Lo Yemen rimane l’unico Paese arabo a sostenere apertamente la Palestina ed a portare avanti una lotta impari (ma sotto molti aspetti efficace) contro Israele. Qui si traccerà un breve profilo storico del gruppo al potere a Sana’a.
La regione di Sa’dah, nel nord dello Yemen, è stata, attraverso i secoli, il cuore primordiale e centrale dello zaydismo yemenita. Sotto certi aspetti, questo ha addirittura portato ad una specie di disconnessione tra le aree settentrionali dello Yemen (dove sono presenti anche alcune comunità sciite ismailite) e la parte meridionale dove prevaleva (e prevale ancora oggi) la scuola giuridica shafi’ita dell’Islam sunnita. Come noto, lo zaydismo è un ramo dell’Islam sciita il cui nome risale a Zayd b. ‘Ali, pronipote di Ali b. Abi Talib, cugino e genero del Profeta. Zayd era uno dei figli del quarto Imam dello sciismo Ali b. al-Husayn detto Zayn al-Abidin (l’“ornamento dei devoti”). La sua rivolta contro il potere califfale omayyade, partita nel 740 d. C. da Bassora, non ebbe particolare successo e, dopo la sua uccisione, il suo corpo venne crocifisso e lasciato in vista per diverso tempo a Kufa. Tuttavia, la scuola religiosa che da lui prese il nome ebbe modo di fiorire in alcune aree dello spazio islamico. In particolare, nel 897 d. C., il Sayyid Yahya b. al-Husayn riuscì a dare vita ad un’entità geopolitica zaydita nelle regioni settentrionali dell’attuale Yemen. I suoi insegnamenti vengono considerati come il fondamento teologico-politico della scuola giuridica Hadawi dello zaydismo. In essi si pone un’accesa enfasi sul concetto di “guida dei giusti”: ovvero, sulla necessità che il potere politico ricada su una sorta di platonici “re/filosofi” (sono diversi i punti di contatto tra lo zaydismo e la scuola neoplatonica islamica del mutazilismo). Questi “re/filosofi” non sono altro che i Sadah: l’aristocrazia islamica composta dai discendenti diretti di Muhammad.
Sul piano della mera giurisprudenza, non sono pochi gli studiosi che hanno sottolineato la sostanziale similarità tra zaydismo e shafi’ismo (le differenze si riducono a questioni concernenti la supremazia dei Sadah ed il diritto a candidarsi come “guida” della comunità). A partire dal XIX secolo, alcuni giuristi islamici (come Muhammad al-Shawkani) hanno cercato di promuovere una sorta di convergenza tra le due scuole integrando elementi propriamente sunniti nella scuola zaydita. L’obiettivo principale era quello di limitare la pratica zaydita della ribellione violenta (khuruj) contro un potere considerato ingiusto e tirannico in modo da consentire l’accettazione di un governo che non rispettasse in toto i canoni della dottrina Hadawi purché fosse comunque garante di stabilità. Questo approccio è stato ampiamente utilizzato dalla propaganda repubblicana dopo la guerra civile del 1962-70 al preciso scopo di favorire un certo atteggiamento quietista verso il potere da parte della popolazione zaydita nel nord dello Yemen. A ciò si aggiunga il nulla osta del governo centrale alla diffusione nelle stesse aree di una forma di islamismo assai affine con il wahhabismo saudita. Gli islamisti wahhabiti (che potevano usufruire di innumerevoli nuovi istituti di educazione religiosa finanziati dai sauditi) venivano infatti considerati come una forza capace di neutralizzare ogni potenziale minaccia di rivalsa zaydita dopo la caduta dell’imamato. A questo proposito, bisogna tenere a mente il fatto che molti yemeniti delle regioni di frontiera, recatisi per lavoro in Arabia Saudita, venivano automaticamente indottrinati al wahhabismo. Con la rottura tra Yemen e Arabia Saudita, scoppiata a seguito del sostegno del governo Saleh all’invasione irachena del Kuwait, la quasi totalità di questi lavoratori venne rimpatriata nello Yemen, generando non solo una notevole perdita in termini di rendita economica ma anche una crisi socio-culturale dovuta allo scontro tra le quasi intatte tradizioni locali ed il nuovo messaggio religioso portato dai migranti di ritorno.
Una delle personalità più influenti nella diffusione del wahhabismo nello Yemen è quella di Muqbil b. Hadi al-Wadi’i (1928-2001). Questi, dopo aver a lungo studiato in Arabia Saudita (ed esserne stato espulso a seguito dell’occupazione della Grande Moschea della Mecca nel 1979), fondò nell’area di Sa’dah (in terreni appartenenti alla propria famiglia) il centro studi Dar al-Hadith, lautamente finanziato in modo semiufficiale da istituzioni e uomini d’affari sauditi e di altre monarchie del Golfo. Da qui, Muqbil ed il suo successore, Yahya al-Hajuri hanno incitato migliaia di giovani yemeniti all’odio contro i propri connazionali zayditi, stigmatizzandoli come kuffar (non credenti o infedeli) ed al-rafidah (eretici). Il rigetto dello zaydismo retoricamente propugnato da Muqbil e soci ha assunto rapidamente forme violente, attraverso la distruzione di santuari e cimiteri zayditi (pratica assai comune per il wahhabismo ed i suoi derivati). Non solo. I wahhabiti cercarono di intervenire anche nell’amministrazione degli altri istituti educativi spingendoli a modificare i propri corsi di studi rimuovendo ogni riferimento allo zaydismo. Gli stessi fedeli zayditi venivano pubblicamente umiliati ed accusati di “deviazionismo”: ovvero, di aver introdotto nell’Islam innovazioni biasimevoli (bid’a). La situazione peggiorò ulteriormente quando nel 1998 venne nominato comandante militare della regione nord-occidentale dello Yemen Ali Mohsen al-Ahmar, considerato in ottimi rapporti tanto con i sauditi quanto con gli islamisti radicali sunniti yemeniti.
Di conseguenza, la comunità zaydita, dopo decenni di marginalizzazione e persecuzione (tra alta e bassa intensità) in cui, tra le altre cose, le venne impedito di celebrare le proprie festività tradizionali pubblicamente, non poté far altro che sviluppare i propri anticorpi.
Tra coloro i quali hanno maggiormente contribuito all’elaborazione teorico-teologica della rinascita zaydita spiccano i nomi di Majd al-Din Mu’ayyadi e del suo discepolo Badr al-Din al-Houthi (senza dubbio il più importante studioso zaydita a cavallo tra XX e XXI secolo). Il pensiero del secondo merita un breve approfondimento. Badr al-Din al-Houthi (1926-2010) faceva distinzione tra due forme di governo: imamah (il governo di un rappresentante dei Sadah) e ihtisab (il governo di un “amministratore” che semplicemente mette in atto la legge islamica ma non ha alcuna autorità né come legislatore né nel campo dell’ijtihad, l’interpretazione della legge islamica). Il secondo può essere eletto democraticamente e può anche non discendere dai Sadah. Tuttavia, a lui si deve obbedienza solo se appare timoroso di Dio e segue il principio zaydita di comandare il bene e proibire il male. Badr al-Din, alla pari del figlio Husayn (di cui si parlerà a breve) ebbe modo di soggiornare a lungo nell’Iran rivoluzionario, dove il suo pensiero incontrò le tematiche politico-sociali e geopolitiche della Rivoluzione khomeinista (l’enfasi sulla giustizia sociale, la difesa degli oppressi, la liberazione dallo sfruttamento, la resistenza all’egemonia occidentale). Nei primi anni ’90, in risposta alla diffusione del radicalismo wahhabita e la proliferazione degli istituti educativi ad esso collegati, Muhammad al-Houthi (uno dei figli di Badr al-Din) e Muhammad Yahya Izzan (un altro studente di Mu’ayyadi) crearono la Muntada al-Shabab al-Mu’minin (l’assemblea della gioventù credente) che iniziò i suoi lavori promuovendo la formazione di campi estivi in cui i giovani potevano approfondire gli studi teologici islamici in accordo con i precetti della dottrina zaydita. L’influenza della Gioventù Credente nella vita yemenita crebbe rapidamente. Dalla manciata di adepti del 1990 si arrivò agli oltre 15.000 studenti del 1994. Questi, oltre ai corsi dei già citati Izzan e Muhammad al-Houthi, seguivano con crescente entusiasmo le lezioni di altri due figli di Badr al-Din al-Houthi: Husayn e Yahya. Ad essi, inoltre, si aggiungevano personalità legate alle realtà tribali dell’area, come Abdulkarim Jadban e Salih Habrah. I corsi di Husayn al-Houthi, in particolare, si concentravano sulla diffusione del pensiero rivoluzionario di Muhammad al-Mansur e dei teologi sciiti libanesi Husayn Fadlallah e Hassan Nasrallah, legati ad Hezbollah.
Per tutto il corso dell’ultimo decennio del XX secolo, alcuni capi tribali dell’area di Sa’dah percepirono la crescita della Gioventù Credente come una potenziale minaccia al proprio sistema di potere. Questi, con l’appoggio del presidente Saleh, nelle elezioni del 1997 occuparono tutti i seggi parlamentari a disposizione del governatorato di Sa’dah. Un episodio che segnò la totale perdita della speranza in un cambiamento “democratico” da parte di Husayn al-Houthi. Così, il teorico zaydita, dopo un periodo di studio a Khartoum in Sudan, scelse di concentrarsi sull’attività sociale. In questo periodo, inoltre, le sue posizioni sul diritto/dovere dei Sadah al governo si scontrarono con l’impronta più quietista di Muhammad Izzan, che le definì più affini alla scuola giuridica giafarita (propria dello sciismo imamita iraniano) piuttosto che alla dottrina zaydita classica. Tale disputa portò nel 2001 alla definitiva frattura tra i due, con Husayn che diede vita al gruppo Ashab al-Shi’ar (seguaci del motto), nucleo originario del movimento che successivamente balzò agli onori delle cronache con il nome al-Huthiyyun. Il nome Ashab al-Shi’ar, per voce dello stesso Husayn al-Houthi, era direttamente collegato ad un episodio della Seconda Intifada in Palestina: l’uccisione a sangue freddo di giovane attivista palestinese, a Gaza, che morì tra le braccia del proprio padre. Husayn dichiarò che nel momento in cui vide quelle immagini in televisione gli venne naturale gridare ciò che è divenuto il motto degli Houthi yemeniti: “Dio è grande. Morte all’America. Morte a Israele. Maledizione sui giudei. Vittoria all’Islam”.
Nel 2001, il potenziale di aggregazione del motto di Husayn al-Houthi venne amplificato dagli eventi che seguirono gli attentati del 11 settembre a New York e Washington: in particolare, quella infausta “guerra al terrore” dell’amministrazione Bush che, tra distruzione di Stati sovrani, bombardamenti indiscriminati e crisi migratorie indotte, ebbe drammatici risvolti anche nello Yemen. A questo proposito, non bisogna dimenticare che già il 12 ottobre del 2000, la USS Cole (cacciatorpediniere della marina USA ancorata nel porto di Aden) subì un attentato, rivendicato da al-Qaeda, nel quale rimasero uccisi 17 marinai.
Nonostante gli sforzi del potere centrale, il messaggio di Husayn al-Houthi, con i suoi riferimenti al modello della Rivoluzione Islamica in Iran quale alta espressione di resistenza ed anti-imperialismo, continuò a fare proseliti tra la popolazione marginalizzata della regione di Sa’dah (costretta ad una cronica assenza di elettricità e di acqua potabile) e le aree limitrofe, superando le differenze di lignaggio, “classe” e di appartenenza tribale (soprattutto alla luce del fatto che molti capi tribali, inseriti nei gangli del potere centrale di Sana’a, finirono col dimenticare il loro ruolo tradizionale – provvedere al benessere del proprio gruppo – per accumulare ricchezze che in alcun modo venivano redistribuite). Così gli Houthi iniziarono a puntare il dito sulla corruzione diffusa e ad agire in chiave apertamente antistatale, saccheggiando le caserme delle forze di polizia, gli edifici governativi e le case degli Shaykh legati al Partito di Saleh o ad Islah (legato alla Fratellanza Musulmana). Obiettivo di simili azioni erano in primo luogo i generatori di corrente elettrica che venivano portati nei villaggi più remoti ed utilizzati a beneficio pubblico.
Le tensioni tra Sana’a e gli Houthi raggiunsero un punto di non ritorno quando nel gennaio del 2003, passando attraverso Sa’dah ma diretto verso la Mecca (dove avrebbe effettuato il tradizionale pellegrinaggio), il corteo presidenziale di Saleh (accompagnato dal potente capo tribale Abdullah al-Ahmar) si imbatté in una folla inferocita che gridava il motto degli Houthi. Lo stesso avvenne nel corso della visita dell’ambasciatore USA Edmund Hull alla moschea al-Hadi di Sa’dah. Questi, indignato dall’accaduto, si lamentò con le autorità yemenite che reagirono arrestando alcune centinaia di sostenitori del movimento creato da Husayn al-Houthi. In conclusione, quando Saleh scelse di rivolgersi direttamente ad Husayn invitandolo a raggiungere Sana’a dove avrebbe dovuto costituirsi, questi rispose con una lettera scritta di suo pugno in cui giurava fedeltà alla Repubblica, chiedeva allo stesso Saleh di non ascoltare gli “ipocriti e provocatori” e, allo stesso tempo, giurava che avrebbe fatto di tutto per combattere i nemici dell’Islam: l’America e Israele.
Il primo dei sei conflitti tra gli Houthi e le forze governative (coadiuvate da alcune milizie tribali della confederazione Hashid legate ad Abdullah al-Ahmar) iniziò nel giugno del 2004 con un’operazione di polizia contro Husayn al-Houthi a Marran (area montuosa ad ovest del governatorato di Sa’dah). Questi era ritenuto colpevole di sedizione per aver spinto la popolazione locale a pagare la zakat (uno dei cinque pilastri dell’Islam) ai Sadah locali e non alle istituzioni governative. L’estrema brutalità con la quale le forze governative si rapportarono alla ribellione, con tutta probabilità, colse gli stessi Houthi ampiamente impreparati. L’obiettivo dell’azione militare – vennero mobilitati oltre 20.000 unità (scegliendo appositamente sunniti) sostenute dall’impiego di mezzi corazzati e dall’appoggio aereo di cacciabombardieri ed elicotteri da combattimento – era l’arresto o l’uccisione di Husayn al-Houthi. Obiettivo che venne raggiunto il 2 settembre del 2004 quando Husayn, stretto sotto assedio intorno alle grotte di Jurf Salman, uscì allo scoperto per negoziare la resa ed un salvacondotto per i suoi seguaci e le loro famiglie asserragliate con lui. Una volta evacuate le caverne, Husayn venne ucciso sul posto da un ufficiale dell’esercito. Nei giorni successivi, le immagini del suo cadavere vennero apposte su alcuni cartelloni lungo le strade di Sa’dah come deterrente contro eventuali nuove ribellioni. Tuttavia, elevando inconsciamente la morte violenta di Husayn ad un livello mitico-sacrale, le forze governative ottennero il risultato opposto tra la popolazione sciita della regione. Qui, infatti, la prima guerra di Sa’dah diede vita ad una vera e propria letteratura martirologica in cui lo scontro di Jurf Salman veniva interpretato come una Kerbala contemporanea in cui uomini giusti, pur sapendo di avere scarse (o nessuna) possibilità di successo, scelsero di dare battaglia all’oppressore fino all’estremo sacrificio. Un comandante Houthi, a questo proposito, ha affermato: “Questa è una nuova Kerbala […] e questo è l’Husayn di Kerbala. Abbiamo dato nuovamente in dono il sangue di figli innocenti e giusti di Husayn”. Anche l’approccio estremamente violento dell’esercito (senza ottenere dei risultati militari significativi) – i vertici militari annunciarono che avrebbero piegato la rivolata in 48 ore, mentre furono necessari diversi mesi – non diede i frutti sperati. Oltre ai cospicui danni collaterali in termini di infrastrutture civili distrutte, l’azione acuì la distanza tra la popolazione locale ed un potere centrale assai poco interessato a cercare di migliorarne il basso tenore di vita. Una distanza che diverrà incolmabile nel corso dei successivi (e sempre più brutali) conflitti dai quali nessuna delle parti è riuscita ad uscire realmente vittoriosa (a prescindere dall’intervento diretto saudita in diverse occasioni, l’attiva partecipazione delle milizie di al-Qaeda in sostegno ai governativi, ed ai tentativi di mediazione operati sia dalla Libia che dal Qatar).
A questo proposito, inoltre, nonostante una propaganda governativa che cercava di dipingere gli Houthi come degli agenti iraniani, è bene riportare che non vi è alcuna prova reale di un coinvolgimento di Tehran a sostegno del gruppo ribelle prima del 2014. Di fatto, solo con l’inizio delle “primavere arabe” nel 2011 inizia a manifestarsi un interesse iraniano nella regione. Anche in questo caso, però, l’assistenza iraniana si è concentrata sul piano della logistica e sul trasferimento di conoscenze per la produzione di materiale bellico in loco (un qualcosa di simile a quanto avvenuto con l’ala militare di Hamas nella striscia di Gaza). Al contempo, è altrettanto vero che l’Iran ha trovato negli Houthi un potenziale alleato utile per portare avanti la propria agenda geopolitica regionale di fronte ai piani di progressivo accerchiamento nordamericano. Agli occhi di Tehran, infatti, il caso yemenita presentava diversi fattori che (come avvenuto in Libano negli anni ’80 del secolo scorso, o in Iraq dopo l’aggressione USA del 2003) potevano garantire un certo successo: a) una posizione strategica cruciale nel contesto dei flussi commerciali internazionali; b) delle condizioni favorevoli all’ingresso (uno Stato centrale sempre più debole e confini porosi); c) una popolazione sciita oppressa (è un dato di fatto che laddove ci sono sciiti, dall’Afghanistan al Libano, la Repubblica Islamica riesce ad esercitare un’influenza che non le riesce altrove); d) la possibilità di indebolire o tenere sotto costante pressione un rivale (in questo caso l’Arabia Saudita, ma lo stesso discorso vale per Libano/Israele) senza l’intervento diretto in un conflitto. A ciò si aggiunga il fatto che l’Iran predilige sempre un tipo di collaborazione impostata sul lungo periodo e, con esso, il consolidamento di realtà che divengono difficilmente estirpabili dal terreno nel quale nascono e prosperano (ancora una volta Hezbollah in Libano, gli stessi Houhti, alcuni gruppi delle Forze di Mobilitazione Popolare in Iraq o, sotto certi aspetti, Hamas e Jihad islamica in Palestina).
La conclusione della sesta ed ultima guerra di Sa’dah arrivò quasi in concomitanza con l’inizio di quel processo di “trasformazione” del mondo arabo che, a seguito dell’infausto discorso del Cairo di Barack Obama, portò rapidamente al collasso di alcuni governi regionali. L’obiettivo di Washington, neanche troppo velato, era stabilire l’egemonia atlantica sul mondo arabo col consenso arabo. Per raggiungere questo scopo, si rendeva necessario sia eliminare alcuni “regimi” apertamente (o parzialmente) ostili (Libia e Siria – non bisogna dimenticare che Assad, al momento della sua elezione non era affatto schierato su posizioni antioccidentali), sia alcuni “presidenti a vita” divenuti ormai impresentabili (Egitto, Tunisia). Allo stesso tempo, era necessario coinvolgere le potenze regionali in un ampio fronte contro l’Iran, considerato il nemico principale nella zona. Ma la realizzazione di tale fronte comportava la collaborazione degli Stati arabi col regime sionista; con i primi che dovevano garantire la loro complicità con Tel Aviv che, in cambio, avrebbe dovuto accettare la nascita di una insignificante entità palestinese” (una progettualità sancita anche dagli “accordi di Abramo” e dal “piano del secolo” trumpista).
Nello Yemen, gli eventi del 2011 conobbero una traiettoria del tutto particolare. Inizialmente, gli Houthi (che proprio in quell’anno assunsero il nome Ansarullah, “sostenitori/aiutanti di Dio) si trovarono dallo stesso lato della barricata dei loro nemici storici (il comandante militare Ali Mohsen e la famiglia al-Ahmar), i quali, a seguito delle manifestazioni di massa del 18 marzo (passato alla storia come il “venerdì della dignità”) si schierarono apertamente contro Saleh. In un secondo momento, invece, dopo la caduta “morbida” dello stesso Saleh, si allearono con quest’ultimo per sfruttarne (in modo assai pragmatico e grazie all’abile guida di Abdulmalik al-Houthi) l’abilità nel muovere le leve del potere e per assumere il controllo su quelle istituzioni in cui i suoi uomini facevano ancora il buono e cattivo tempo.
Il periodo che intercorre tra il marzo 2011 e l’assedio di Sana’a nel settembre 2014, di fatto, fu segnato da una enorme espansione territoriale degli Houhti resa possibile sia da un’astuta strategia militare, sia dall’attivismo politico a livello nazionale, sia da accordi segreti ed un sapiente e quasi continuo processo di ricostruzione delle alleanze.
Inutile negare che gli Houthi abbiano giovato non poco dall’alleanza con Saleh. Questo, infatti, nel momento stesso in cui venne costretto a cedere la presidenza al suo vice Abdrabbuh Mansur Hadi (in cambio dell’immunità) stava già valutando ogni possibile manovra per indebolire i suoi avversari e (ri)ottenere il potere per sé o per suo figlio Ahmad (a capo della forza di élite della Guardia Repubblicana).
In questo intermezzo, gli Houthi ebbero modo di partecipare anche alla Conferenza sul Dialogo Nazionale, volta a dare allo Yemen un sistema federale. Tuttavia, lo scopo essenziale della loro partecipazione era mettere costante pressione al governo di Hadi e forzarlo (attraverso la crescita costante della loro presenza nei dintorni di Sana’a) ad accettare precise richieste politiche. Una situazione che a partire dall’estate 2014 scivolò in una sorta di “caos controllato”, quando gli Houhti, sfruttando le proteste per i prezzi alle stelle del carburante (esito di un piano di riforma strutturale patrocinato dal Fondo Monetario Internazionale) ed in coordinazione con uomini della suddetta Guardia Repubblicana fedeli a Saleh, accerchiarono i palazzi del potere (edifici governativi, le case della famiglia al-Ahmar, la Banca Centrale, l’università salafita al-Iman e così via) e, successivamente (gennaio 2015), costrinsero Hadi a dimettersi dopo la formazione di un Comitato Rivoluzionario.
La fuga di Abdrabbuh Mansur Hadi (influente uomo dello Yemen meridionale) ad Aden e la sconfessione delle sue dimissioni (a suo dire, estorte con la forza da parte degli Houthi) portò ad un nuovo intervento militare saudita (in coalizione con altri Paesi arabi e con l’appoggio logistico USA, il cui comparto militare-industriale ha tratto profitti enormi dalla “crisi”) passato alla storia con il nome di operazione “Tempesta Decisiva”. Questa, terminata una volta che i sauditi dichiararono, evidentemente in modo erroneo, di aver raggiunto i loro obiettivi (rendere incapaci gli Houthi di offendere direttamente gli interessi del Regno), venne seguita dall’operazione (dal nome del tutto ironico) “Restauro della Speranza”. La nuova fase dell’intervento, tuttavia, si caratterizzò soprattutto per l’alta conflittualità tra i membri della coalizione: rottura delle relazioni con il Qatar da parte di Arabia Saudita, Egitto ed Emirati Arabi Uniti (legata anche alla gestione del conflitto siriano); frattura tra la stessa Arabia Saudita e gli Emirati Arabi Uniti che iniziarono (sostenendo le istanze del Consiglio di Transizione Meridionale filo-emiratino) a perseguire interessi che non convergevano direttamente con quelli di Riyad. Una frattura, quest’ultima, determinata anche dal fallimento della campagna del 2018 (a guida emiratina) per la riconquista del fondamentale porto di Hodeida, dal quale transitano rifornimenti ed introiti economici per Sana’a. Dopo alcuni iniziali successi attorno alla città, infatti, gli uomini della coalizione incontrarono notevole resistenza (subendo perdite consistenti) una volta penetrati al suo interno. Cosa che li costrinse alla ritirata.
Altri duri colpi all’operato della coalizione (oltre agli attacchi ai terminali petroliferi sauditi) sono arrivati nel 2017 con l’assassinio di Saleh (dopo che questo su pressione congiunta USA-saudita aveva abbandonato il matrimonio di convenienza con Ansarullah) e nel 2021 con la rimozione del movimento yemenita dalla lista delle organizzazioni terroristiche da parte ancora una volta degli Stati Uniti (pur mantenendo intatto il regime sanzionatorio per i vertici del gruppo). L’obiettivo di Washington, in quel caso, era facilitare il processo di riavvio dei negoziati sul nucleare iraniano dopo il ritiro unilaterale dal precedente accordo attuato dall’amministrazione Trump (estremamente attiva nel sostegno alla campagna militare nello Yemen e nella strategia della “massima pressione” contro Tehran) ed evitare una eccessiva coesione Russia-Iran. Obiettivo che, ad oggi, sembra non esser stato raggiunto, viste le evidenti difficoltà nel dialogo seguite all’intervento diretto della Russia (parte integrante dell’accordo precedente) nel conflitto civile ucraino.
Il reinserimento degli Houthi all’interno della lista è arrivato nel gennaio del 2024 a seguito della campagna delle forze yemenite contro le navi mercantili dirette verso Eilat, nella Palestina occupata, come rappresaglia contro la pulizia etnica del regime sionista a Gaza (un’azione capace di ridurre del 85%, rispetto all’anno precedente, gli ingressi nel porto del Mar Rosso). Azione che (forse) ha rappresentato la prima reale sfida alla globalizzazione ed all’egemonia nordamericana fondata sul controllo unilaterale dei flussi commerciali. Cosa che inserisce gli Houthi dello Yemen in quella lista di forze e Paesi (accusati di “revisionismo”) che mirano a ridisegnare un sistema internazionale di cui l’Occidente (e gli Stati Uniti in primis) si è fatto legislatore, giudice ed esecutore. Per tale motivo, suddetta azione è stata presentata dagli Stati Uniti come “attacco ed interruzione al commercio internazionale” (in realtà, ha interrotto semplicemente parte dei rifornimenti per l’entità sionista) e utilizzata per giustificare, oltre al sostegno alla causa genocida di Tel Aviv, una nuova aggressione a quella parte dello Yemen che ha a cuore la propria sovranità. Aggressione che, nuovamente, non ha portato alcun reale risultato strategico (nonostante le piuttosto imbarazzanti dichiarazioni di vittoria di Donald J. Trump), con gli Houthi che si dichiarano pronti a proseguire ed estendere la loro campagna di blocco ai principali porti ed aeroporti israeliani (in particolare, Haifa e Ben Gurion).