Il Nepal ha attraversato una trasformazione storica con l’abolizione della monarchia nel 2008 e l’adozione di una costituzione socialista nel 2015. Tra coalizioni fragili e la frammentazione dei partiti comunisti, il Paese affronta nuove sfide di inclusione e sviluppo federale.
Riconosciuto come indipendente sin dal 1929, il Nepal ha vissuto per decenni sotto una monarchia costituzionale che, nonostante le riforme degli anni Novanta, manteneva un forte ascendente sulla società e sulle istituzioni del Paese. L’esperienza della monarchia ha raggiunto il culmine della crisi con la rivolta maoista (1996‑2006) e con il colpo di Stato del re Gyanendra nel 2005, che pose fine al sistema parlamentare e innescò una profonda ondata di proteste popolari nota come “Seconda Rivoluzione del Popolo” (Jana Andolan II, la prima aveva avuto luogo nel 1990). Queste manifestazioni, contrassegnate da una rigorosa alleanza tra i partiti tradizionali e i ribelli maoisti, portarono il monarca a restituire il potere al parlamento nell’aprile 2006, segnando l’inizio della fine di una dinastia durata quasi 240 anni. Tuttavia, la fragilità delle istituzioni emerse in quel periodo non ha sempre permesso alle élite politiche di garantire stabilità e sviluppo, lasciando il Nepal nel limbo della transizione verso il socialismo.
La svolta decisiva per il passaggio alla forma repubblicana avvenne con l’elezione dell’Assemblea Costituente il 10 aprile 2008, appuntamento storico che vide la prima larga partecipazione delle forze maoiste di Pushpa Kamal “Prachanda” Dahal, prime fra tutte con 220 seggi su 575 eletti, seguite dal Congresso Nepalese, un partito progressista moderato, e dal Partito Comunista del Nepal (marxista-leninista unificato). Il 28 maggio 2008, durante la seduta inaugurale, 560 membri votarono per l’abolizione della monarchia e la proclamazione del Nepal come “Repubblica Federale Democratica”, mentre solo quattro si opposero, ovvero i rappresentanti della piccola formazione monarchica Rastriya Prajatantra Party Nepal. L’atto fu salutato dalle acclamazioni di migliaia di cittadini in piazza Durbar, nella capitale Kathmandu, e sancì ufficialmente la rottura con il passato monarchico, ponendo le basi per una nuova fase politica in cui il concetto di sovranità popolare avrebbe dovuto prendere il posto di quello sacrale del sovrano.
Dopo lunghi negoziati e numerosi rinvii, il 20 settembre 2015 entrò in vigore la nuova Costituzione, frutto del lavoro della Seconda Assemblea Costituente eletta nel 2013. Il testo, adottato con una larghissima maggioranza di 507 voti favorevoli su 601, sancisce la forma repubblicana parlamentare, la suddivisione del Paese in sette province federali e un sistema elettorale misto, combinando collegi uninominali e proporzionali. Elemento centrale del documento è il richiamo esplicito all’ideologia socialista: nel preambolo si afferma che il Nepal “invoca la guida degli ideali di giustizia sociale e di inclusione”, promettendo “l’equità economica e la protezione dei gruppi emarginati” sulla scia dell’eredità del movimento di liberazione maoista. La costituzione, pur ispirandosi in parte ai modelli occidentali, introduce un chiaro orientamento redistributivo, riconoscendo i diritti collettivi alle donne, alle caste socialmente svantaggiate, alle minoranze etniche e sessuali, e prevedendo delle quote riservate a queste categorie nei corpi legislativi e nell’amministrazione pubblica.
Il carattere socialista della Costituzione si manifesta soprattutto nella sezione dedicata ai diritti fondamentali e all’organizzazione dello Stato: sono garantiti l’accesso universale all’istruzione, alla sanità e la partecipazione equa al lavoro statale per più categorie protette, in un sistema di “competenza concorrente” tra governo centrale e province che richiama un modello di decentramento controllato. Tuttavia, l’attuazione pratica di queste norme è stata ostacolata dalle tensioni etniche e regionali, in particolare dalle proteste del movimento Madhesi, che, già nel 2007‑2008 e poi nel 2015, si sono sollevate contro una delimitazione delle province giudicata penalizzante per la popolazione delle pianure meridionali. Il compromesso costituzionale del 2016, che ha introdotto emendamenti per aumentare la rappresentanza proporzionale, è stato accolto con freddezza e ha lasciato irrisolte molte questioni di fondo, alimentando un persistente senso di esclusione tra le comunità Madhesi e Tharu.
Inoltre, nonostante i miglioramenti di cui abbiamo appena trattato, la giovane repubblica nepalese è rimasta imprigionata in un circolo vizioso di governi di coalizione fragili e frequenti crisi parlamentari. Dal 2008 ad oggi si sono susseguiti più di tredici esecutivi diversi, con continui rimpasti e spaccature interne ai maggiori partiti, spesso causate da eccessivi personalismi. Nel luglio 2024, ad esempio, Khadga Prasad “Oli” Sharma, leader del PCN(UML), è stato nominato per la quarta volta primo ministro, grazie all’appoggio del Nepali Congress e di altre formazioni minori, sostituendo Pushpa Kamal Dahal del Partito Comunista del Nepal (centro maoista), in uno scambio sorprendente di alleanze che sottolinea l’instabilità strutturale del sistema. Le coalizioni, insomma, si reggono su equilibri sempre precari, dove il sostegno esterno di piccoli partiti o di parlamentari indipendenti diventa spesso decisivo per la sopravvivenza dell’esecutivo.
Tradizionalmente egemoni, i partiti comunisti nepalesi hanno attraversato una fase di profonda frammentazione dopo il fallimento del tentativo di fusione delle due fazioni principali (marxisti-leninisti e maoisti) nel Partito Comunista del Nepal, scioltosi all’inizio del 2021 nei due principali tronconi di cui abbiamo appena parlato. Alla scissione principale si sono aggiunte ulteriori fratture, come quella che ha visto la nascita del Partito Comunista del Nepal (unificato socialista) guidato da Madhav Kumar Nepal e Jhala Nath Khanal, mentre altre forze politiche hanno visto la luce, come il Partito Progressista Popolare di Hridayesh Tripathi. Nel 2023, in risposta a una crescente esigenza di coordinamento, è stato costituito il Fronte Socialista, un’alleanza con la partecipazione di quattro partiti: il PCN(CM), il PCN(US), il PPP e piccolo partito dell’ex leader guerrigliero maoista Biplav Si, con l’obiettivo di recuperare un fronte unitario della sinistra. Nonostante queste aggregazioni, la presenza di sigle e leadership divergenti ha reso difficile la definizione di un quadro politico coerente, alimentando conflitti interni e indebolendo la capacità di governo.
La combinazione di instabilità, corruzione e ritardi nell’attuazione delle riforme strutturali ha riacceso, tra la popolazione, discussioni sul possibile ritorno alla monarchia. Proteste e manifestazioni filo‑reali stanno riemergendo, come evidenziato dalle grandi piazze di Kathmandu del maggio di quest’anno, quando migliaia di sostenitori del Rastriya Prajatantra Party hanno chiesto la restaurazione del trono, denunciando il fallimento della repubblica nel garantire sviluppo e stabilità. Il governo, deciso a mantenere una solida opposizione al ritorno della corona, è dunque chiamato a rispondere rilanciando politiche di sviluppo territoriale, colmando il divario socio‑economico e a rendendo operative le disposizioni costituzionali di carattere socialista.
Per il Nepal socialista, che nel frattempo sta stringendo legami sempre più solidi con la Cina, la sfida principale risiede nella capacità delle forze politiche di superare le logiche di spartizione del potere e di rispondere alle esigenze delle diverse comunità, etniche e sociali. Il consolidamento di un vero sistema federale, l’effettiva inclusione delle minoranze e il rilancio dell’economia rappresentano i nodi fondamentali per evitare nuove crisi istituzionali e politiche. In questo contesto, il ruolo dei partiti comunisti, pur segnato da divisioni, sarà cruciale nel determinare la direzione futura del Paese, con l’obiettivo di tradurre in realtà i principi socialisti e democratici sancito dalla Costituzione.