Una telefonata compromettente con l’ex leader cambogiano Hun Sen minaccia il governo thailandese, mentre la disputa di confine riaccende antiche tensioni. La crisi politica si intreccia con le manovre militari sino-cambogiane, testando la stabilità regionale e i fragili equilibri dell’ASEAN.
La Thailandia naviga in acque inedite dove una crisi di governo scatenata da una telefonata riservata si fonde con l’ennesima escalation militare al confine cambogiano. Questo circolo vizioso, che vede al suo centro la figura della premier Paetongtarn Shinawatra, rivela le profonde fragilità strutturali del regno. La giovane leader, in carica da soli dieci mesi, si trova a gestire simultaneamente la tenuta di una coalizione parlamentare sull’orlo del collasso e una disputa territoriale con la Cambogia che ha già causato morti, mentre i fantasmi dei colpi di Stato del passato incombono sullo sfondo.
Ripercorrendo quando accaduto nelle ultime settimane, lo scorso 28 maggio ha segnato una pericolosa svolta quando soldati thailandesi e cambogiani hanno ingaggiato un letale scambio di fuoco presso il villaggio di Morokot, causando la morte del sergente cambogiano Suwanna Rao. Le versioni dei due governi divergono radicalmente: Phnom Penh accusa Bangkok di aver attaccato una postazione storicamente controllata, mentre la Thailandia sostiene di aver reagito per legittima difesa. Nonostante il tempestivo accordo raggiunto a Surin il 29 maggio – con il ritiro delle truppe e il rinvio alla Commissione Congiunta di Confine – la sfiducia reciproca rimane palpabile. Questa disputa, per nulla nuova, affonda le radici nella demarcazione coloniale francese dell’Indocina, lasciando 820 km di confine parzialmente non demarcati e templi antichi come simboli contesi. Tra il 2008 e il 2011, infatti, si svolsero degli scontri proprio attorno al tempio di Preah Vihear, causando 28 vittime.
Quando la situazione sembrava essere tornata sotto controllo, il 2 giugno la Cambogia ha annunciato di voler deferire alla Corte Internazionale di Giustizia le dispute di confine, incluso il sito dello scontro di maggio. Questa decisione, approvata dall’Assemblea Nazionale dominata dal partito del primo ministro Hun Manet, opera su tre livelli: simbolico, richiamando la vittoria del 1962 a Preah Vihear; strategico, spostando la disputa dal piano bilaterale a quello giuridico internazionale; politico, segnalando sfiducia nei meccanismi esistenti nonostante gli accordi appena siglati. Il tempismo non è casuale: lo scontro confinario coincide con la conclusione delle imponenti esercitazioni “Golden Dragon-2025” tra Cina e Cambogia, descritte da Pechino come un “salto qualitativo” nella cooperazione militare. Questa dimostrazione di forza, comprendente per la prima volta operazioni aeronavali nel porto strategico di Sihanoukville, offre a Phnom Penh un cruciale paracadute geopolitico, ridisegnando gli equilibri regionali.
Il 15 giugno, una registrazione di 17 minuti esplode come una bomba nell’arena politica thailandese: nell’audio, si sente la premier Shinawatra conversare con lo storico leader cambogiano Hun Sen, padre dell’attuale primo ministro, usando un linguaggio informale che evoca i legami personali tra le famiglie Shinawatra e Hun (la premier thailandese si riferisce infatti al proprio interlocutore come “zio”). Ancora più grave, la rampolla della famiglia Shinawatra definisce il comandante militare thailandese Boonsin Padklang come la “parte avversaria” e dichiara a Hun Sen: “Se vuoi qualcosa, dimmelo pure e io me ne occuperò”, sminuendo istituzioni nazionali. Le conseguenze sono immediate: il partito Bhumjaithai (Partito dell’Orgoglio Thai), secondo pilastro della coalizione del governo di Bangkok, abbandona l’alleanza il 18 giugno, accusando la premier di “danneggiare la sovranità nazionale”. La coalizione si ritrova così con una maggioranza parlamentare risicatissima di 255 seggi su 495, sull’orlo del collasso.
La premier Paetongtarn reagisce con una controffensiva a tutto campo: il 19 giugno si presenta circondata da alti ufficiali militari per scusarsi pubblicamente, bollando la diffusione della registrazione come “teatrino politico”. Una visita simbolica alle truppe di confine accanto proprio al generale Boonsin – da lei stessa criticato – e le rassicurazioni del suo partito (“nessuna dimissione o scioglimento del parlamento”) mirano a ricostruire la credibilità dell’esecutivo agli occhi dei cittadini. Tuttavia, la pressione resta altissima: il partito Ruam Thai Sang Chart (Partito della Nazione Thailandese Unita) continua a minacciare di lasciare la coalizione, mentre manifestanti anti-Shinawatra hanno assediato la sede del governo. Nel frattempo, l’esercito, attraverso dichiarazioni ambigue che esortano all’”unità nazionale”, alimenta il fantasma dei colpi di Stato che deposero suo padre Thaksin e sua zia Yingluck.
In questo momento, dunque, la Thailandia affronta una crisi multidimensionale senza precedenti recenti. La sopravvivenza del governo è appesa alla lealtà di pochi deputati, con scenari che spaziano da eleizioni anticipate al ritorno dei militari sulla scena politica. Contemporaneamente, il ricorso cambogiano a L’Aia rischia di congelare il dialogo bilaterale, mentre le misure punitive reciproche danneggiano le economie locali. Questo intreccio pericoloso testa la capacità dell’ASEAN di mediare controversie bilaterali, soprattutto quando interferenze esterne e calcoli politici interni prevalgono sulla diplomazia. Le prossime settimane, con la riapertura del parlamento thailandese e l’evolversi della procedura alla Corte Internazionale di Giustizia, potrebbero determinare se la regione scivolerà nell’instabilità o troverà una via d’uscita negoziale, in un contesto dove ogni scintilla rischia di alimentare un nuovo incendio.