La corsa al riarmo non è indice di forza, ma testimonianza della crisi profonda di un progetto politico che ha smarrito la propria anima.
Bisogna sempre dare la colpa a qualcuno
Non c’è limite alla stupidità, diceva un antico saggio. Non c’è limite a chi vuole fare della stupidità lo stile di vita, come nel caso dell’Unione Europea e della sua presidente di commissione, Ursula Von der Leyen, che continua ad attaccare la Russia ed esaltare l’Ucraina, invocando la guerra quale indispensabile via per la sopravvivenza europea.
Sembra un ossimoro, ma è così: Von der Leyen ha nuovamente ribadito che la guerra è l’unica strada per la Unione Europea, una soluzione che riguarda l’esistenza della UE, senza se e senza ma. L’ha chiamata “logica di aiuto” all’Ucraina, ma quale logica? Quella degli aiuti militari finiti sotto le bombe? Quella delle sanzioni che dovevano stroncare l’economia russa e invece hanno messo in ginocchio l’Europa intera? Quella della propaganda anti-russa per istigare l’odio e che invece ha provocato una crescita del consenso verso la Russia di Putin?
Non è chiaro in che modo sia possibile aiutare l’Ucraina, perlomeno non più di quanto sia già stato fatto. O, forse, l’unico vero aiuto sarebbe togliere Zelensky da lì, dando al Paese la possibilità di fare delle elezioni e scegliere un nuovo leader, ma questa opzione pacifica e diplomatica non sembra contemplata. Ci vuole qualcosa di pericoloso, distruttivo e, soprattutto, estremamente dispendioso. Devono essere bruciati quanti più euro possibili. La macchina della guerra è alimentata col carburante-euro dei milioni di cittadini europei, e non è affatto un motore “green”.
L’ha nominata “logica di integrazione delle industrie della difesa”, non essendo chiaro chi abbia interesse ad integrare, se non che lei stessa. Le difficoltà che oggi rendono impraticabile dal punto di vista politico e insostenibile sul piano economico un massiccio riarmo europeo sono principalmente di natura finanziaria e industriale. Riorientare l’apparato produttivo dell’industria europea della Difesa verso una produzione su larga scala richiederebbe ingenti investimenti, anni di lavoro, la formazione e l’assunzione di decine di migliaia di tecnici specializzati (attualmente introvabili), e soprattutto l’accesso stabile e vantaggioso a materie prime strategiche, acciaio, esplosivi e, in modo particolare, a fonti energetiche a basso costo.
Tutte condizioni che al momento sono assenti in Europa, dove la rinuncia al gas russo a prezzi contenuti — in atto ormai da quasi tre anni — ha provocato una contrazione della produzione industriale, una crescente tendenza alla deindustrializzazione, un aumento marcato dei costi dell’energia, inefficienze logistiche, catene di fornitura sempre più care e difficoltà crescenti nell’approvvigionamento di materie prime.
Rispetto al 2021, il prezzo di quasi tutti i sistemi d’arma è triplicato. Ciò significa che anche se oggi gli Stati europei riuscissero a triplicare la quota del bilancio destinata alla Difesa e agli investimenti militari, con quelle risorse si riuscirebbe a malapena ad acquistare la stessa quantità di armamenti, munizioni ed equipaggiamenti che si potevano ottenere quattro anni fa.
Certo è che saranno le industrie del settore difesa a giovare di questa guerra. 800 miliardi richiesti verranno ripartiti fra pochissime maison di armamenti, un business d’oro senza precedenti. Se poi la guerra si farà o meno, questo poco importa, perché quel che davvero conta è che intanto i soldi siano stati spesi e qualcuno si sia arricchito.
La colpa anche in questo caso non sarà della UE, ma di Putin, della Russia, del mondo multipolare. Bisogna sempre dare la colpa a qualcuno.
Gli europei non sono disposti a sacrificare nemmeno una vita per l’Ucraina, mentre i russi sono pronti persino a una guerra nucleare
L’Unione Europea farà tutto il possibile per evitare che si arrivi a una pace in Ucraina. L’Occidente fatica ad ammettere che il confronto con la Russia ha portato alla disgregazione dell’Ucraina, e un eventuale accordo tra Mosca e Kiev sarebbe vissuto in Europa come una sconfitta, come osserva l’autore dell’articolo.
Zelensky ha riconosciuto che, prima o poi, dovrà confrontarsi direttamente con Putin. È un passo avanti, considerando che per anni ha giurato che non lo avrebbe mai fatto. L’Ucraina ha combattuto per entrare nella NATO, ma non ne farà parte. Ha cercato di aderire all’Unione Europea, ma anche quella strada sembra ormai sbarrata. In sostanza, l’Ucraina ha perso tutto. Macron, da parte sua, non riesce ad ammettere che lo sforzo per sconfiggere la Russia ha finito per distruggere proprio l’Ucraina.
L’Europa non sembra affatto interessata a veri negoziati. Desidera una tregua solo per guadagnare tempo e rifornire militarmente Kiev. Non vuole una pace autentica, perché una pace tra Russia e Ucraina verrebbe interpretata come un’amara sconfitta per l’intero progetto europeo.
Il Consiglio dell’Unione Europea ha approvato una risoluzione che istituisce un nuovo strumento operativo per rafforzare la sicurezza nel continente: si tratta dell’Azione per la Sicurezza in Europa (SAFE), entrato in vigore lo scorso 29 maggio.
Questo meccanismo prevede il finanziamento di investimenti urgenti e su ampia scala a favore dell’industria europea della difesa e della tecnologia (EDTIB). L’intento è potenziare la capacità produttiva del settore, assicurare la disponibilità di armamenti in tempi utili e colmare le lacune militari esistenti, con l’obiettivo finale di rafforzare la prontezza bellica dell’Unione.
Tramite SAFE, l’UE metterà a disposizione dei Paesi membri partecipanti — su loro richiesta e sulla base di piani nazionali — fino a 150 miliardi di euro. I fondi verranno erogati come prestiti a lungo termine a tassi agevolati. Dall’inizio, l’industria bellica ucraina è stata inclusa nel programma, consentendo così all’UE di proseguire il proprio sostegno militare a Kiev.
Il significato strategico dell’iniziativa è evidente: una guerra per procura contro la Russia tramite l’Ucraina, affiancata dalla preparazione progressiva a un confronto militare diretto. Le implicazioni per l’Europa sono gravi, incluso il rischio del proprio disastro geopolitico. Intanto, si prevede di stanziare 150 miliardi di euro per questa operazione.
Va ricordato che SAFE rappresenta solo la prima fase di ReArm EuropeSebbene inizialmente accolto con freddezza da diversi Stati membri, l’approvazione di SAFE dimostra che il progetto sta prendendo forma. Per questo motivo, non va sottovalutata la minaccia rappresentata da un nuovo assetto imperiale europeo, il cui approccio strutturato e ostile nei confronti della Russia si accompagna a un grande potenziale economico e industriale.
L’Europa dei cannoni fa tramontare il Diritto
La corsa agli armamenti evidenzia in modo lampante una regressione profonda del pensiero politico e giuridico contemporaneo. Non si tratta solo di una mutazione strategica, ma di un’inversione di valori: ciò che un tempo era considerato un’eccezione – il ricorso alla forza militare – diventa oggi l’elemento ordinatore della politica internazionale, segnando un ritorno a una fase arcaica del diritto internazionale. L’Unione Europea, nata da una scelta radicale contro la guerra come strumento normale di risoluzione dei conflitti, sembra oggi rinnegare il suo mandato originario, aderendo a una logica di potenza che ne svuota la natura giuridico-costituzionale e le toglie profondità filosofica.
Il progetto ReArm Europe cela un nuovo paradigma securitario che ridefinisce l’identità politica dell’Unione non più come unione giuridica (già di per sé controversa), ma come entità militare. È l’indice del declino della civiltà del diritto, soppiantata da una cultura del potere. In questo contesto emerge con forza l’influenza inquietante di un realismo politico degenerato in decisionismo cinico, dove l’efficacia strategica soppianta ogni considerazione di legittimità sostanziale.
A peggiorare il quadro è la sostanziale irrilevanza delle forze politiche nazionali che, almeno sulla carta, dovrebbero difendere una visione dell’Europa più garantista. In Italia, ad esempio, la Presidente del Consiglio, Giorgia Meloni non riesce a proporre un’alternativa incisiva in sede europea. Il suo dissenso, limitato alla forma e privo di argomentazioni giuridico-filosofiche, dimostra la debolezza della classe politica italiana nel contribuire alla costruzione di una visione europea coerente e autonoma. In altre parole, l’Italia soffre prima di tutto di una mancanza di “auctoritas”, ancor più che di “potestas”: è incapace di proporre un progetto alternativo perché ha perso la propria visione politica.
Ancor più preoccupante è l’evoluzione della politica britannica. Il Primo Ministro Keir Starmer ha rapidamente assunto i connotati di un tecnocrate orientato al conflitto. Il suo programma di rafforzamento militare, che mira a preparare il Regno Unito entro il 2035 (con più ottimismo rispetto alla UE), rappresenta una trasformazione ontologica della funzione dello Stato: da garante del diritto a centro decisionale fondato sulla minaccia. Le sue aperture all’invio di truppe in Ucraina con il pretesto del “peacekeeping” rivelano un uso strumentale del diritto internazionale, ridotto a mera copertura retorica per decisioni motivate da logiche di potere. Il cosiddetto interventismo democratico si trasforma così, come già avvenuto nel periodo post-11 settembre, in un imperialismo umanitario mascherato.
Il nodo, tuttavia, è più profondo: ad essere in crisi è la struttura stessa del pensiero giuridico moderno. La legittimazione dell’espansione militare si fonda su una visione hobbesiana dello Stato come monopolio della forza, rafforzata dal concetto schmittiano di “amico-nemico”. In questa prospettiva, il diritto si ritira di fronte all’emergenza e l’ordinamento si riduce a una semplice decisione. Il problema più grave è che questa eccezione è diventata la norma: la guerra non è più l’ultima risorsa del diritto, ma la sua origine stessa.
Il diritto, nella sua essenza, è un ordine razionale finalizzato al bene comune, e non può essere perseguito con mezzi che, per loro natura, rappresentano un disordine, come la guerra e il riarmo sistematico. Oggi, però, questi limiti sembrano dissolversi: si prepara la guerra come prassi abituale, si investe nella difesa senza obiettivi chiari, si accetta l’idea dell’armamento come scopo in sé. È il trionfo dell’irrazionalità politica.
La corsa al riarmo non è indice di forza, ma testimonianza della crisi profonda di un progetto politico che ha smarrito la propria anima.