In un contesto caratterizzato da estrema divisione (dalla presenza di numerose fazioni influenzate dall’esterno e spesso in contrasto tra loro), l’obiettivo della guida politica irachena rimane quello di sfruttare la geografia come strumento per divenire un attore regionale di primo livello sul piano geopolitico e geoeconomico.
Già nel corso del regime di Saddam Hussein, l’Iraq aveva lanciato il progetto Dry Canal (canale asciutto) al preciso scopo di trasformare il Paese in un corridoio commerciale capace di unire l’Europa e l’Asia attraverso il Vicino Oriente. Il nome del progetto derivava dall’idea che l’Iraq avrebbe dovuto rappresentare un canale terrestre verso il Vecchio Continente (a differenza dell’egiziano, e marittimo, Canale di Suez ) e sfruttare tale capacità di interconnessione per il proprio sviluppo economico interno. Tuttavia, una serie di guerre e sanzioni hanno impedito la realizzazione di tale progetto. Non bisogna dimenticare che uno degli obiettivi di Saddam nel 1980, quando diede il via all’aggressione all’Iran, era quello di sfruttare il caos provocato dalla Rivoluzione islamica per acquisire pieno controllo sul corso d’acqua dello Shatt al-Arab (fondamentale per le esportazioni petrolifere), in modo anche da preparare il terreno per l’idea dell’Iraq come “perno” (pivot) regionale dei flussi commerciali.
Proprio lo Shatt al-Arab è stato al centro dello scontro geopolitico tra Iran (prima e dopo la Rivoluzione) ed Iraq. Non solo, l’Iraq stesso è stato a lungo terra di confine e contesa tra l’Impero ottomano e quello safavide e qajaride. Nello specifico, a partire dal 1514, anno dell’offensiva ottomana guidata dal Sultano Selim I contro l’Impero safavide, in questa regione si sono combattute almeno venticinque differenti guerre, con un picco della tensione a cavallo tra il XVI ed il XVIII secolo. Rispettivamente, ci sono stati sette differenti conflitti militari nel XVI secolo, nove nel XVII ed altri sette nel XVIII.
Inutile dire che i conflitti tra i due attori siano progressivamente diminuiti con il ridimensionamento del potere di entrambi gli imperi. Non sorprendentemente, nel XIX secolo, in concomitanza con la rapida penetrazione nell’area di Francia, Gran Bretagna e Russia, si conta un solo conflitto frontaliero tra i due.
Dunque, gli attuali confini occidentali dell’Iran e orientali dell’Iraq sono il prodotto di innumerevoli accordi e trattati internazionali spalmati su un arco di tempo che dal 1555 arriva fino al 1975. Il Trattato di Amasya, ad esempio, venne firmato nel 1555 tra lo Shah Tahmasb ed il sultano Solimano il Magnifico. In base a questo accordo, l’odierno Iraq passò sotto la sovranità ottomana. Al termine di una nuova fase di conflitto tra le due potenze, e dopo che lo Shah Abbas il Grande riportò sotto il controllo safavide parte della regione mesopotamica, la Persia conobbe un nuovo periodo di decadenza che portò alla firma del Trattato di Qasr-e Shirin (1639). Con esso i i Safavidi rinunciavano per sempre alla loro presenza nei territori iracheni che rimasero sotto dominio ottomano fino al termine della Prima Guerra Mondiale. Il periodo successivo fu caratterizzato da una crescita costante della presenza britannica nell’area. Londra era infatti intenzionata ad aprirsi un corridoio strategico via terra per rifornire la Compagnia delle Indie Orientali. Nel XVIII secolo, gli Ottomani, alleati con alcune tribù sunnite afghane, conquistarono alcune città della Persia occidentale, mentre proprio gli Inglesi approfittarono della situazione per prendere possesso di alcune regioni a ridosso del Golfo Persico (isole comprese) e dell’Oceano Indiano a sud dell’Altopiano Iranico.
Con l’ascesa al potere di Nadir Shah e della dinastia afsharide (1736-1796), gli Ottomani, costretti sulla difensiva, cercarono di allearsi con i Britannici in chiave antipersiana. I ripetuti scontri tra Afsharidi e Ottomani portarono alla firma del Trattato di Gardan con il quale le parti riconoscevano, di fatto, i confini previsti dal precedente Trattato di Qasr-e Shirin.
Nel 1821, probabilmente su istigazione russa (Mosca era interessata ad uno scontro che indebolisse entrambe le parti per facilitare la sua penetrazione nel Caucaso), i due imperi entrarono nuovamente in conflitto. I Persiani, questa volta governati dalla nuova dinastia dei Qajar, riuscirono ad occupare alcune città dell’Anatolia orientale ma, successivamente, con il primo Trattato di Erzurum (mediato da Russia e Gran Bretagna) riconobbero nuovamente la linea di frontiera stabilita ai tempi di Nadir Shah. Tutti questi trattati avevano comunque il difetto di non delineare dei confini chiari tra le due entità geopolitiche. Essi, più generalmente, ne indicavano solo alcuni punti. Sulla base di questa incertezza, mentre i Persiani erano impegnati ad Herat in una sanguinosa battaglia contro le tribù afghane, gli Ottomani, sostenuti dagli Inglesi, occuparono il fondamentale centro urbano di Khorramshahr, nell’area sud-occidentale dell’Altopiano. I Qajar reagirono organizzando una spedizione militare contro la Sublime Porta ma Russi e Inglesi convinsero lo Shah a desistere ed intavolare nuove trattative che portarono al secondo Trattato di Erzurum (1847). Questo Trattato, per la prima volta nella storia, indicava in modo preciso quello che sarebbe dovuto essere il confine tra lo Stato dei Qajar e l’Impero Ottomano. In particolare, stabiliva che: “il governo persiano accetta che i territori a ovest di Zahab appartengono al governo ottomano, così come quest’ultimo riconosce la sovranità persiana sui territori a est di Zahab e della valle di Karand. Il governo persiano rinuncia a qualsiasi pretesa per quello che riguarda la città e la provincia di Suleimanyah, non interferendo negli affari della medesima, così come il governo ottomano riconosce la sovranità persiana sulle città a ovest del fiume Arvand (Shatt al-Arab) e riconosce la sovranità persiana su Khorramshahr e Abadan. Inoltre, le navi persiane sono libere di navigare nel fiume Arvand, dal punto in cui il corso d’acqua sfocia nel mare sino al punto in cui è stabilito il confine tra le parti”.
Come già riportato, attorno a questo corso d’acqua strategico (il fiume Arvand o Shatt al-Arab) si concentreranno le rivendicazioni reciproche che portarono al conflitto negli anni ’80 del XX secolo. Ulteriori diatribe nacquero a seguito della scoperta del petrolio nei primi anni del XX secolo, visto che le regioni più ricche si trovavano proprio lungo la linea di frontiera. Ancora una volta, a mediare un accordo furono i più che interessati emissari britannici. Questi, insieme a Russi, Persiani e Ottomani, siglarono un nuovo accordo a Istanbul nel 1913 che stabiliva il confine lungo 227 punti, dal monte Ararat fino alla foce dello Shatt al-Arab nel Golfo Persico, con gli Inglesi che si videro assicurata la navigazione nel corso d’acqua delle loro navi adibite al trasporto del greggio.
Un nuovo accordo venne preso nel 1935 a seguito di un rinnovato periodo di tensione questa volta tra l’Iraq sottoposto a mandato britannico e l’Iran di Reza Khan. Già in quel periodo, ad onor del vero, si palesò la volontà irachena di occupare alcune città del Khuzestan. Tuttavia, Reza Khan, forse spinto degli Inglesi e dando ulteriore prova di uno spirito non esattamente patriottico, diede all’Iraq ampie concessioni sulla navigazione nel corso d’acqua, arrivando addirittura a rinunciare alla navigazione iraniana in alcune aree. La situazione si complicò ulteriormente quando nel 1958, a seguito del colpo di Stato militare di Kassem in Iraq ed all’uscita di questo dal Patto di Baghdad, le controversie assunsero una dimensione “globale” andando a legarsi allo scontro tra Stati Uniti ed Unione Sovietica. Ad esse si aggiunse la componente ideologica panarabista che vedeva le regioni arabofone dell’Iran come parte integrante della “Grande Patria Araba” (non a caso, Saddam Hussein definì la guerra contro l’Iran del 1980 come una nuova “Qadisiyya”, dal nome della battaglia del 636 nella quale le forze arabo-musulmane sconfissero l’esercito sasanide). A questo scopo, il governo militare di Baghdad sostenne la creazione di un’organizzazione paramilitare nota con il nome di Jabhat at-Tahrir (Fronte di Liberazione) che si proponeva l’obiettivo di “liberare” ed annettere all’Iraq le città di Khorramshahr, Ahvaz e l’intero Khuzestan (o Arabistan, per le autorità di Baghdad). I toni si ammorbidirono con la fine del governo di Kassem nel 1963, ma una serie di rivolte curde tra il 1964-1965 (sostenute dall’Iran) e la salita al potere del Ba’ath nel 1968 a Baghdad contribuirono a far aumentare nuovamente la tensione. I nuovi vertici iracheni, nello specifico, dichiararono quasi immediatamente che l’Iran non aveva alcun diritto di navigazione sullo Shatt al-Arab e che questo era un corso d’acqua interno all’Iraq. Un nuovo scontro si ebbe nel 1971, quando lo Shah, in cambio del riconoscimento dell’indipendenza del Bahrein (territorio storicamente legato all’Iran) fino ad allora sotto protettorato britannico, ottenne la sovranità su alcune isole (Tunb al-Kubra, Tunb al-Sughra e Abu Musa) che l’Iraq considerava parte integrante della Nazione araba e che la stessa Gran Bretagna avrebbe preferito attribuire agli Emirati Arabi Uniti. Le scaramucce di frontiera che ne seguirono e le continue rivendicazioni e provocazioni su entrambi i lati portarono a nuovi tentativi di mediazione da parte delle Nazioni Unite e dell’OPEC. Proprio grazie all’OPEC (e ad un intenso lavoro diplomatico dell’Algeria di Houari Boumédiène) si giunse alla cosiddetta “Dichiarazione di Algeri” del 1975 poi rigettata da Saddam al momento dell’attacco del settembre 1980.
Lo scontro militare, estremamente brutale e caratterizzato da ridotti successi su entrambi i fronti, si risolse con un semplice ritorno allo status quo antecedente il conflitto. Con Saddam che, sentendosi tradito dai suoi alleati arabi, si imbarcò in una nuova disastrosa avventura bellica: l’occupazione del Kuwait. Anche in questo caso, l’obiettivo era non solo prendere possesso delle importanti risorse petrolifere del piccolo Stato del Golfo Persico, ma soprattutto allargare lo spazio marittimo di Baghdad. Di fatto, quando gli Stati Uniti (ed i membri della coalizione da loro guidata) intervennero in difesa del Kuwait non avevano tanto a cuore la lesa sovranità della monarchia araba. Motivo principale del loro intervento fu il rischio (evidente) che l’Iraq venisse in impossesso di risorse energetiche e geografiche tali da renderlo potenza egemone regionale. Non a caso, anche nel corso della guerra Iran-Iraq, gli Stati Uniti sostennero alternativamente entrambi i fronti (sebbene, ad un certo punto, si preferì investire tutto su Baghdad) al preciso scopo di indebolire e dissanguare entrambi gli attori regionali. Henry Kissinger, a questo proposito, ebbe modo di dichiarare che avrebbe assai gradito la sconfitta di entrambi.
Ancora, con la nuova aggressione all’Iraq del 2003 da parte della cosiddetta coalizione dei volenterosi (guidata sempre dagli USA) si volle nuovamente minare il progetto iracheno di apertura verso l’Europa. L’intervento, infatti, si proponeva di rovesciare un regime, sì profondamente logoro, ma che si era macchiato del peccato di aver favorito la penetrazione di compagnie petrolifere europee (francesi soprattutto) e di aver scelto l’euro come valuta di riferimento delle proprie transazioni petrolifere. Un’aggressione che, dunque, aveva poco a che fare con la “guerra al terrore” o al contrasto alla proliferazione di presunte armi di distruzione di massa, e molto a che fare con una “guerra economica” contro l’Europa (episodio niente affatto isolato, si pensi al conflitto contro la Serbia del 1999).
Ad ogni modo, la caduta di Saddam, paradossalmente, favorì l’altro nemico regionale degli Stati Uniti: la Repubblica Islamica dell’Iran. Questa poté finalmente esercitare la propria influenza diretta sulla comunità sciita irachena, favorendo al contempo un’opera di penetrazione politica, economica e militare (l’ultima soprattutto a seguito dello scontro con il sedicente “Stato Islamico”) che ha portato l’Iraq a divenire un mercato fondamentale per le esportazioni iraniane. Nel 2023, queste hanno raggiunto la cifra considerevole di 9 miliardi di dollari ed hanno rappresentato uno strumento di rilievo per contrastare la strategia sanzionatoria della “massima pressione” contro la Repubblica Islamica iniziata nel corso della prima amministrazione Trump.
Ad oggi, gruppi politici e milizie filo-iraniane (la maggior parte delle cosiddette Forze di Mobilitazione Popolare, nate in opposizione all’estremismo dello pseudo-califfato, sono di matrice khomeinista; sono state addestrate dalle forze Quds dei Pasdaran e sono state inserite a tutti gli effetti all’interno di quel circuito di alleanze informali che corrisponde al nome di “Asse della Resistenza”) hanno esteso in modo preponderante la loro influenza sul tessuto economico iracheno, assecondando lo sviluppo dell’interdipendenza tra i due Paesi (da non dimenticare che la presenza di importanti luoghi di culto dello sciismo comporta un notevole afflusso annuale di pellegrini iraniani in Iraq). Bisogna riconoscere, inoltre, che l’azione di penetrazione iraniana in Iraq, portata avanti con successo da Qassem Soleimani (assassinato dall’amministrazione Trump nel 2020 proprio in Iraq, visto che per ammissione dell’allora Segretario di Stato Mike Pompeo rappresentava una minaccia agli interessi USA), è riuscita a garantirsi l’appoggio anche di importanti personalità sunnite in passato apertamente ostili nei confronti di Teheran; mentre, paradossalmente, gruppi sciiti (soprattutto quelli legati a Muqtada al-Sadr, protagonisti anche della prima guerra civile del 2006) hanno cercato di smarcarsi da Teheran sostenendo posizioni filo-arabe.
Con la caduta di Damasco, infine, l’Iraq diviene l’ultima reale linea difensiva per l’Iran nello scontro (più o meno) asimmetrico contro Israele. Non dovrebbero sorprendere, dunque, le pressioni degli Stati Uniti al Parlamento iracheno affinché vengano disarmate suddette milizie filo-iraniane ed il rischio che la nuova destabilizzazione della Siria contagi l’Iraq (il governo gihadista di al-Jolani sembra aver intenzione di arrivare alla resa dei conti con Hezbollah in Libano, anche per assecondare Israele, e non è da escludere che i gruppi terroristici ad esso legati possano penetrare in Iraq per favorire una nuova esplosione del conflitto settario).
Ora, se è vero che i metodi puramente coercitivi volti a contrastare la presenza iraniana in Iraq sembrano non aver riscosso particolare successo; lo stesso non si può dire per quelli di natura geoeconomica. In questo caso, è di particolare importanza il nuovo progetto Development Road (strada dello sviluppo) patrocinato da Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti. Questo ambizioso piano infrastrutturale da completare entro il 2050 (con un costo previsto di 20 miliardi di dollari), alla pari del Dry Canal degli anni ’80, è rivolto nuovamente ad unire l’Asia all’Europa attraverso Iraq (Kerbala, Baghdad e Mosul) e Turchia. Qatar e Emirati Arabi Uniti sarebbero i patrocinatori finanziari del progetto, mentre la Turchia ne sarebbe la forza geopolitica trainante. L’obiettivo di contrasto geoeconomico all’Iran è abbastanza chiaro. Turchia, Qatar ed Emirati Arabi Uniti hanno iniziato da tempo il loro lavoro di lenta penetrazione nel tessuto economico iracheno. Il Qatar possiede il 25% del Gas Growth Integrated Project (progetto di sviluppo e ammodernamento dell’industria gassifera irachena); gli Emirati, a loro volta, sono intenzionati a mettere a mano sui bacini gassiferi dell’Iraq meridionale, mentre hanno già investito notevoli risorse finanziarie sulla costruzione del porto di al-Faw (che dovrebbe diventare il più grande porto del Medio Oriente, rappresentando un’alternativa sia ai porti iraniani di Bandar Abbas e Chabahar, sia un competitore diretto dei porti kuwaitiani – fattore che potrebbe scatenare una nuova fase conflittuale tra Iraq e la dinastia al-Sabah, anche per le mai sopite contese territoriali-marittime).
Al contempo, la Turchia mira ad estendere la sua influenza sul nord dell’Iraq anche per evitare una sorta di continuità territoriale tra la porzione di Siria occupata dagli Stati Uniti in cooperazione con le Forze Democratiche Siriane (a maggioranza curda) e la regione autonoma del Kurdistan iracheno che non ha mai nascosto la sua volontà di indipendenza. La posizione turca è del tutto particolare, visto che al successo del neo-ottomanesimo sul piano geopolitico esterno, fa da contraltare una difficile situazione politico-economica interna. Nel 2024, le aziende chiuse sono aumentate del 24%, ed il grave dato economico si cela anche dietro le attuali ondate di proteste seguite all’arresto del sindaco di Istanbul.
Per ciò che concerne l’Iran, esiste la preoccupazione che il progetto possa lenire le aspirazioni di Teheran a divenire il vero crocevia dell’interconnessione eurasiatica. Tuttavia, bisogna considerare che ogni progetto che si pone in contrasto aperto con l’IMEC – India-Middle East Corridor (la cosiddetta “Via del Cotone” patrocinata da Stati Uniti ed Israele in particolar modo) viene visto di buon occhio dalla Repubblica Islamica, soprattutto alla luce del fatto che la Cina sembra favorevole all’inserimento della Devolpmente Road all’interno della “Nuova Via della Seta” (trasformandola in arteria fondamentale alla pari del China-Pakistan Economic Corridor). La DR, infatti, ridurrebbe la via tra Cina ed Europa di 15 giorni, favorendo un aumento progressivo del commercio attraverso il Medio Oriente (e verso l’Europa) che si prevede del 15% annuo nel prossimo futuro. In questo contesto geoeconomico, appare evidente anche il fatto che la Development Road possa rappresentare un fattore di tensione tra Turchia ed Israele, con Tel Aviv già preoccupata dall’apertura dell’ombrello militare turco in Siria. A ciò si aggiunga che Israele non considera affatto positivamente un eccessivo sviluppo economico dell’Iraq (già al centro delle parcellizzazioni etnico-settarie previste all’interno del celebre Piano Yinon degli anni ’80). La creazione di un Iraq forte sul piano economico e demografico, capace di una sapiente politica di multiallineamento, e con una notevole influenza religiosa e militare iraniana, di fatto, costituisce un vero e proprio incubo geopolitico per i vertici politici israeliani già impegnati in una dispendiosa guerra su più fronti.