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Lorenzo Maria Pacini
June 8, 2025
© Photo: Public domain

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento.

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L’approvazione della legge e il problematico articolo 31

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento. Il provvedimento introduce nuovi reati e inasprisce le pene per crimini già esistenti, che meritano di essere ancora approfonditi.

Come già accaduto con il disegno di legge originario, anche il decreto Sicurezza ha suscitato forti critiche da parte delle opposizioni. Tra gli articoli più contestati spicca il numero 31, che, secondo l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, rappresenterebbe «una vera e propria legalizzazione del terrorismo di Stato». La deputata del Partito Democratico ha pubblicato su X un commento allarmato: «Con una semplice firma della presidente del Consiglio, un agente dei servizi segreti potrà costituire e dirigere organizzazioni terroristiche con finalità internazionali o eversive, oltre a fabbricare e detenere esplosivi», cui ha aggiunto che sono state proprio le famiglie delle vittime di stragi a sollevare per prime preoccupazioni su queste norme, che secondo lei segnano «la più grave svolta autoritaria del governo Meloni». Sebbene sia normale che l’opposizione si esprima in senza contrario al governo in carica – altrimenti non sarebbe opposizione – è però indispensabile osservare con razionalità le critiche mosse.

Il decreto amplia senza dubbio i poteri attribuiti agli 007 italiani. L’articolo 31, in particolare, si concentra sul rafforzamento delle attività informative per la sicurezza nazionale, ovvero sulle funzioni dei servizi segreti. Da una parte, stabilizza alcune disposizioni temporanee degli anni passati; dall’altra, introduce novità rilevanti.

Per comprenderne la portata, bisogna partire dalla legge n. 124 del 2007, nota come “legge sull’Intelligence”, che regola le attività dell’AISE (servizi esteri) e dell’AISI (servizi interni). L’articolo 17 di questa legge stabilisce che certi comportamenti penalmente rilevanti non sono punibili se compiuti da agenti dei servizi nell’ambito delle loro funzioni istituzionali, purché autorizzati e motivati. La logica è che la sicurezza dello Stato, definita “suprema” dalla Corte Costituzionale, può giustificare alcune eccezioni al diritto penale.

Queste operazioni devono essere autorizzate tramite un atto formale del presidente del Consiglio o dell’autorità delegata, su richiesta dettagliata dei vertici dell’intelligence, e notificate al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), l’organismo che coordina AISE e AISI.

Ci sono tuttavia limiti definiti: non possono essere mai giustificati reati che ledono la vita, l’integrità fisica, la libertà, la salute o l’incolumità delle persone e non sono scriminabili reati per i quali non può essere invocato il segreto di Stato. Un passaggio che nel ddl era stato molto confuso e fumoso, che anche nella versione definitiva del testo approvato continua a risultare poco chiaro o, meglio, con un ampio margine di interpretazione.

Si osservi che prima del nuovo decreto, potevano essere considerati non punibili – con autorizzazione – reati come la partecipazione a gruppi terroristici o mafiosi, anche stranieri, mentre alcuni altri reati, invece, erano scriminabili solo in via temporanea, grazie a una norma del cosiddetto decreto “Antiterrorismo” del 2015.

Tale decreto – varato sotto il governo Renzi, con Boldrini presidente della Camera – proteggeva gli agenti da incriminazioni legate, ad esempio, alla partecipazione o al supporto di organizzazioni terroristiche, all’addestramento a fini terroristici, al finanziamento del terrorismo, alla propaganda e persino alla partecipazione a bande armate.

Il decreto “Sicurezza” ha ora inserito tutte queste deroghe direttamente nella legge sull’Intelligence, rendendole permanenti. L’articolo 31 ha esteso l’elenco dei reati scriminabili, includendo nella lista la direzione e l’organizzazione di gruppi terroristici o eversivi, la detenzione di materiali con finalità terroristiche, e persino la produzione e il possesso di esplosivi, nonché la diffusione di istruzioni per fabbricarli. Con l’articolo 31, tutte queste deroghe – in passato soggette a rinnovi – diventano strutturali. D’ora in poi, i reati elencati saranno sempre non punibili se compiuti da agenti in missione, a patto che l’operazione sia autorizzata e rispetti determinati criteri.

Non è però corretto dire, a rigor di testo normativo, che i servizi potranno “creare” organizzazioni terroristiche: la norma copre solo la direzione di strutture già esistenti come parte di operazioni di infiltrazione. Ma che vuol dire questo, se non che un escamotage per far uscire dalla porta e rientrare dalla finestra il già noto, grosso, oscuro problema dei legami fra Stato, Mafia, Terrorismo, Intelligence e Massoneria? Qui sta il punto della questione. E da qui non dovremmo schiodarci.

L’estensione della deroga anche a chi dirige o organizza gruppi terroristici è motivata da esigenze operative, era stato detto dal governo Meloni: per ottenere informazioni rilevanti, come piani d’azione o logistica, può essere essenziale che un infiltrato ricopra un ruolo di comando. Limitare questa possibilità significherebbe compromettere l’efficacia dell’intera operazione di intelligence. Quanto agli esplosivi, il ragionamento è simile: un agente può dover simulare un coinvolgimento profondo per ottenere la fiducia del gruppo e accedere a canali di comunicazione riservati, dove circolano istruzioni, guide e materiali sensibili. Senza questa copertura legale, tali infiltrazioni sarebbero praticamente impossibili. Il decreto, cercando di salvare capra e cavoli, stabilisce dei limiti “stringenti”: le condotte devono essere indispensabili, proporzionate e volte al conseguimento di obiettivi non raggiungibili altrimenti, che devono essere il risultato di una valutazione attenta degli interessi pubblici e privati coinvolti e causare il minor danno possibile.

Nonostante le garanzie formali, l’articolo 31 ha generato preoccupazioni anche al di fuori dell’arena politica. Alcuni studiosi temono che l’autorizzazione a dirigere organizzazioni terroristiche possa essere usata in modo abusivo, legittimando azioni pericolose e opache, con il rischio di alimentare fenomeni che la legge dovrebbe contrastare.

Anche le famiglie delle vittime di mafia e terrorismo hanno espresso “profonda indignazione” in un comunicato diffuso lo scorso gennaio, riferendosi al disegno di legge “Sicurezza”, poi quasi interamente assorbito nel decreto.

Va da ultimo segnalato che nel testo definitivo del decreto è stata eliminata una parte che avrebbe imposto a pubbliche amministrazioni, università e aziende di stipulare convenzioni con i servizi segreti per la condivisione di dati e informazioni, anche in deroga alle normative sulla privacy. Fatto che avverrà, ovviamente, e senza chiedere il permesso o notificarlo ad alcuno, così che potranno agire indisturbatamente, in barba alla democrazia e ai diritti costituzionali.

La nuova Legge Sicurezza non è uno scherzo e rischiamo di accorgercene troppo tardi

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento.

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L’approvazione della legge e il problematico articolo 31

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento. Il provvedimento introduce nuovi reati e inasprisce le pene per crimini già esistenti, che meritano di essere ancora approfonditi.

Come già accaduto con il disegno di legge originario, anche il decreto Sicurezza ha suscitato forti critiche da parte delle opposizioni. Tra gli articoli più contestati spicca il numero 31, che, secondo l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, rappresenterebbe «una vera e propria legalizzazione del terrorismo di Stato». La deputata del Partito Democratico ha pubblicato su X un commento allarmato: «Con una semplice firma della presidente del Consiglio, un agente dei servizi segreti potrà costituire e dirigere organizzazioni terroristiche con finalità internazionali o eversive, oltre a fabbricare e detenere esplosivi», cui ha aggiunto che sono state proprio le famiglie delle vittime di stragi a sollevare per prime preoccupazioni su queste norme, che secondo lei segnano «la più grave svolta autoritaria del governo Meloni». Sebbene sia normale che l’opposizione si esprima in senza contrario al governo in carica – altrimenti non sarebbe opposizione – è però indispensabile osservare con razionalità le critiche mosse.

Il decreto amplia senza dubbio i poteri attribuiti agli 007 italiani. L’articolo 31, in particolare, si concentra sul rafforzamento delle attività informative per la sicurezza nazionale, ovvero sulle funzioni dei servizi segreti. Da una parte, stabilizza alcune disposizioni temporanee degli anni passati; dall’altra, introduce novità rilevanti.

Per comprenderne la portata, bisogna partire dalla legge n. 124 del 2007, nota come “legge sull’Intelligence”, che regola le attività dell’AISE (servizi esteri) e dell’AISI (servizi interni). L’articolo 17 di questa legge stabilisce che certi comportamenti penalmente rilevanti non sono punibili se compiuti da agenti dei servizi nell’ambito delle loro funzioni istituzionali, purché autorizzati e motivati. La logica è che la sicurezza dello Stato, definita “suprema” dalla Corte Costituzionale, può giustificare alcune eccezioni al diritto penale.

Queste operazioni devono essere autorizzate tramite un atto formale del presidente del Consiglio o dell’autorità delegata, su richiesta dettagliata dei vertici dell’intelligence, e notificate al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), l’organismo che coordina AISE e AISI.

Ci sono tuttavia limiti definiti: non possono essere mai giustificati reati che ledono la vita, l’integrità fisica, la libertà, la salute o l’incolumità delle persone e non sono scriminabili reati per i quali non può essere invocato il segreto di Stato. Un passaggio che nel ddl era stato molto confuso e fumoso, che anche nella versione definitiva del testo approvato continua a risultare poco chiaro o, meglio, con un ampio margine di interpretazione.

Si osservi che prima del nuovo decreto, potevano essere considerati non punibili – con autorizzazione – reati come la partecipazione a gruppi terroristici o mafiosi, anche stranieri, mentre alcuni altri reati, invece, erano scriminabili solo in via temporanea, grazie a una norma del cosiddetto decreto “Antiterrorismo” del 2015.

Tale decreto – varato sotto il governo Renzi, con Boldrini presidente della Camera – proteggeva gli agenti da incriminazioni legate, ad esempio, alla partecipazione o al supporto di organizzazioni terroristiche, all’addestramento a fini terroristici, al finanziamento del terrorismo, alla propaganda e persino alla partecipazione a bande armate.

Il decreto “Sicurezza” ha ora inserito tutte queste deroghe direttamente nella legge sull’Intelligence, rendendole permanenti. L’articolo 31 ha esteso l’elenco dei reati scriminabili, includendo nella lista la direzione e l’organizzazione di gruppi terroristici o eversivi, la detenzione di materiali con finalità terroristiche, e persino la produzione e il possesso di esplosivi, nonché la diffusione di istruzioni per fabbricarli. Con l’articolo 31, tutte queste deroghe – in passato soggette a rinnovi – diventano strutturali. D’ora in poi, i reati elencati saranno sempre non punibili se compiuti da agenti in missione, a patto che l’operazione sia autorizzata e rispetti determinati criteri.

Non è però corretto dire, a rigor di testo normativo, che i servizi potranno “creare” organizzazioni terroristiche: la norma copre solo la direzione di strutture già esistenti come parte di operazioni di infiltrazione. Ma che vuol dire questo, se non che un escamotage per far uscire dalla porta e rientrare dalla finestra il già noto, grosso, oscuro problema dei legami fra Stato, Mafia, Terrorismo, Intelligence e Massoneria? Qui sta il punto della questione. E da qui non dovremmo schiodarci.

L’estensione della deroga anche a chi dirige o organizza gruppi terroristici è motivata da esigenze operative, era stato detto dal governo Meloni: per ottenere informazioni rilevanti, come piani d’azione o logistica, può essere essenziale che un infiltrato ricopra un ruolo di comando. Limitare questa possibilità significherebbe compromettere l’efficacia dell’intera operazione di intelligence. Quanto agli esplosivi, il ragionamento è simile: un agente può dover simulare un coinvolgimento profondo per ottenere la fiducia del gruppo e accedere a canali di comunicazione riservati, dove circolano istruzioni, guide e materiali sensibili. Senza questa copertura legale, tali infiltrazioni sarebbero praticamente impossibili. Il decreto, cercando di salvare capra e cavoli, stabilisce dei limiti “stringenti”: le condotte devono essere indispensabili, proporzionate e volte al conseguimento di obiettivi non raggiungibili altrimenti, che devono essere il risultato di una valutazione attenta degli interessi pubblici e privati coinvolti e causare il minor danno possibile.

Nonostante le garanzie formali, l’articolo 31 ha generato preoccupazioni anche al di fuori dell’arena politica. Alcuni studiosi temono che l’autorizzazione a dirigere organizzazioni terroristiche possa essere usata in modo abusivo, legittimando azioni pericolose e opache, con il rischio di alimentare fenomeni che la legge dovrebbe contrastare.

Anche le famiglie delle vittime di mafia e terrorismo hanno espresso “profonda indignazione” in un comunicato diffuso lo scorso gennaio, riferendosi al disegno di legge “Sicurezza”, poi quasi interamente assorbito nel decreto.

Va da ultimo segnalato che nel testo definitivo del decreto è stata eliminata una parte che avrebbe imposto a pubbliche amministrazioni, università e aziende di stipulare convenzioni con i servizi segreti per la condivisione di dati e informazioni, anche in deroga alle normative sulla privacy. Fatto che avverrà, ovviamente, e senza chiedere il permesso o notificarlo ad alcuno, così che potranno agire indisturbatamente, in barba alla democrazia e ai diritti costituzionali.

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento.

Segue nostro Telegram.

L’approvazione della legge e il problematico articolo 31

Mercoledì 4 giugno il Senato ha approvato in via definitiva il già noto decreto “Sicurezza”, fortemente voluto dal governo Meloni per velocizzare l’approvazione di molte misure già contenute nel disegno di legge omonimo, da tempo in stallo in Parlamento. Il provvedimento introduce nuovi reati e inasprisce le pene per crimini già esistenti, che meritano di essere ancora approfonditi.

Come già accaduto con il disegno di legge originario, anche il decreto Sicurezza ha suscitato forti critiche da parte delle opposizioni. Tra gli articoli più contestati spicca il numero 31, che, secondo l’ex presidente della Camera Laura Boldrini, rappresenterebbe «una vera e propria legalizzazione del terrorismo di Stato». La deputata del Partito Democratico ha pubblicato su X un commento allarmato: «Con una semplice firma della presidente del Consiglio, un agente dei servizi segreti potrà costituire e dirigere organizzazioni terroristiche con finalità internazionali o eversive, oltre a fabbricare e detenere esplosivi», cui ha aggiunto che sono state proprio le famiglie delle vittime di stragi a sollevare per prime preoccupazioni su queste norme, che secondo lei segnano «la più grave svolta autoritaria del governo Meloni». Sebbene sia normale che l’opposizione si esprima in senza contrario al governo in carica – altrimenti non sarebbe opposizione – è però indispensabile osservare con razionalità le critiche mosse.

Il decreto amplia senza dubbio i poteri attribuiti agli 007 italiani. L’articolo 31, in particolare, si concentra sul rafforzamento delle attività informative per la sicurezza nazionale, ovvero sulle funzioni dei servizi segreti. Da una parte, stabilizza alcune disposizioni temporanee degli anni passati; dall’altra, introduce novità rilevanti.

Per comprenderne la portata, bisogna partire dalla legge n. 124 del 2007, nota come “legge sull’Intelligence”, che regola le attività dell’AISE (servizi esteri) e dell’AISI (servizi interni). L’articolo 17 di questa legge stabilisce che certi comportamenti penalmente rilevanti non sono punibili se compiuti da agenti dei servizi nell’ambito delle loro funzioni istituzionali, purché autorizzati e motivati. La logica è che la sicurezza dello Stato, definita “suprema” dalla Corte Costituzionale, può giustificare alcune eccezioni al diritto penale.

Queste operazioni devono essere autorizzate tramite un atto formale del presidente del Consiglio o dell’autorità delegata, su richiesta dettagliata dei vertici dell’intelligence, e notificate al Dipartimento delle informazioni per la sicurezza (DIS), l’organismo che coordina AISE e AISI.

Ci sono tuttavia limiti definiti: non possono essere mai giustificati reati che ledono la vita, l’integrità fisica, la libertà, la salute o l’incolumità delle persone e non sono scriminabili reati per i quali non può essere invocato il segreto di Stato. Un passaggio che nel ddl era stato molto confuso e fumoso, che anche nella versione definitiva del testo approvato continua a risultare poco chiaro o, meglio, con un ampio margine di interpretazione.

Si osservi che prima del nuovo decreto, potevano essere considerati non punibili – con autorizzazione – reati come la partecipazione a gruppi terroristici o mafiosi, anche stranieri, mentre alcuni altri reati, invece, erano scriminabili solo in via temporanea, grazie a una norma del cosiddetto decreto “Antiterrorismo” del 2015.

Tale decreto – varato sotto il governo Renzi, con Boldrini presidente della Camera – proteggeva gli agenti da incriminazioni legate, ad esempio, alla partecipazione o al supporto di organizzazioni terroristiche, all’addestramento a fini terroristici, al finanziamento del terrorismo, alla propaganda e persino alla partecipazione a bande armate.

Il decreto “Sicurezza” ha ora inserito tutte queste deroghe direttamente nella legge sull’Intelligence, rendendole permanenti. L’articolo 31 ha esteso l’elenco dei reati scriminabili, includendo nella lista la direzione e l’organizzazione di gruppi terroristici o eversivi, la detenzione di materiali con finalità terroristiche, e persino la produzione e il possesso di esplosivi, nonché la diffusione di istruzioni per fabbricarli. Con l’articolo 31, tutte queste deroghe – in passato soggette a rinnovi – diventano strutturali. D’ora in poi, i reati elencati saranno sempre non punibili se compiuti da agenti in missione, a patto che l’operazione sia autorizzata e rispetti determinati criteri.

Non è però corretto dire, a rigor di testo normativo, che i servizi potranno “creare” organizzazioni terroristiche: la norma copre solo la direzione di strutture già esistenti come parte di operazioni di infiltrazione. Ma che vuol dire questo, se non che un escamotage per far uscire dalla porta e rientrare dalla finestra il già noto, grosso, oscuro problema dei legami fra Stato, Mafia, Terrorismo, Intelligence e Massoneria? Qui sta il punto della questione. E da qui non dovremmo schiodarci.

L’estensione della deroga anche a chi dirige o organizza gruppi terroristici è motivata da esigenze operative, era stato detto dal governo Meloni: per ottenere informazioni rilevanti, come piani d’azione o logistica, può essere essenziale che un infiltrato ricopra un ruolo di comando. Limitare questa possibilità significherebbe compromettere l’efficacia dell’intera operazione di intelligence. Quanto agli esplosivi, il ragionamento è simile: un agente può dover simulare un coinvolgimento profondo per ottenere la fiducia del gruppo e accedere a canali di comunicazione riservati, dove circolano istruzioni, guide e materiali sensibili. Senza questa copertura legale, tali infiltrazioni sarebbero praticamente impossibili. Il decreto, cercando di salvare capra e cavoli, stabilisce dei limiti “stringenti”: le condotte devono essere indispensabili, proporzionate e volte al conseguimento di obiettivi non raggiungibili altrimenti, che devono essere il risultato di una valutazione attenta degli interessi pubblici e privati coinvolti e causare il minor danno possibile.

Nonostante le garanzie formali, l’articolo 31 ha generato preoccupazioni anche al di fuori dell’arena politica. Alcuni studiosi temono che l’autorizzazione a dirigere organizzazioni terroristiche possa essere usata in modo abusivo, legittimando azioni pericolose e opache, con il rischio di alimentare fenomeni che la legge dovrebbe contrastare.

Anche le famiglie delle vittime di mafia e terrorismo hanno espresso “profonda indignazione” in un comunicato diffuso lo scorso gennaio, riferendosi al disegno di legge “Sicurezza”, poi quasi interamente assorbito nel decreto.

Va da ultimo segnalato che nel testo definitivo del decreto è stata eliminata una parte che avrebbe imposto a pubbliche amministrazioni, università e aziende di stipulare convenzioni con i servizi segreti per la condivisione di dati e informazioni, anche in deroga alle normative sulla privacy. Fatto che avverrà, ovviamente, e senza chiedere il permesso o notificarlo ad alcuno, così che potranno agire indisturbatamente, in barba alla democrazia e ai diritti costituzionali.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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