Business
Giacomo Gabellini
May 13, 2025
© Photo: Public domain

La Cina può resistere all’assalto economico degli Stati Uniti?

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Nei giorni scorsi, una platea di 32 economisti interpellata da «Reuters» ha espresso l’opinione che la guerra tariffaria scatenata all’inizio di aprile dall’amministrazione Trump, via via concentratasi – provvisoriamente – sulla sola Repubblica Popolare cinese, avrebbe prodotto un considerevole impatto sull’export cinese. Nello specifico, si riteneva che il valore complessivo delle vendite all’estero realizzato dall’ex Celeste Impero nel mese scorso sarebbe cresciuto dell’1,9% su base annua, a fronte di un aumento del 12,4% (9,1% verso gli Usa) conseguito a marzo per effetto dell’anticipazione sistematica delle spedizioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi.

Secondo il punto di vista di questo gruppo di specialisti, la rilevanza rivestita dal mercato statunitense per l’economia cinese risulta decisamente sottostimata, come si evince dal contenuto dal rapporto pubblicato pochi giorni fa da Nomura Bank. Il documento sostiene che, includendo nel computo i flussi transitanti attraverso il canale “ufficioso” di Hong Kong e le intermediazioni realizzate tramite Paesi terzi (Vietnam, Messico, ecc.),  gli Stati Uniti abbiano in realtà assorbito il 20,6% delle esportazioni di beni totalizzate dalla Repubblica Popolare Cinese nel corso del 2024. Secondo lo studio, il 2,2% del Pil cinese sarebbe entrato direttamente nel mirino delle tariffe statunitensi, con conseguente dimezzamento potenziale del volume delle esportazioni. I contraccolpi in termini di mancata crescita sul breve termine sono stati quantificati dalla banca giapponese nell’1,1% del Pil. Il clima opprimente venutosi a creare per effetto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump si è tradotto in un brusco calo del Purchasing Managers Index (Pmi) cinese, contrattosi a ritmi mai così rapidi da ben 16 mesi.

Contrariamente alle aspettative, i dati relativi al conto cinese delle partite correnti per il mese di aprile attestano un aumento dell’export su base annua dell’8,1%, e una riduzione delle importazioni dello 0,2% – contro un calo previsto del 5,9%. Nel dettaglio, l’export verso gli Stati Uniti è crollato su base annua di più del 21%; l’import, del 14%. Nei primi quattro mesi del 2025, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti erano diminuite su base annua del 2,5%: le importazioni, del 4,7%. Addirittura più sbilanciate risultano le relazioni commerciali con l’Unione Europea, con un aumento dell’export su base annua dell’8,3% eclissato da una caduta del 16,5% dell’import – a marzo, l’export era cresciuto del 10,3%; l’import era diminuito del 7,5%.

In compenso, l’export cinese verso l’Asean è cresciuto su base annua del 20,8%, a fronte di un aumento dell’11,6% registrato il mese precedente. Se Vietnam e Malesia figurano come destinazioni principali, un incremento decisamente consistente è stato capitalizzato anche nei confronti di Indonesia (37%) e Thailandia (28%). Segno che i Paesi dell’Asean, saldamente integrati nella catena del valore cinese, stanno approvvigionandosi a ritmo sospinto di materie prime e beni industriali per accelerare la produzione prima della scadenza della “tregua tariffaria” di 90 giorni annunciata da Trump a inizio aprile. Il trend positivo sembra quindi destinato a consolidarsi nel corso dei prossimi mesi, ma, afferma Dan Wang dell’Eurasia Group, «i dati commerciali potrebbero peggiorare rapidamente qualora i dazi del 145% nei confronti della Cina rimanessero in vigore e i colloqui dei Paesi dell’Asean con l’amministrazione Trump non registrassero progressi».

Per gli Stati Uniti, il cui deficit commerciale nei confronti del resto del mondo riflette un contesto di deindustrializzazione avanzata, i contraccolpi risulterebbero tuttavia di gran lunga più pesanti. Il mancato raggiungimento di un’intesa con la Cina e/o con i Paesi appartenenti alla sua “periferia fordista” si tradurrebbe inesorabilmente in un salasso per i consumatori statunitensi ed anche in una penuria di beni critici, stante l’impossibilità di reperirli altrove. L’amministrazione Trump ne è perfettamente consapevole, come testimoniato sia dalla decisione assunta già il 12 aprile di esonerare prodotti elettronici cinesi dalla campagna tariffaria, sia dai recenti segnali di apertura inviati all’indirizzo di Pechino.

Il presidente Trump, dal canto suo, ha dichiarato che le tariffe «scenderanno», mentre il segretario al Commercio Howard Lutnick ha posto l’accento sulla necessità tassativa di una de-escalation con la Cina. Nei prossimi giorni, il segretario al Tesoro Scott Bessent si incontrerà a Ginevra con il vicepremier cinese He Lifeng per definire un accomodamento da cui, secondo quanto riportato da «Bloomberg», Washington spera di ottenere sia la revoca della restrizioni introdotte di recente da Pechino sull’export di terre rare verso gli Stati Uniti, sia una riduzione rapida e reciproca dei dazi al di sotto della soglia del 60%.

L’export cinese continua a correre nonostante i dazi degli Stati Uniti, che invocano un accordo

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Nei giorni scorsi, una platea di 32 economisti interpellata da «Reuters» ha espresso l’opinione che la guerra tariffaria scatenata all’inizio di aprile dall’amministrazione Trump, via via concentratasi – provvisoriamente – sulla sola Repubblica Popolare cinese, avrebbe prodotto un considerevole impatto sull’export cinese. Nello specifico, si riteneva che il valore complessivo delle vendite all’estero realizzato dall’ex Celeste Impero nel mese scorso sarebbe cresciuto dell’1,9% su base annua, a fronte di un aumento del 12,4% (9,1% verso gli Usa) conseguito a marzo per effetto dell’anticipazione sistematica delle spedizioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi.

Secondo il punto di vista di questo gruppo di specialisti, la rilevanza rivestita dal mercato statunitense per l’economia cinese risulta decisamente sottostimata, come si evince dal contenuto dal rapporto pubblicato pochi giorni fa da Nomura Bank. Il documento sostiene che, includendo nel computo i flussi transitanti attraverso il canale “ufficioso” di Hong Kong e le intermediazioni realizzate tramite Paesi terzi (Vietnam, Messico, ecc.),  gli Stati Uniti abbiano in realtà assorbito il 20,6% delle esportazioni di beni totalizzate dalla Repubblica Popolare Cinese nel corso del 2024. Secondo lo studio, il 2,2% del Pil cinese sarebbe entrato direttamente nel mirino delle tariffe statunitensi, con conseguente dimezzamento potenziale del volume delle esportazioni. I contraccolpi in termini di mancata crescita sul breve termine sono stati quantificati dalla banca giapponese nell’1,1% del Pil. Il clima opprimente venutosi a creare per effetto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump si è tradotto in un brusco calo del Purchasing Managers Index (Pmi) cinese, contrattosi a ritmi mai così rapidi da ben 16 mesi.

Contrariamente alle aspettative, i dati relativi al conto cinese delle partite correnti per il mese di aprile attestano un aumento dell’export su base annua dell’8,1%, e una riduzione delle importazioni dello 0,2% – contro un calo previsto del 5,9%. Nel dettaglio, l’export verso gli Stati Uniti è crollato su base annua di più del 21%; l’import, del 14%. Nei primi quattro mesi del 2025, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti erano diminuite su base annua del 2,5%: le importazioni, del 4,7%. Addirittura più sbilanciate risultano le relazioni commerciali con l’Unione Europea, con un aumento dell’export su base annua dell’8,3% eclissato da una caduta del 16,5% dell’import – a marzo, l’export era cresciuto del 10,3%; l’import era diminuito del 7,5%.

In compenso, l’export cinese verso l’Asean è cresciuto su base annua del 20,8%, a fronte di un aumento dell’11,6% registrato il mese precedente. Se Vietnam e Malesia figurano come destinazioni principali, un incremento decisamente consistente è stato capitalizzato anche nei confronti di Indonesia (37%) e Thailandia (28%). Segno che i Paesi dell’Asean, saldamente integrati nella catena del valore cinese, stanno approvvigionandosi a ritmo sospinto di materie prime e beni industriali per accelerare la produzione prima della scadenza della “tregua tariffaria” di 90 giorni annunciata da Trump a inizio aprile. Il trend positivo sembra quindi destinato a consolidarsi nel corso dei prossimi mesi, ma, afferma Dan Wang dell’Eurasia Group, «i dati commerciali potrebbero peggiorare rapidamente qualora i dazi del 145% nei confronti della Cina rimanessero in vigore e i colloqui dei Paesi dell’Asean con l’amministrazione Trump non registrassero progressi».

Per gli Stati Uniti, il cui deficit commerciale nei confronti del resto del mondo riflette un contesto di deindustrializzazione avanzata, i contraccolpi risulterebbero tuttavia di gran lunga più pesanti. Il mancato raggiungimento di un’intesa con la Cina e/o con i Paesi appartenenti alla sua “periferia fordista” si tradurrebbe inesorabilmente in un salasso per i consumatori statunitensi ed anche in una penuria di beni critici, stante l’impossibilità di reperirli altrove. L’amministrazione Trump ne è perfettamente consapevole, come testimoniato sia dalla decisione assunta già il 12 aprile di esonerare prodotti elettronici cinesi dalla campagna tariffaria, sia dai recenti segnali di apertura inviati all’indirizzo di Pechino.

Il presidente Trump, dal canto suo, ha dichiarato che le tariffe «scenderanno», mentre il segretario al Commercio Howard Lutnick ha posto l’accento sulla necessità tassativa di una de-escalation con la Cina. Nei prossimi giorni, il segretario al Tesoro Scott Bessent si incontrerà a Ginevra con il vicepremier cinese He Lifeng per definire un accomodamento da cui, secondo quanto riportato da «Bloomberg», Washington spera di ottenere sia la revoca della restrizioni introdotte di recente da Pechino sull’export di terre rare verso gli Stati Uniti, sia una riduzione rapida e reciproca dei dazi al di sotto della soglia del 60%.

La Cina può resistere all’assalto economico degli Stati Uniti?

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Nei giorni scorsi, una platea di 32 economisti interpellata da «Reuters» ha espresso l’opinione che la guerra tariffaria scatenata all’inizio di aprile dall’amministrazione Trump, via via concentratasi – provvisoriamente – sulla sola Repubblica Popolare cinese, avrebbe prodotto un considerevole impatto sull’export cinese. Nello specifico, si riteneva che il valore complessivo delle vendite all’estero realizzato dall’ex Celeste Impero nel mese scorso sarebbe cresciuto dell’1,9% su base annua, a fronte di un aumento del 12,4% (9,1% verso gli Usa) conseguito a marzo per effetto dell’anticipazione sistematica delle spedizioni in vista dell’entrata in vigore dei dazi.

Secondo il punto di vista di questo gruppo di specialisti, la rilevanza rivestita dal mercato statunitense per l’economia cinese risulta decisamente sottostimata, come si evince dal contenuto dal rapporto pubblicato pochi giorni fa da Nomura Bank. Il documento sostiene che, includendo nel computo i flussi transitanti attraverso il canale “ufficioso” di Hong Kong e le intermediazioni realizzate tramite Paesi terzi (Vietnam, Messico, ecc.),  gli Stati Uniti abbiano in realtà assorbito il 20,6% delle esportazioni di beni totalizzate dalla Repubblica Popolare Cinese nel corso del 2024. Secondo lo studio, il 2,2% del Pil cinese sarebbe entrato direttamente nel mirino delle tariffe statunitensi, con conseguente dimezzamento potenziale del volume delle esportazioni. I contraccolpi in termini di mancata crescita sul breve termine sono stati quantificati dalla banca giapponese nell’1,1% del Pil. Il clima opprimente venutosi a creare per effetto dei dazi imposti dall’amministrazione Trump si è tradotto in un brusco calo del Purchasing Managers Index (Pmi) cinese, contrattosi a ritmi mai così rapidi da ben 16 mesi.

Contrariamente alle aspettative, i dati relativi al conto cinese delle partite correnti per il mese di aprile attestano un aumento dell’export su base annua dell’8,1%, e una riduzione delle importazioni dello 0,2% – contro un calo previsto del 5,9%. Nel dettaglio, l’export verso gli Stati Uniti è crollato su base annua di più del 21%; l’import, del 14%. Nei primi quattro mesi del 2025, le esportazioni cinesi verso gli Stati Uniti erano diminuite su base annua del 2,5%: le importazioni, del 4,7%. Addirittura più sbilanciate risultano le relazioni commerciali con l’Unione Europea, con un aumento dell’export su base annua dell’8,3% eclissato da una caduta del 16,5% dell’import – a marzo, l’export era cresciuto del 10,3%; l’import era diminuito del 7,5%.

In compenso, l’export cinese verso l’Asean è cresciuto su base annua del 20,8%, a fronte di un aumento dell’11,6% registrato il mese precedente. Se Vietnam e Malesia figurano come destinazioni principali, un incremento decisamente consistente è stato capitalizzato anche nei confronti di Indonesia (37%) e Thailandia (28%). Segno che i Paesi dell’Asean, saldamente integrati nella catena del valore cinese, stanno approvvigionandosi a ritmo sospinto di materie prime e beni industriali per accelerare la produzione prima della scadenza della “tregua tariffaria” di 90 giorni annunciata da Trump a inizio aprile. Il trend positivo sembra quindi destinato a consolidarsi nel corso dei prossimi mesi, ma, afferma Dan Wang dell’Eurasia Group, «i dati commerciali potrebbero peggiorare rapidamente qualora i dazi del 145% nei confronti della Cina rimanessero in vigore e i colloqui dei Paesi dell’Asean con l’amministrazione Trump non registrassero progressi».

Per gli Stati Uniti, il cui deficit commerciale nei confronti del resto del mondo riflette un contesto di deindustrializzazione avanzata, i contraccolpi risulterebbero tuttavia di gran lunga più pesanti. Il mancato raggiungimento di un’intesa con la Cina e/o con i Paesi appartenenti alla sua “periferia fordista” si tradurrebbe inesorabilmente in un salasso per i consumatori statunitensi ed anche in una penuria di beni critici, stante l’impossibilità di reperirli altrove. L’amministrazione Trump ne è perfettamente consapevole, come testimoniato sia dalla decisione assunta già il 12 aprile di esonerare prodotti elettronici cinesi dalla campagna tariffaria, sia dai recenti segnali di apertura inviati all’indirizzo di Pechino.

Il presidente Trump, dal canto suo, ha dichiarato che le tariffe «scenderanno», mentre il segretario al Commercio Howard Lutnick ha posto l’accento sulla necessità tassativa di una de-escalation con la Cina. Nei prossimi giorni, il segretario al Tesoro Scott Bessent si incontrerà a Ginevra con il vicepremier cinese He Lifeng per definire un accomodamento da cui, secondo quanto riportato da «Bloomberg», Washington spera di ottenere sia la revoca della restrizioni introdotte di recente da Pechino sull’export di terre rare verso gli Stati Uniti, sia una riduzione rapida e reciproca dei dazi al di sotto della soglia del 60%.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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