La liturgia politica del 20 gennaio 2025 si è compiuta. Ora comincia l’avventura.
C’è chi può e chi non può
Ce l’abbiamo fatta. Il mondo ha superato un altro insediamento presidenziale americano. Siamo ancora tutti vivi, il protocollo si è svolto alla perfezione e il popolo ha ricevuto le sue 12 ore di gloria. Panem et circenses, come insegnano gli antichi latini, non falliscono mai.
All’inaugurazione di Trump sono invitati solo coloro che sono necessari e utili, mentre sono stati lasciati fuori quanti erano non strettamente necessari. C’era il gotha dei nuovi Big Tech, quelli che hanno rinnovato il liberalcapitalismo americano portandolo ad un nuovo livello, più trendy e più glamour, ma soprattutto più popolare, ridisegnando i profili culturali di almeno due generazioni; c’erano i magnati delle grandi aziende statunitensi e non solo, i tycoon più sfrenati, quelli che non si fanno problemi a definirsi “filantropi” mentre danno stipendi da fame ai loro dipendenti a cui tagliano il posto di lavoro con una IA mentre stanno comodamente al mare sul loro yacht; c’erano i capi delle più bizzarre religioni (o qualcosa del genere), che devotamente hanno rinnovato il loro voto al politico col portafoglio più grosso, fatta eccezione per i rabbini che sono gli unici ad aver ricevuto la devozione da parte sia di Joe Biden uscente che di Donald Trump entrante; c’erano le donne che hanno sfilato e rilasciato sorrisi alla stampa, quelle donne che sono considerate grandi e importanti perché stanno accanto ad un uomo potente; c’erano persino gli invitati dall’estero, per non farsi mancare niente.
Una cerimonia lunga un’intera giornata, giustappunto quanto serve per fare il quadriennale lavaggio del cervello agli americani.
Tutti cercano di capire la logica dell’invito alla cerimonia o, al contrario, la sua mancanza. E in effetti ci sono state presenze curiose e assenze ancor più significative. Non c’era il paladino Zelensky, che finge di aver deciso lui stesso di non andare, ma che dovrà fare i conti con le ripetute dichiarazione di Trump riguardo il de-potenziamento della campagna di guerra in Ucraina. Assente anche il Cancelliere tedesco Scholz, il quale ha dichiarato di ritenere normale non essere stato invitato all’insediamento perché tanto c’erano gli ambasciatori. Non c’era la Corona Britannica, un segnale di cui ci dovremo ricordare molto presto.
Ma allo stesso tempo, c’erano personaggi come la cameriera Primo Ministro Giorgia Meloni, la donna dell’anno, premiata dall’Atlantic Council direttamente da Elon Musk. Lei ha il compito di garantire agli USA un nuovo assetto economico di guerra, alzando al 2% del PIL la spesa militare, garantendo soldi e armi al fronte ucraino e, presto, anche uomini da macellare nelle trincee. Lei ha il compito di garantire l’accesso al Mediterraneo, per i commerci dal Medio Oriente e dall’Africa, nonché per controllare militarmente l’espansione di Russia e Cina nel grande continente del Sud. Lei è anche colei che dovrà fare da garante nella ristrutturazione dell’Europa a livello politico, pronta a servire Washington come le hanno insegnato i suoi predecessori, da Giorgio Almirante in poi. Se farà bene il suo lavoro, resterà lì dov’è; se qualcosa andrà storto, la sua poltrona salterà.
C’era anche il folle Presidente argentino Javier Miley, che senza dubbio è in linea con Trump sia per le scellerate politiche fiscali e del lavoro, sia per la lotta sionista. Quel Miley che sarà fondamentale per le mire espansionistiche degli USA nel Sudamerica, forse addirittura più di Lula che, invece, è troppo battitore libero per i gusti americani.
C’erano persino i cinese, di quella Cina che a Trump non piace ma con cui è comodo fare affari e che non può mancare se il dollaro vuole sopravvivere, con la partecipazione del vicepresidente cinese Han Zheng.
Simbolicamente, era presente anche il Ceo di TikTok, Shou Zi Chew, perché gli USA sanno come usare il gioccatolo dell’infowarfare, specie quando in vista ci sono le elezioni in vari Paesi.
C’erano i signori dei FANG – Facebook, Amazon, Netflix, Google – con tutto il loro sconfinato patrimonio di controllo e manipolazione globale, pronti a cambiare le loro politiche aziendali all’arrivo del Potus.
La logica dell’intero processo è semplice: è stato invitato solo chi è necessario e può essere utile agli Stati Uniti.
Simboli e rituali
Il punto culminante della cerimonia è il giuramento del presidente, che avviene davanti al Campidoglio, a Washington D.C., davanti a una grande folla di spettatori. Il giuramento è tradizionalmente pronunciato dal capo della Corte Suprema degli Stati Uniti, ma può essere pronunciato da un altro giudice se necessario. Il testo è semplice: “I do solemnly swear (or affirm) that I will faithfully execute the office of President of the United States, and will to the best of my ability, preserve, protect and defend the Constitution of the United States.”
Cruciale, in questo momento, è la mano destra alzata durante il giuramento, che rappresenta sincerità, integrità e impegno. La mano sollevata è una tradizione che evoca il concetto di “giuramento” in molte culture, simboleggiando la promessa di adempiere ai propri doveri con onestà. Di solito, il presidente giura su una Bibbia, sebbene la Costituzione non richieda esplicitamente l’uso di testi religiosi, un gesto che riflette la tradizione storica e culturale del paese, anche se non implica una connessione religiosa obbligatoria.
Stavolta Trump ha deciso di non posare la mano sulle due bibbie che erano tenute dalla moglie Melania, quasi come a voler dire che “non riconosce” l’autorità di quei testi e che è pronto a fare qualsiasi cosa pur di ottenere ciò che vuole, anche infrangere le leggi divine.
Dopo l’atto solenne, il nuovo presidente tiene il suo discorso inaugurale, in cui espone le sue priorità politiche e offre un messaggio di unità e speranza per il paese. Il discorso è un momento cruciale per definire la visione e il tono del suo mandato.
A seguire, tradizionalmente, si svolge una parata lungo Pennsylvania Avenue, che porta il presidente dalla Casa Bianca al Campidoglio, passando attraverso la capitale, mentre gruppi e fanfare celebrano il nuovo leader.
Questa enorme liturgia esprime in ogni dettaglio cosa sono gli Stati Uniti d’America, nel bene e nel male.
L’attenzione è stata rubata non poco da quello che potremmo definire “il vero volto della festa”: Elon Musk. C’era da aspettarselo. Poche parole ma molto precise. Pochi gesti ma molto, molto significativi. Il titolare della prima carica di Deep State ufficializzato ha fatto un ingresso da vero divo. Probabilmente ci dovremo abituare a queste incursioni teatrali, perché hanno un enorme effetto sul pubblico internazionale, specie su quello delle ultime generazioni.
Parole chiare
Il discorso di Trump è stato, per l’appunto, un chiarissimo programma politico, in perfetto stile MAGA.
Il discorso si è aperto con una dichiarazione di ottimismo e fiducia per il futuro dell’America, annunciando che il Paese sta per entrare in una nuova “Età dell’Oro”, con la promessa di una rinnovata fioritura, guadagnando rispetto globale, con i cittadini che prospereranno sotto un governo che metterà l’America al primo posto.
Trump ha riconosciuto le sfide in atto per tutta l’America, tra cui un governo corrotto che ha sottratto risorse ai cittadini, permettendo a criminali di entrare nel Paese e dando priorità alla difesa dei confini stranieri anziché quelli nazionali, col fallimento nel proteggere i cittadini, come evidenziato dai disastri naturali non gestiti. Ovviamente i classici temi del sistema sanitario e educativo in crisi non sono mancati.
Ecco che Trump si è proposto come il restauratore della fiducia e della grandezza dell’’America, grazie ad un mandato popolare per vorrebbe rovesciare la corruzione e restituire ai cittadini libertà e prosperità, secondo il criterio della “rivoluzione del buon senso”, mettendo fine a politiche come l’immigrazione incontrollata, la spesa pubblica e le pratiche dannose nel settore energetico, ed introducendo di misure come il rafforzamento dei confini, la rimozione di criminali stranieri e il potenziamento delle forze armate.
Via il Green New Deal, via la censura, via la corruzione, promozione di un sistema basato sul merito, mettendo fine a politiche di discriminazione per etnia e genere e riaffermando la posizione dei soli due generi biologici e, inoltre, il ritorno in servizio dei militari espulsi per motivi legati alla politica vaccinale.
Non poteva mancare, ovviamente, la scenografica e roboante corsa alla riconquista del mondo, con il rinnovato slancio di colonialismo imperialista già preannunciato nelle scorse settimane (Panama, Groenlandia, Canada, ecc.), che addirittura si spinge verso lo spazio, suggerendo la colonizzazione di Marte. Una retorica per niente casuale, per nulla banale. Può sembrare pura spacconeria da serie tv, ma in verità è ciò che più di tutti droga il mindset dell’americano medio e fa sempre una bella figura all’estero, dando l’idea del “paese dei balocchi” che è pur sempre affascinante ed ha un richiamo unico.
Iconica la scena in cui ha ballato con i Village People al ritmo di YMCA, ovvero la scena di un miliardario guerrafondaio americano che si è fatto una carriera politica grazie ai suoi soldi e ai suoi beniamini sionisti, che balla una canzone simbolo dell’omosessualismo del ‘68, assieme ad un tizio vestito con un costume da indiano d’America, che ricorda i popoli che gli antenati dei buffi personaggi hanno trucidato invadendo le loro terre, espropriando i loro beni, cancellando le loro tradizioni e chiudendo gli ultimi rimasti in qualche ettaro di riserve.
Non c’è che dire, è veramente di nuovo l’America! Di questo a Trump dovremo rendere omaggio. Finalmente il Paese tornerà a fare quello che ha sempre cercato di fare: conquistare il mondo.
Tante, tante promesse, per un’America da lanciare alla riconquista la propria grandezza, con un forte spirito di unità e di ambizione. Il “sogno americano”, in poche parole.
È il grande spettacolo americano, ragazzi.
Buona serata a tutti.