercati internazionali assolvendo all’acquisto  – ovviamente facilitato per Recep Erdoğan rispetto alle autorità di Tripoli e Mogadiscio – di qualsiasi prodotto necessitante per quelle nazioni.

Due punti accomunano tuttavia cinesi, russi e turchi, il primo è la convinzione della necessità di una impetuosa crescita economica di tutto il continente e di ciascuna singola nazione, volano imprescindibile per la creazione di mercati che possano assorbire non solo il surplus produttivo di Pechino ma anche di produzioni specifiche di Mosca e di Ankara, un interesse per la vitalità e l’aumento dei consumi interni e della qualità degli stessi che è la più evidente differenza con l’imperialismo esclusivamente predatorio di matrice occidentale, il secondo, non meno importante, l’aver mostrato, con queste nuove modalità di interscambio e cooperazione, la bontà di un percorso, quello verso un mondo multipolare, che ambisce alla costruzione di un nuovo ordine internazionale e al superamento del dollaro come moneta di scambio globale, un capestro nefasto, ben noto alle nazioni africane.

La nascita di nuove alleanze regionali, come l’Alleanza degli Stati del Sahel (Alliance des États du Sahel – AES) nata nel settembre 2023 con la firma dei tre presidenti di Niger, Burkina Faso e Mali, tutti e tre espressione di rivoluzioni popolari volte a chiudere definitivamente la stagione del neocolonialismo e del dollaro, è una delle più evidenti e positive novità africane e internazionali. Queste nazioni oggi investono massicciamente nello stato sociale, nel diritto dei cittadini a casa, istruzione, salute, difesa degli anziani, diventate priorità di questi governi. Assimi Goïta, presidente maliano dal maggio 2021, Ibrahim Traoré capo di stato burkinabè dal settembre 2022 e il nigerino Abdourahamane Tchiani al potere dal luglio 2023 hanno in più riprese confermato, anche alle Nazioni Unite e in altri consessi internazionali la piena volontà di partecipare al progetto della costruzione multipolare, diventando elemento attrattivo anche per nazioni vicine, come il Senegal, il quale dalla primavera 2024 ha come presidente Bassirou Diomaye Faye e come primo ministro Ousmane Sonko, determinatissimi anch’essi a incamminarsi nel solco di una radicale chiusura della stagione neo-coloniale e l’apertura di nuovi orizzonti. I soldati statunitensi, francesi, inglesi e tedeschi presenti in queste nazioni sono stati tutti invitati ad abbandonarle. Lo stesso Ciad del presidente Mahamat Déby Itno, confermato nelle elezioni 2024, sta mostrando interesse per il progetto dell’Alleanza degli Stati del Sahel, è evidente che le nuove generazioni istruite e culturalmente avvertite stiano imponendo in tutto il continente un cambio di passo epocale.

In questo contesto, l’obsolescenza finanche ridicola di strutture come la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (in sigla francese CEDEAO ed ECOWAS in inglese), la quale nel 2023 avrebbe dovuto per conto di Parigi e di Washington e dei loro esclusivi interessi contrastare i cambiamenti in corso nelle nazioni del Sahel è del tutto evidente, il giorno dopo l’obbediente annuncio delle autorità nigeriane, disposte a invadere il Niger per ripristinare il potere franco – statunitense, milioni di nigeriani si sono riversati nelle piazze per contestare la subdola acquiescenza agli interessi imperialisti e manifestare la loro solidarietà ai nigerini, convincendo il governo a non avventurarsi in un’impresa militare di dubbia riuscita e che avrebbe definitivamente compromesso la tenuta interna del loro fragile regime impopolare.

Il fallimento dell’iniziativa trumpiana è ancora più evidente alla luce del fatto che due nazioni a vario titolo alleate e subalterne dell’Occidente, Costa d’Avorio e Nigeria, proprio perché timorose di mostrarsi agli occhi dei loro cittadini subalterni agli interessi occidentali, hanno rifiutato di presentarsi all’incontro di Washington, dimostrando i rispettivi presidenti di essere preoccupati per la tenuta dei loro regimi, sempre più fragili a fronte di un crescente malcontento popolare che avrebbe mal tollerato l’ennesima dimostrazione universalmente pubblica di servilismo nei confronti dell’Occidente.

Donald Trump ha provato a riannodare e consolidare almeno le relazioni con Senegal, Gabon, Guinea-Bissau, Mauritania e Liberia, tuttavia quelle con il Sengal appaiono molto compromesse, il Gabon del presidente Brice Clotaire Oligui Nguema ugualmente vuole chiamarsi fuori e i prossimi mesi dimostreranno quanto queste collaborazioni al pari di quelle con le altre tre nazioni saranno davvero solide e operative.

Vale la pena riepilogare le ricchezze che hanno convinto Trump ad aprile la Casa Bianca, il Gabon è il principale estrattore mondiale di manganese, ma esporta anche petrolio, uranio, oro, terre rare e legni pregiati, la Guinea-Bissau, i cui giovani inneggiano ogni giorno di più per le strade della capitale ad Amilcar Cabral, padre della patria ed eroe antimperialista, rendendo precaria la permanenza al potere di Umaro El Mokhtar Sissoco Embaló, primeggia in fosfati, bauxite, petrolio, gas e oro, la Liberia, nazione anglofona nata con il contributo dei movimenti antischiavisti e religioso – filantropici statunitensi nel 1847, tuttavia Trump non lo sa perché la storia non gli piace e ancor meno legge i resoconti preparatori che stilano i suoi collaboratori, stupendosi così dell’ottimo inglese dell’ottantenne presidente Joseph Boakai, ha giacimenti di oro e diamanti, la Mauritania, la quale ha tre milioni di abitanti, di cui mezzo milione in Europa, e due milioni di immigrati dall’Africa Subsahariana principalmente impegnati nel settore della pesca nella capitale Nouakchott, ovvero è la prima nazione al mondo – anche se nessuno se lo ricorda – per immigrazione, pari al 45% dei residenti, ha ferro, oro, rame, petrolio, gas naturale e terre rare, ma anche l’inveterata abitudine, confermata dall’attuale presidente Mohamed Ould Ghazouani, di mantenersi in perfetto equilibrio politico e amicale con tutte le nazioni e le forze in gioco nella regione dal Mediterraneo al golfo di Guinea, infine il Senegal, al momento il meno interessato alla collaborazione con gli statunitensi, possiede petrolio e gas, oro, fosfati e terre rare.

Trump dovrà pure dimostrarsi conseguente nei prossimi mesi rispetto alla richiesta espressa da tutti i presenti di concedere maggiori visti d’ingresso negli Stati Uniti, al momento oggetto di pesanti restrizioni al pari di tutta l’Africa, così come mostrare, almeno con quanti si sono seduti in questa occasione al suo stesso tavolo, maggiore disponibilità per una revisione al ribasso dei dazi, anche in questo caso imposti con grande sveltezza e minor accortezza a tutto il continente, mancano per altro due mesi all’eventuale rinnovo dell’accordo commerciale AGOA, “African Growth and Opportunity Act”, il cui nome “Accordo per la Crescita e le Opportunità Africane” è già di per sé ossimorico, inventato da Bill Clinton nel 2000 e rinnovato stancamente di quadriennio in quadriennio per un quarto di secolo, è stato un altro dei tanti strumenti d’aggressione statunitense, che ha invaso il continente di merci scadenti fuori mercato negli Stati Uniti, ma almeno contemplava per le nazioni firmatarie africane la possibilità di esportare nella terra a stelle e strisce con una riduzione dei dazi d’entrata.

L’Amministrazione Trump ha realizzato un comunicato conclusivo trionfalistico in cui si afferma che il continente africano non abbia mai avuto un amico come l’attuale presidente statunitense, un eccesso che non rasenta ma proprio cade nel ridicolo.

Trump insegue vanamente l’Africa, il continente guarda a Cina e Russia e al multipolarismo

Si è concluso l’11 luglio 2025 l’incontro alla Casa Bianca tra il presidente statunitense Donald Trump e cinque capi di stato del continente africano, che tuttavia di nazioni ne conta ben cinquantaquattro, insomma avanti adagio, quasi indietro.

Segue nostro Telegram.

Più che un successo, pare il segno evidente di una presenza statunitense che ovviamente anche per responsabilità dei predecessori neo – con e democratici, è del tutto fallimentare e deficitaria per Washington, anche perché improntata al più deleterio neocolonialismo, volto al furto delle materie prime energetiche, minerarie e alimentari.  Dal 1945 gli Stati Uniti si sono comportati con le nazioni del globo e in particolare con Africa, Asia e America Latina in modo predatorio, sottraendo risorse e di fatto pagandole un’inezia, per nulla corrispettiva dell’autentico valore delle merci de facto rubate.

Raddrizzare queste relazioni bilaterali, improntate al più bieco imperialismo, inventandosi nuovi rapporti di amicizia e di collaborazione appaiono difficili e poco credibili, soprattutto in ragione del fatto che Cina, Russia e Turchia hanno messo in campo da almeno un ventennio progetti di cooperazione e collaborazione autenticamente incentrarti su percorsi di emancipazione dal neocolonialismo, di sviluppo e crescita interna, di formazione di una classe media autoctona capace di assorbire le giovani generazioni locali istruite e preparate. Tutto questo è stato possibile partendo da accordi bilaterali tra le singole nazioni e appunto cinesi, russi e turchi, in cui le materie prime delle nazioni africane sono state remunerare il dovuto, ovvero molte volte più del prezzo imposto dagli occidentali.

Certamente la presenza delle tre nazioni varia per stile e per finalità, la Russia ha assolto principalmente compiti legati alla difesa, aiutando le nazioni interessate ad addestrare autonomamente i propri eserciti e dotandosi di strumentazione non statunitense o anglo – francese, la Cina ha implementato il supporto per lo sviluppo di nuovi sistemi amministrativo – burocratici e l’utilizzo delle moderne tecnologie a partire dalle attività lavorative e produttive, la Turchia ha promosso la crescita dell’interscambio bilaterale avventurandosi in nazioni in cui la situazione socio – economica e politica mostrava tutta la sua fragilità, come la Libia e la Somalia, anche facendo leva sulla comune religione islamico – sunnita e offrendosi di mediare sui mercati internazionali assolvendo all’acquisto  – ovviamente facilitato per Recep Erdoğan rispetto alle autorità di Tripoli e Mogadiscio – di qualsiasi prodotto necessitante per quelle nazioni.

Due punti accomunano tuttavia cinesi, russi e turchi, il primo è la convinzione della necessità di una impetuosa crescita economica di tutto il continente e di ciascuna singola nazione, volano imprescindibile per la creazione di mercati che possano assorbire non solo il surplus produttivo di Pechino ma anche di produzioni specifiche di Mosca e di Ankara, un interesse per la vitalità e l’aumento dei consumi interni e della qualità degli stessi che è la più evidente differenza con l’imperialismo esclusivamente predatorio di matrice occidentale, il secondo, non meno importante, l’aver mostrato, con queste nuove modalità di interscambio e cooperazione, la bontà di un percorso, quello verso un mondo multipolare, che ambisce alla costruzione di un nuovo ordine internazionale e al superamento del dollaro come moneta di scambio globale, un capestro nefasto, ben noto alle nazioni africane.

La nascita di nuove alleanze regionali, come l’Alleanza degli Stati del Sahel (Alliance des États du Sahel – AES) nata nel settembre 2023 con la firma dei tre presidenti di Niger, Burkina Faso e Mali, tutti e tre espressione di rivoluzioni popolari volte a chiudere definitivamente la stagione del neocolonialismo e del dollaro, è una delle più evidenti e positive novità africane e internazionali. Queste nazioni oggi investono massicciamente nello stato sociale, nel diritto dei cittadini a casa, istruzione, salute, difesa degli anziani, diventate priorità di questi governi. Assimi Goïta, presidente maliano dal maggio 2021, Ibrahim Traoré capo di stato burkinabè dal settembre 2022 e il nigerino Abdourahamane Tchiani al potere dal luglio 2023 hanno in più riprese confermato, anche alle Nazioni Unite e in altri consessi internazionali la piena volontà di partecipare al progetto della costruzione multipolare, diventando elemento attrattivo anche per nazioni vicine, come il Senegal, il quale dalla primavera 2024 ha come presidente Bassirou Diomaye Faye e come primo ministro Ousmane Sonko, determinatissimi anch’essi a incamminarsi nel solco di una radicale chiusura della stagione neo-coloniale e l’apertura di nuovi orizzonti. I soldati statunitensi, francesi, inglesi e tedeschi presenti in queste nazioni sono stati tutti invitati ad abbandonarle. Lo stesso Ciad del presidente Mahamat Déby Itno, confermato nelle elezioni 2024, sta mostrando interesse per il progetto dell’Alleanza degli Stati del Sahel, è evidente che le nuove generazioni istruite e culturalmente avvertite stiano imponendo in tutto il continente un cambio di passo epocale.

In questo contesto, l’obsolescenza finanche ridicola di strutture come la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (in sigla francese CEDEAO ed ECOWAS in inglese), la quale nel 2023 avrebbe dovuto per conto di Parigi e di Washington e dei loro esclusivi interessi contrastare i cambiamenti in corso nelle nazioni del Sahel è del tutto evidente, il giorno dopo l’obbediente annuncio delle autorità nigeriane, disposte a invadere il Niger per ripristinare il potere franco – statunitense, milioni di nigeriani si sono riversati nelle piazze per contestare la subdola acquiescenza agli interessi imperialisti e manifestare la loro solidarietà ai nigerini, convincendo il governo a non avventurarsi in un’impresa militare di dubbia riuscita e che avrebbe definitivamente compromesso la tenuta interna del loro fragile regime impopolare.

Il fallimento dell’iniziativa trumpiana è ancora più evidente alla luce del fatto che due nazioni a vario titolo alleate e subalterne dell’Occidente, Costa d’Avorio e Nigeria, proprio perché timorose di mostrarsi agli occhi dei loro cittadini subalterni agli interessi occidentali, hanno rifiutato di presentarsi all’incontro di Washington, dimostrando i rispettivi presidenti di essere preoccupati per la tenuta dei loro regimi, sempre più fragili a fronte di un crescente malcontento popolare che avrebbe mal tollerato l’ennesima dimostrazione universalmente pubblica di servilismo nei confronti dell’Occidente.

Donald Trump ha provato a riannodare e consolidare almeno le relazioni con Senegal, Gabon, Guinea-Bissau, Mauritania e Liberia, tuttavia quelle con il Sengal appaiono molto compromesse, il Gabon del presidente Brice Clotaire Oligui Nguema ugualmente vuole chiamarsi fuori e i prossimi mesi dimostreranno quanto queste collaborazioni al pari di quelle con le altre tre nazioni saranno davvero solide e operative.

Vale la pena riepilogare le ricchezze che hanno convinto Trump ad aprile la Casa Bianca, il Gabon è il principale estrattore mondiale di manganese, ma esporta anche petrolio, uranio, oro, terre rare e legni pregiati, la Guinea-Bissau, i cui giovani inneggiano ogni giorno di più per le strade della capitale ad Amilcar Cabral, padre della patria ed eroe antimperialista, rendendo precaria la permanenza al potere di Umaro El Mokhtar Sissoco Embaló, primeggia in fosfati, bauxite, petrolio, gas e oro, la Liberia, nazione anglofona nata con il contributo dei movimenti antischiavisti e religioso – filantropici statunitensi nel 1847, tuttavia Trump non lo sa perché la storia non gli piace e ancor meno legge i resoconti preparatori che stilano i suoi collaboratori, stupendosi così dell’ottimo inglese dell’ottantenne presidente Joseph Boakai, ha giacimenti di oro e diamanti, la Mauritania, la quale ha tre milioni di abitanti, di cui mezzo milione in Europa, e due milioni di immigrati dall’Africa Subsahariana principalmente impegnati nel settore della pesca nella capitale Nouakchott, ovvero è la prima nazione al mondo – anche se nessuno se lo ricorda – per immigrazione, pari al 45% dei residenti, ha ferro, oro, rame, petrolio, gas naturale e terre rare, ma anche l’inveterata abitudine, confermata dall’attuale presidente Mohamed Ould Ghazouani, di mantenersi in perfetto equilibrio politico e amicale con tutte le nazioni e le forze in gioco nella regione dal Mediterraneo al golfo di Guinea, infine il Senegal, al momento il meno interessato alla collaborazione con gli statunitensi, possiede petrolio e gas, oro, fosfati e terre rare.

Trump dovrà pure dimostrarsi conseguente nei prossimi mesi rispetto alla richiesta espressa da tutti i presenti di concedere maggiori visti d’ingresso negli Stati Uniti, al momento oggetto di pesanti restrizioni al pari di tutta l’Africa, così come mostrare, almeno con quanti si sono seduti in questa occasione al suo stesso tavolo, maggiore disponibilità per una revisione al ribasso dei dazi, anche in questo caso imposti con grande sveltezza e minor accortezza a tutto il continente, mancano per altro due mesi all’eventuale rinnovo dell’accordo commerciale AGOA, “African Growth and Opportunity Act”, il cui nome “Accordo per la Crescita e le Opportunità Africane” è già di per sé ossimorico, inventato da Bill Clinton nel 2000 e rinnovato stancamente di quadriennio in quadriennio per un quarto di secolo, è stato un altro dei tanti strumenti d’aggressione statunitense, che ha invaso il continente di merci scadenti fuori mercato negli Stati Uniti, ma almeno contemplava per le nazioni firmatarie africane la possibilità di esportare nella terra a stelle e strisce con una riduzione dei dazi d’entrata.

L’Amministrazione Trump ha realizzato un comunicato conclusivo trionfalistico in cui si afferma che il continente africano non abbia mai avuto un amico come l’attuale presidente statunitense, un eccesso che non rasenta ma proprio cade nel ridicolo.

Si è concluso l’11 luglio 2025 l’incontro alla Casa Bianca tra il presidente statunitense Donald Trump e cinque capi di stato del continente africano, che tuttavia di nazioni ne conta ben cinquantaquattro, insomma avanti adagio, quasi indietro.

Segue nostro Telegram.

Più che un successo, pare il segno evidente di una presenza statunitense che ovviamente anche per responsabilità dei predecessori neo – con e democratici, è del tutto fallimentare e deficitaria per Washington, anche perché improntata al più deleterio neocolonialismo, volto al furto delle materie prime energetiche, minerarie e alimentari.  Dal 1945 gli Stati Uniti si sono comportati con le nazioni del globo e in particolare con Africa, Asia e America Latina in modo predatorio, sottraendo risorse e di fatto pagandole un’inezia, per nulla corrispettiva dell’autentico valore delle merci de facto rubate.

Raddrizzare queste relazioni bilaterali, improntate al più bieco imperialismo, inventandosi nuovi rapporti di amicizia e di collaborazione appaiono difficili e poco credibili, soprattutto in ragione del fatto che Cina, Russia e Turchia hanno messo in campo da almeno un ventennio progetti di cooperazione e collaborazione autenticamente incentrarti su percorsi di emancipazione dal neocolonialismo, di sviluppo e crescita interna, di formazione di una classe media autoctona capace di assorbire le giovani generazioni locali istruite e preparate. Tutto questo è stato possibile partendo da accordi bilaterali tra le singole nazioni e appunto cinesi, russi e turchi, in cui le materie prime delle nazioni africane sono state remunerare il dovuto, ovvero molte volte più del prezzo imposto dagli occidentali.

Certamente la presenza delle tre nazioni varia per stile e per finalità, la Russia ha assolto principalmente compiti legati alla difesa, aiutando le nazioni interessate ad addestrare autonomamente i propri eserciti e dotandosi di strumentazione non statunitense o anglo – francese, la Cina ha implementato il supporto per lo sviluppo di nuovi sistemi amministrativo – burocratici e l’utilizzo delle moderne tecnologie a partire dalle attività lavorative e produttive, la Turchia ha promosso la crescita dell’interscambio bilaterale avventurandosi in nazioni in cui la situazione socio – economica e politica mostrava tutta la sua fragilità, come la Libia e la Somalia, anche facendo leva sulla comune religione islamico – sunnita e offrendosi di mediare sui mercati internazionali assolvendo all’acquisto  – ovviamente facilitato per Recep Erdoğan rispetto alle autorità di Tripoli e Mogadiscio – di qualsiasi prodotto necessitante per quelle nazioni.

Due punti accomunano tuttavia cinesi, russi e turchi, il primo è la convinzione della necessità di una impetuosa crescita economica di tutto il continente e di ciascuna singola nazione, volano imprescindibile per la creazione di mercati che possano assorbire non solo il surplus produttivo di Pechino ma anche di produzioni specifiche di Mosca e di Ankara, un interesse per la vitalità e l’aumento dei consumi interni e della qualità degli stessi che è la più evidente differenza con l’imperialismo esclusivamente predatorio di matrice occidentale, il secondo, non meno importante, l’aver mostrato, con queste nuove modalità di interscambio e cooperazione, la bontà di un percorso, quello verso un mondo multipolare, che ambisce alla costruzione di un nuovo ordine internazionale e al superamento del dollaro come moneta di scambio globale, un capestro nefasto, ben noto alle nazioni africane.

La nascita di nuove alleanze regionali, come l’Alleanza degli Stati del Sahel (Alliance des États du Sahel – AES) nata nel settembre 2023 con la firma dei tre presidenti di Niger, Burkina Faso e Mali, tutti e tre espressione di rivoluzioni popolari volte a chiudere definitivamente la stagione del neocolonialismo e del dollaro, è una delle più evidenti e positive novità africane e internazionali. Queste nazioni oggi investono massicciamente nello stato sociale, nel diritto dei cittadini a casa, istruzione, salute, difesa degli anziani, diventate priorità di questi governi. Assimi Goïta, presidente maliano dal maggio 2021, Ibrahim Traoré capo di stato burkinabè dal settembre 2022 e il nigerino Abdourahamane Tchiani al potere dal luglio 2023 hanno in più riprese confermato, anche alle Nazioni Unite e in altri consessi internazionali la piena volontà di partecipare al progetto della costruzione multipolare, diventando elemento attrattivo anche per nazioni vicine, come il Senegal, il quale dalla primavera 2024 ha come presidente Bassirou Diomaye Faye e come primo ministro Ousmane Sonko, determinatissimi anch’essi a incamminarsi nel solco di una radicale chiusura della stagione neo-coloniale e l’apertura di nuovi orizzonti. I soldati statunitensi, francesi, inglesi e tedeschi presenti in queste nazioni sono stati tutti invitati ad abbandonarle. Lo stesso Ciad del presidente Mahamat Déby Itno, confermato nelle elezioni 2024, sta mostrando interesse per il progetto dell’Alleanza degli Stati del Sahel, è evidente che le nuove generazioni istruite e culturalmente avvertite stiano imponendo in tutto il continente un cambio di passo epocale.

In questo contesto, l’obsolescenza finanche ridicola di strutture come la Comunità Economica degli Stati dell’Africa Occidentale (in sigla francese CEDEAO ed ECOWAS in inglese), la quale nel 2023 avrebbe dovuto per conto di Parigi e di Washington e dei loro esclusivi interessi contrastare i cambiamenti in corso nelle nazioni del Sahel è del tutto evidente, il giorno dopo l’obbediente annuncio delle autorità nigeriane, disposte a invadere il Niger per ripristinare il potere franco – statunitense, milioni di nigeriani si sono riversati nelle piazze per contestare la subdola acquiescenza agli interessi imperialisti e manifestare la loro solidarietà ai nigerini, convincendo il governo a non avventurarsi in un’impresa militare di dubbia riuscita e che avrebbe definitivamente compromesso la tenuta interna del loro fragile regime impopolare.

Il fallimento dell’iniziativa trumpiana è ancora più evidente alla luce del fatto che due nazioni a vario titolo alleate e subalterne dell’Occidente, Costa d’Avorio e Nigeria, proprio perché timorose di mostrarsi agli occhi dei loro cittadini subalterni agli interessi occidentali, hanno rifiutato di presentarsi all’incontro di Washington, dimostrando i rispettivi presidenti di essere preoccupati per la tenuta dei loro regimi, sempre più fragili a fronte di un crescente malcontento popolare che avrebbe mal tollerato l’ennesima dimostrazione universalmente pubblica di servilismo nei confronti dell’Occidente.

Donald Trump ha provato a riannodare e consolidare almeno le relazioni con Senegal, Gabon, Guinea-Bissau, Mauritania e Liberia, tuttavia quelle con il Sengal appaiono molto compromesse, il Gabon del presidente Brice Clotaire Oligui Nguema ugualmente vuole chiamarsi fuori e i prossimi mesi dimostreranno quanto queste collaborazioni al pari di quelle con le altre tre nazioni saranno davvero solide e operative.

Vale la pena riepilogare le ricchezze che hanno convinto Trump ad aprile la Casa Bianca, il Gabon è il principale estrattore mondiale di manganese, ma esporta anche petrolio, uranio, oro, terre rare e legni pregiati, la Guinea-Bissau, i cui giovani inneggiano ogni giorno di più per le strade della capitale ad Amilcar Cabral, padre della patria ed eroe antimperialista, rendendo precaria la permanenza al potere di Umaro El Mokhtar Sissoco Embaló, primeggia in fosfati, bauxite, petrolio, gas e oro, la Liberia, nazione anglofona nata con il contributo dei movimenti antischiavisti e religioso – filantropici statunitensi nel 1847, tuttavia Trump non lo sa perché la storia non gli piace e ancor meno legge i resoconti preparatori che stilano i suoi collaboratori, stupendosi così dell’ottimo inglese dell’ottantenne presidente Joseph Boakai, ha giacimenti di oro e diamanti, la Mauritania, la quale ha tre milioni di abitanti, di cui mezzo milione in Europa, e due milioni di immigrati dall’Africa Subsahariana principalmente impegnati nel settore della pesca nella capitale Nouakchott, ovvero è la prima nazione al mondo – anche se nessuno se lo ricorda – per immigrazione, pari al 45% dei residenti, ha ferro, oro, rame, petrolio, gas naturale e terre rare, ma anche l’inveterata abitudine, confermata dall’attuale presidente Mohamed Ould Ghazouani, di mantenersi in perfetto equilibrio politico e amicale con tutte le nazioni e le forze in gioco nella regione dal Mediterraneo al golfo di Guinea, infine il Senegal, al momento il meno interessato alla collaborazione con gli statunitensi, possiede petrolio e gas, oro, fosfati e terre rare.

Trump dovrà pure dimostrarsi conseguente nei prossimi mesi rispetto alla richiesta espressa da tutti i presenti di concedere maggiori visti d’ingresso negli Stati Uniti, al momento oggetto di pesanti restrizioni al pari di tutta l’Africa, così come mostrare, almeno con quanti si sono seduti in questa occasione al suo stesso tavolo, maggiore disponibilità per una revisione al ribasso dei dazi, anche in questo caso imposti con grande sveltezza e minor accortezza a tutto il continente, mancano per altro due mesi all’eventuale rinnovo dell’accordo commerciale AGOA, “African Growth and Opportunity Act”, il cui nome “Accordo per la Crescita e le Opportunità Africane” è già di per sé ossimorico, inventato da Bill Clinton nel 2000 e rinnovato stancamente di quadriennio in quadriennio per un quarto di secolo, è stato un altro dei tanti strumenti d’aggressione statunitense, che ha invaso il continente di merci scadenti fuori mercato negli Stati Uniti, ma almeno contemplava per le nazioni firmatarie africane la possibilità di esportare nella terra a stelle e strisce con una riduzione dei dazi d’entrata.

L’Amministrazione Trump ha realizzato un comunicato conclusivo trionfalistico in cui si afferma che il continente africano non abbia mai avuto un amico come l’attuale presidente statunitense, un eccesso che non rasenta ma proprio cade nel ridicolo.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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