Cosa sta succedendo in Siria, dopo la caduta del governo di Assad? La partita a scacchi tra le grandi potenze continua.
Lo scorso 24 febbraio il nuovo Governo ha organizzato una Conferenza per il dialogo nazionale, riunendo a Damasco esponenti delle varie comunità ed espressioni della società siriana e confrontandosi sulla direzione che il Paese dovrebbe prendere. “La Siria – ha detto il leader Ahmad Al-Sharaa – ha un’opportunità eccezionale, storica e rara. Dobbiamo sfruttare ogni momento per servire gli interessi del nostro popolo e del nostro Paese”. Ai circa 600 delegati presenti è stato chiesto di fornire raccomandazioni sulle principali questioni in agenda: la creazione di un sistema di giustizia che agevoli la transizione, la stesura di una nuova Costituzione, le riforme e l’ammodernamento delle istituzioni statali, la garanzia delle libertà personali e della società civile e il futuro modello economico della Siria. Secondo il comitato organizzatore le raccomandazioni, pur non essendo vincolanti, saranno recepite dal nuovo Governo di transizione che entrerà in carica il prossimo 1° marzo. Al-Sharaa ha affermato che presto verrà costituito un organo di giustizia transitoria per “ripristinare i diritti delle persone” e chiamare a rispondere coloro che hanno commesso crimini contro i siriani durante la guerra civile. Ha inoltre ribadito che i gruppi armati non statali devono disarmarsi: “l’unità delle armi e il loro monopolio da parte dello Stato non sono un lusso, ma un dovere e un obbligo – ha affermato – La Siria è indivisibile; è un tutto completo e la sua forza risiede nella sua unità”.
La realtà sul terreno è però completamente diversa rispetto alle sue parole.
L’alleanza delle milizie curde (Sdf) che controlla buona parte della Siria nord-orientale e che finora ha rifiutato di integrare le proprie forze nel nuovo esercito siriano, sarebbe stata esclusa dalla Conferenza di dialogo nazionale, poiché avrebbe messo il nuovo Governo in una posizione difficile con uno dei suoi principali alleati: la Turchia. Ankara, infatti, è formalmente in guerra contro le Sdf, che teme possano destabilizzare le regioni a maggioranza curda del sud est del Paese, al contrario gli Stati Uniti considerano i curdi gli alleati più affidabili nella lotta contro lo Stato Islamico e, oggi, centinaia di soldati nordamericani rimangono in queste zone, ufficialmente per contrastare le cellule dormienti dell’ISIS ma in realtà per continuare a rubare il petrolio e il grano siriani.
All’indomani del crollo di Assad, i tank israeliani hanno oltrepassato le Alture del Golan occupato, estendendo il loro controllo su una zona cuscinetto nel sud della Siria. Tra le misure “preventive” prese da Tel Aviv nelle 48 ore seguite all’arrivo delle milizie jihadiste a Damasco ci sono state l’affondamento della flotta siriana e l’occupazione del monte Hermon, un’altura dalla forte importanza strategica a circa 60 chilometri dalla capitale siriana. Raid aerei israeliani sono proseguiti tra gennaio e febbraio, alimentando timori di un’occupazione militare prolungata. Domenica scorsa il premier Benjamin Netanyahu ha chiesto “la completa smilitarizzazione” delle province meridionali di Quneitra, Daraa e Suwayda, mentre il Ministro della Difesa Israel Katz ha avvisato che Israele “non permetterà che la Siria meridionale diventi come il Libano meridionale”. Il presidente Al-Sharaa ha reagito invocando l’intervento della Comunità internazionale e in diverse città del Paese la gente è scesa in piazza con slogan a favore della sovranità e dell’indipendenza nazionale, manifestando tuttavia la propria impotenza di fronte alla prepotenza sionista.
Le misure introdotte da Hts e gli sforzi di moderazione promessi da Al-Sharaa sono stati comunque accolti con ottimismo a Bruxelles – dove evidentemente l’unica integrità territoriale che interessa è quella ucraina – che ha deciso di sospendere diverse sanzioni e misure restrittive imposte alla Siria e in vigore da oltre un decennio. In particolare il Consiglio Europeo ha deciso di:
- sospendere le misure sanzionatorie nei settori dell’energia (petrolio, gas ed elettricità compresi) e dei trasporti;
- rimuovere cinque entità (Industrial Bank, Popular Credit Bank, Saving Bank, Agricultural Cooperative Bank e Syrian Arab Airlines) dall’elenco delle entità oggetto di congelamento dei capitali e delle risorse economiche, e consentire di mettere a disposizione della Banca centrale siriana capitali e risorse economiche;
- introdurre alcune esenzioni dal divieto di instaurare rapporti bancari tra le banche siriane e gli istituti finanziari entro i territori degli Stati membri, così da consentire le operazioni connesse ai settori dell’energia e dei trasporti e quelle necessarie a fini umanitari e di ricostruzione;
- prorogare a tempo indeterminato l’applicazione dell’esenzione umanitaria in vigore;
- introdurre un’esenzione per uso personale al divieto di esportazione in Siria di beni di lusso.
Altre misure sanzionatorie, relative al traffico di armi, droga e beni culturali, rimarranno in vigore, ma le istituzioni europee hanno annunciato che monitoreranno la situazione per sostenere e stabilizzare il processo di transizione nel Paese. Gli esiti della conferenza e gli appelli all’inclusività, infatti, sono un primo passo, ma c’è chi pensa che il processo politico sia solo apparenza e che, oltre a non tenere nella giusta considerazione le donne – anche alcune minoranze, come drusi, alawiti e curdi non siano veramente inclusi nel processo di transizione.
Il futuro reale della Siria resta perciò nelle mani delle grandi potenze che storicamente ne hanno stabilito l’importanza geostrategica.
La Russia, in particolare, con Lavrov e Matvienko si appresta ad un tour diplomatico di estrema importanza. Dopo aver rassicurato l’Iran sul mantenimento del partenariato strategico tra i due Paesi anche dopo l’elezione di Trump, il Ministro degli Esteri di Mosca si appresa ad incontrare le autorità turche per trovare una soluzione alla questione siriana: “La Russia vuole mantenere i suoi investimenti e le sue basi militari nella regione. Almeno fino al momento della creazione delle basi in Sudan.”
Diversi analisti ritengono che eventuali concessioni fatte dalla Turchia alla Russia in Siria saranno compensate dal rafforzamento delle sue posizioni nelle regioni Transcaucasica e Caspica. La Turchia vuole diventare l’hub europeo del petrolio e del gas, utilizzando materie prime provenienti dall’Azerbaigian, dal Kazakistan e dal Turkmenistan. Inoltre, Ankara intende costruire un gasdotto dal Qatar e limitare le capacità regionali dell’Iran, ragion per cui il ruolo di mediazione di Mosca appare decisivo. Il viaggio di Valentina Matvienko in Turchia appare significativo, dato che la presidente del Senato russo potrebbe portare sul tavolo le proposte di Timchenko e Gazprom su progetti di gas e infrastrutture, anche in Siria.
Sui giornali greci, nei giorni scorsi è rimbalzata la voce sulla chiusura da parte degli U.S.A. della loro base militare ad Alessandropoli, uno snodo fondamentale per il trasporto di armi verso l’Europa e i Balcani, poi smentita dall’Amministrazione Trump; l’ipotesi è che Washington intenda utilizzarla successivamente come eventuale pedina di scambio con Russia e Turchia in cambio di un futuro accordo globale sull’Ucraina e sul Medio Oriente. Lo stesso vale, a maggior ragione, per i circa 2000 soldati che gli Stati Uniti mantengono ancora in Siria e che potrebbero essere ritirati per essere dispiegati in aree geopolitiche più interessanti come quella dell’Asia-Pacifico.
La partita a scacchi continua.