L’Unione Europea “scopre” improvvisamente che il proprio “alleato” è in realtà un egemone spietato, pronto ad accaparrarsi le sue industrie strategiche e ad accollarle la “patata bollente” ucraina come strumento per recuperare una qualche forma di relazione collaborativa con la Russia.
Da diversi anni, la classe dirigente russa ha manifestato una spiccata inclinazione ad avvalersi della locuzione “Occidente collettivo” per indicare lo schieramento transatlantico di Paesi appartenenti alla Nato, saldamente guidato – o meglio, dominato – dagli Stati Uniti in collaborazione con la Gran Bretagna. Quest’ultima, considerata da molti come una sorta di junior partner degli Usa, ha per molto tempo incassato i dividendi garantiti dalla coltivazione della special relation con le classi dirigenti statunitensi instaurata nel XIX Secolo e consolidata all’indomani della Seconda Guerra Mondiale.
All’epoca, le élite londinesi giunsero alla conclusione che la collocazione del Regno Unito in una posizione ancillare rispetto agli Stati Uniti potesse risultare funzionale al rilancio del prestigio internazionale britannico, giudicato imprescindibile per porre un freno al devastante processo di allentamento dei legami con le colonie che stava conducendo l’Impero verso la dissoluzione. La costruzione di un rapporto privilegiato con Washington, discettava l’apparato dirigenziale britannico, avrebbe permesso a Londra di mettere a frutto la grandissima esperienza maturata in ambito finanziario dalla City nel corso dei secoli precedenti, e acquisire così una ragguardevole capacità d’influenza sulla definizione e perfino sulla gestione dell’ordine economico del dopoguerra.
Si trattava, in altri termini, di rivedere alcuni aspetti fondamentali della visione di “impero-condominiale” che era stata elaborata all’inizio del XX Secolo da Lord Milner, Cecil Rhodes e gli altri illustri esponenti del cosiddetto Anglo-American establishment per porre la Gran Bretagna nelle condizioni di proiettare la propria influenza all’ombra del ben più potente alleato statunitense. Come confidò Harold MacMillan, stretto collaboratore di Churchill e futuro primo ministro britannico, al socialdemocratico Richard Crossman: «noi, mio caro Crossman, siamo i greci in questo Impero Americano. Considererai gli statunitensi più o meno come i greci vedevano i romani – muscolosi, volgari, vivaci, molto più vigorosi di noi ma anche più oziosi, portatori di diverse virtù incontaminate ma anche molto più corrotti. Dobbiamo dirigere il quartier generale alleato allo stesso modo in cui gli schiavi greci dirigevano le operazioni dell’imperatore Claudio».
I sostenitori del concetto di “Occidente collettivo” sposano una visione sostanzialmente affine, che attribuisce a una struttura politica anglo-statunitense gravitante attorno ai poli di Washington e Bruxelles il potere di guidare l’intera compagine transatlantica, identificata come un blocco monolitico in grado di muoversi come “un sol uomo”. Questa chiave interpretativa è andata oggettivamente consolidandosi sulla scia del conflitto russo-ucraino, che ha visto i Paesi dell’Unione Europea seguire la linea dello scontro con la Russia promossa dall’amministrazione Biden anche a costo di esporre il fianco a pesanti contraccolpi economici di breve e medio periodo.
Per la verità, l’Unione Europea si è mostrata “più realista del re”, adottando sedici pacchetti di sanzioni contro la Federazione Russa di intensità maggiore rispetto ai provvedimenti punitivi irrogati da Washington. Lo scorso gennaio, la presidente della Commissione europea Ursula Von der Leyen ha annunciato con tono trionfale l’affrancamento del “vecchio continente” dagli approvvigionamenti energetici russi (decresciuti del 75% circa), omettendo tuttavia di specificare che l’ammanco delle forniture di gas via conduttura è stato parzialmente compensato dall’incremento delle spedizioni del ben più oneroso Gas Naturale Liquefatto russo. Anche il petrolio russo continua a giungere in Europa, ma attraverso una serie di intermediari (come India e Turchia) che richiedono congrua parcella per il “servizio” erogato. I Paesi europei stanno insomma continuando ad avvalersi dell’energia russa, ma a costi accresciuti e nel visibile appagamento dei vertici istituzionali dell’Unione Europea, che rivendicano con orgoglio il mantenimento della campagna sanzionatoria contro la Russia a dispetto dei suoi effetti drammaticamente controproducenti in termini di aumento dell’inflazione, rallentamento dell’economia e impoverimento delle famiglie.
Le sanzioni economiche sono state peraltro affiancate al trasferimento massiccio di materiale bellico all’Ucraina, che nel corso di pochi mesi ha messo a nudo sia la limitatezza delle riserve strategiche di armi e munizioni a disposizione degli europei, sia l’inadeguatezza del loro apparato industriale e di difesa.
La conclamata impreparazione a sostenere un conflitto prolungato con una potenza militare del calibro della Russia non ha impedito a esponenti verticistici dell’Unione Europea come Kaja Kallas di adottare una retorica estremamente bellicista nei confronti di Mosca, sostenendo che i Paesi europei sono chiamati a prepararsi alla Terza Guerra Mondiale. Il politologo Sergij Karaganov ha parlato in proposito di “parassitismo strategico” per identificare quell’assenza di timore nei confronti della guerra che risulta molto più diffuso in seno alle classi dirigenti europee che a quelle statunitensi.
Completamente assorbite dalla crociata anti-russa, le classi dirigenti di Bruxelles, Parigi, Berlino, Roma, ecc. hanno subito senza colpo ferire le macchinazioni ordite dall’amministrazione Biden, che per tramite dell’Inflation Reduction Act ha letteralmente costruito ponti d’oro alle aziende europee d’alta gamma disposte a rilocalizzare la produzione negli Stati Uniti, dove vigono prezzi dell’energia molto più bassi. La legge, approvata pressoché in concomitanza con il sabotaggio dei gasdotti Nord Stream che stando a ben due inchieste (la prima risalente al febbraio 2023, la seconda al febbraio 2025) realizzate da Seymour Hersh andrebbe ricondotto a Stati Uniti e Norvegia, è stata succeduta a stretto giro di boa da un vero e proprio “tour europeo” organizzato da emissari del Michigan, della Georgia, della West Virginia, dell’Ohio e di altri Stati federali, recatisi presso il “vecchio continente” per illustrare ai dirigenti aziendali europei gli straordinari incentivi previsti dall’Inflation Reduction Act. «Non penso che abbiamo mai lavorato tanto intensamente per reclutare aziende straniere quanto ora», ha dichiarato il direttore un funzionario dello Stato dell’Ohio al termine di una serie di incontri con dirigenti di imprese tedesche, italiane e belghe.
Segno che all’interno del cosiddetto “Occidente collettivo” regnava un livello di coesione di gran lunga inferiore rispetto a quanto comunemente ritenuto. Le divergenze sono poi esplose letteralmente in seguito all’insediamento alla Casa Bianca di Donald Trump, il quale ha immediatamente annunciato dazi doganali nei confronti dell’Unione Europea, e posto come condizione vincolante per evitare un loro rafforzamento l’impegno da parte degli europei a importare quote crescenti di Gas Naturale Liquefatto statunitense. Parallelamente, il magnate newyorkese ha posto l’accento sulla necessità che gli europei paghino per la protezione militare garantita dagli Stati Uniti, incrementando anzitutto – ma non solo – i bilanci per la difesa al 5% del Pil. Ma soprattutto, Trump ha mosso passi concreti e decisivi verso un “disimpegno” dall’assistenza al governo di Kiev, demandata completamente all’Unione Europea che oltre agli oneri finanziari legati alla ricostruzione dell’Ucraina dovrà farsi carico delle garanzie di sicurezza nei confronti di quest’ultima, ma rigorosamente – come ha sottolineato il segretario alla Difesa Pete Hegseth – al di fuori dall’articolo 5 della Nato e ai sensi di un accordo russo-statunitense rispetto al quale l’Europa non avrà alcuna voce in capitolo. Significativamente, le dichiarazioni di Hegseth risultano completamente allineate alle raccomandazioni di Karaganov, secondo cui, almeno in via provvisoria, «è assolutamente necessario sottrarre l’Europa alla soluzione dei problemi globali».
Afflitti da alta inflazione, stagnazione economica, disoccupazione in crescita ed elevati livelli di indebitamento, i Paesi europei non hanno alcuna possibilità di soddisfare le “richieste” statunitensi in assenza di massicci tagli alla spesa sociale, destinati inesorabilmente ad alimentare ulteriormente il malcontento ovunque all’interno del “vecchio continente”, accentuando il marasma sociale innescato dal conflitto russo-ucraino. Il cui contributo alla destabilizzazione dei sistemi politici europei è risultato decisivo in Austria, dove si assiste a un aumento generalizzato dei consensi a favore del Partito della Libertà, e in Francia, Paese che passa da un caduta di governo all’altra con una rapidità paragonabile a quella registrata in Gran Bretagna e in Bulgaria. Per non parlare della Germania, dove Alternative für Deutschland si è affermato seconda forza politica, e della Romania, piombata nel caos in seguito all’inaudita decisione della Corte Costituzionale di annullare il primo turno delle elezioni presidenziali sulla base di sospetti infondati circa presunte interferenze russe tramite TikTok. Come scrive il politologo William J. Jones, «la guerra in Ucraina ha più o meno distrutto il consenso politico centrista, sotto pressione da molti anni in Europa. Il crollo del sostegno degli elettori nei confronti dei partiti di sinistra e di centro è il sintomo di un problema più grande: non prendersi cura degli elettori e governare senza tenere in considerazione i loro interessi. Questo punto cruciale è stato messo a nudo dall’ex ministro degli Esteri tedesco Annalena Baerbock, che nel 2022 dichiarò pubblicamente che il suo governo avrebbe continuato a sostenere l’Ucraina anche in opposizione alla volontà dei cittadini tedeschi. È così sorprendente che gli elettori si stiano ribellando?».
Le bordate di Trump, sistematicamente portato a sfruttare la debolezza degli interlocutori per massimizzare il proprio tornaconto, hanno palesato il carattere illusorio della “solidarietà transatlantica”, assurta a vera e propria pietra angolare delle dottrine di sicurezza europee.
Per il “vecchio continente”, le prese di posizione di Trump, i rilievi sferzanti mossi dal suo vice Jd Vance a Monaco e le dichiarazioni del segretario di Stato Marco Rubio, secondo cui gli Stati Uniti anteporranno rigorosamente i propri interessi esclusivi rispetto a quelli di chiunque altro, risuonano come una campana a morto. L’Unione Europea “scopre” improvvisamente che il proprio “alleato” è in realtà un egemone spietato, pronto ad accaparrarsi le sue industrie strategiche e ad accollarle la “patata bollente” ucraina come strumento per recuperare una qualche forma di relazione collaborativa con la Russia.
Quest’ultima sta a sua volta valutando con disilluso ma forte interesse il cambio di registro varato dall’amministrazione Trump. Al punto che, come osserva Andreij Kortunov del Russian International Affairs Council, «l’America di Trump non è l’America di Biden. Anche all’interno di Washington soni presenti profonde divisioni. Nel frattempo, l’Europa occidentale, a lungo ritenuta incrollabilmente allineata con gli Stati Uniti, è alle prese con dissidi interni e risentimento nei confronti della pressione americana. Per la Russia, questa frammentazione rappresenta un’opportunità. Lo scioglimento del consenso transatlantico delinea prospettive che risultavano inimmaginabili soltanto un anno fa».
Naturalmente, puntualizza Kortunov, «lo scetticismo rimane. I critici sosterranno che qualsiasi accordo con Washington costituisca una trappola, che gli Stati Uniti assumeranno solenni impegni solo per rinnegarli in seguito, come hanno fatto in passato. Che una volta che la Russia abbasserà la guardia, l’Occidente tornerà alle sue vecchie abitudini di tradimento e accordi infranti. Non si tratta di una preoccupazione infondata. La storia ha insegnato alla Russia a mantenere la cautela. Ma la diplomazia non riguarda le garanzie, riguarda le opportunità. Non esistono accordi granitici in geopolitica. Ogni accordo può essere infranto, ogni promessa può essere annullata. La vera domanda è se la Russia sarà pronta a cogliere l’attimo […]. La strada da percorrere è incerta e si alzeranno saranno voci favorevoli al respingimento di qualsiasi intesa con Washington. Ma rifiutarsi di negoziare per paura di incorrere nel tradimento della controparte sarebbe un errore. La Russia non si trova nella posizione di debolezza degli anni ’90 : è più forte, più autosufficiente e unanimemente riconosciuta come una potenza globale. Questa volta, Mosca entra nei negoziati non come supplicante ma come pari. Le opportunità nella diplomazia sono rare. È facile lasciarle sfuggire; molto più difficile coglierle. Se la Russia e gli Stati Uniti riusciranno a muoversi verso un compromesso ragionevole, che garantisca gli interessi principali di Mosca e riduca al contempo le tensioni, potremmo trovarci di fronte a un mutamento che rimodellerà il panorama geopolitico per gli anni a venire».