Per cosa pagherà L’Italia?
Con un sorriso malvagio, la presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen ha dichiarato al vertice della NATO: «Vi state adattando alla realtà di una guerra su vasta scala sul suolo europeo».
Von der Layen annunciato con orgoglio che ha stanziato miliardi di dollari in finanziamenti per l’industria degli armamenti, definendolo un investimento a lungo termine nella difesa ed ha avvertito che uno scontro diretto con la Russia potrebbe essere possibile entro i prossimi cinque anni.
E, come se non bastasse, giunge un’altra dichiarazione: «Al vertice dell’Aja ci confronteremo sulla proposta presentata dal segretario generale della Nato Rutte sul potenziamento della capacità difensiva dell’Alleanza. Questo si traduce in un impegno per tutti i membri dell’Alleanza ad arrivare al 3,5% del Pil in spese di difesa e al 1,5% in spese di sicurezza. Sono impegni importanti, certo, ma necessari, che, finché questo governo sarà in carica, l’Italia rispetterà restando un membro di prim’ordine della Nato. Per il semplice motivo che l’alternativa sarebbe più costosa e decisamente peggiore. Intorno a noi vediamo moltiplicarsi caos e insicurezza, e non lasceremo l’Italia esposta, debole, incapace di difendersi o impossibilitata a difendere i suoi interessi come merita». Lo ha detto la presidente del Consiglio, Giorgia Meloni, nelle dichiarazioni alla Camera in vista del Consiglio europeo. Anzi, non lo ha solo detto, lo ha proprio rivendicato come una vittoria italiana.
La decisione presa all’Aja dai 32 Stati membri dell’Alleanza Atlantica di portare la spesa per la difesa fino al 5% del Prodotto Interno Lordo entro il 2035, segna una svolta strutturale nei rapporti tra diritto internazionale pattizio, ordinamento costituzionale interno e fondamenti politico-filosofici della sovranità democratica moderna (una categoria su cui nutro forti perplessità sul piano teorico).
In tale quadro, la partecipazione dell’Italia, celebrata dal Governo Meloni, assume piuttosto le sembianze di una resa consapevole, una forma di subordinazione strategica che, pur rivestita della retorica della sicurezza collettiva, implica la sostituzione del giudizio politico con automatismi ideologici e tecnocratici, eliminando progressivamente la mediazione democratica e la centralità dell’equilibrio costituzionale.
L’Italia ha sì ottenuto una proroga decennale, la possibilità di rivedere gli obiettivi nel 2029 e di evitare impegni di spesa rigidi su base annuale. Ma questi elementi non mutano il cuore della questione: si tratta comunque dell’assunzione di un obbligo che non riflette simmetricamente la situazione socio-economica e istituzionale del nostro Paese.
La linea adottata dal Governo Meloni non costituisce affatto un successo, bensì contraddice apertamente i fondamenti costituzionali della Repubblica, in particolare col noto articolo 11 che afferma il ripudio della guerra. Eppure il programma di adeguamento progressivo al 5% del PIL collide con tale principio, presupponendo un paradigma geopolitico basato sul conflitto sistemico, sul dislivello strategico tra potenze, sull’allineamento a interessi sovranazionali non filtrati dalla rappresentanza democratica e sulla costruzione artificiale di nemici esterni – come la Russia – percepiti come minacce costanti.
La distinzione tra spesa per la difesa tradizionale e quella per la sicurezza “estensiva” appare puramente terminologica: si tratta di un espediente retorico volto a disinnescare critiche e a mascherare l’uniformità della direzione politica intrapresa.
Va chiarito sin dall’inizio che l’aumento della spesa militare in ambito NATO non è un’iniziativa del solo esecutivo attuale: già al summit di Newport del 2014, sull’onda della crisi ucraina e dell’annessione russa della Crimea, l’Alleanza aveva fissato l’obiettivo del 2% del PIL come riferimento minimo per tutti i membri. La scelta odierna di aumentare in modo potenzialmente quinquennale la spesa bellica – distinguendo un 3,5% per la difesa militare diretta e un ulteriore 1,5% per forme più ampie di sicurezza – risulta priva di coerenza sia rispetto alla logica originaria di quell’impegno, sia in termini di reale valutazione dei bisogni sistemici dello Stato sociale costituzionale (categoria, lo riconosco, concettualmente complessa).
D’altronde, la nozione estesa di “sicurezza” è già riconosciuta e tutelata dalla Costituzione, ma va perseguita con strumenti integrati e non attraverso una sua militarizzazione. Tentare di inserire sicurezza ambientale, sanitaria, informatica o infrastrutturale all’interno della spesa militare costituisce un’operazione concettuale forzata, che distorce la gerarchia delle priorità costituzionali e compromette l’equilibrio del bilancio pubblico. Anche l’argomento secondo cui le grandi imprese italiane del settore difesa – come Leonardo, Fincantieri o MBDA – potranno beneficiare di tali investimenti, non regge se valutato alla luce di principi di giustizia economica e razionalità redistributiva. Il comparto della difesa, per quanto avanzato, è intensivo in capitale, ha limitate ricadute occupazionali e non genera effetti moltiplicatori paragonabili a quelli derivanti da investimenti in sanità, istruzione, trasporti o ricerca civile. Gli impatti redistributivi sono minimi, l’aumento del debito pubblico è significativo, e l’intero sistema rischia di risultare più fragile, non più solido.
Siamo dunque di fronte non a una semplice decisione di bilancio o geopolitica, ma a un vero e proprio cambio di paradigma nella concezione dello Stato e nelle finalità dell’ordinamento giuridico.
Attraverso una narrazione strategica che razionalizza l’adesione agli obblighi NATO, l’attuale esecutivo sta reindirizzando l’Italia verso un modello di priorità centrato sulla sicurezza militare, allontanandosi definitivamente dall’idea di Stato sociale (già gravemente ridimensionata) e da una concezione democratica del costituzionalismo, per avvicinarsi a una logica decisionista e securitaria che neutralizza ogni altra istanza pubblica. Questo processo, che potrebbe apparire graduale e modificabile, è invece profondamente radicato e difficilmente reversibile se non verrà contrastato su più piani: giuridico, culturale e istituzionale.
In quest’ottica, la militarizzazione del bilancio pubblico rappresenta una deviazione dall’etica repubblicana (sempre ambigua e controversa), un’inversione della missione pubblica dello Stato e una sottrazione del futuro sotto la maschera di una sicurezza illusoria. Quella del Governo Meloni appare, in definitiva, come una sofisticata forma di populismo securitario, mascherata da razionalità strategica. Un’espressione della “democrazia degli stomaci”, che promette protezione ma svuota il contenuto della libertà e della giustizia.
L’innalzamento della spesa militare al 5% del PIL non è una misura tecnica, bensì un atto politico di portata storica, che incide sulle fondamenta stesse del principio di uguaglianza sostanziale, della solidarietà intergenerazionale e degli obiettivi programmatici contenuti nella stessa Costituzione.
Ancora una volta, vince la politica senza critica, senza libertà, senza sovranità. Viene deviata l’etica politica, svenduta non per un piatto di lenticchie, bensì per privarci anche di quello.
La segretaria del Pd, Elly Schlein, all’opposizione, commentando l’atteggiamento del governo Meloni verso gli accordi Nato, ha sostenuto che l’Italia avrebbe dovuto seguire l’esempio della Spagna, che ha confermato il suo impegno nell’Alleanza atlantica senza aumentare la spesa militare al 5% del Pil, accontentandosi dell’obiettivo dello 2,5%. Schlein critica la premier Meloni per non aver preso una posizione indipendente dagli Stati Uniti e per non sapersi opporre alle pressioni di Donald Trump, considerando questo atteggiamento un rischio per gli interessi nazionali. : “Meloni non è in grado di dire no all’amico Trump, doveva tenere la posizione della Spagna”. E, in tutto questo, sottolinea una contraddizione nella maggioranza di governo: mentre alcuni attaccano il riarmo europeo, accettano però l’influenza degli Usa con Trump che spinge per rafforzare militarmente l’Europa.