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Giacomo Gabellini
January 21, 2025
© Photo: SCF

Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», dove porterà?

Segue nostro Telegram.

Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», e iscritto il ricorso a strumenti coercitivi nel novero delle opzioni praticabili per conseguire l’obiettivo. Le esternazioni del presidente eletto hanno prevedibilmente suscitato un’ondata di reazioni stizzite. Il ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot ha dichiarato senza mezzi termini che «la Groenlandia è un territorio dell’Unione Europea […]. È fuori discussione che l’Unione Europea accetti che altre nazioni del mondo, qualunque esse siano, prendano di mira le nostre frontiere sovrane». La Francia attribuisce così una dimensione europea a un tema che riguarderebbe direttamente la Danimarca, ma pregno di implicazioni geoeconomiche alla luce della ricchezza di risorse che caratterizza la Groenlandia. Prese di posizione altrettanto severe sono arrivate dalla Germania, con il cancelliere Olaf Scholz che ha espresso sincero sconcerto per le “sparate” di Trump e ribadito che «il principio dell’inviolabilità delle frontiere vale per ogni Paese».

Nonostante le recriminazioni di Scholz, e a dispetto delle valutazioni formulate da Blinken atte a minimizzare la portata delle dichiarazioni di Trump, le uscite del magnate newyorkese aprono uno squarcio su un ipotetico scenario futuro che potrebbe caratterizzarsi per il “superamento” di alcuni pilastri del diritto internazionale come l’intangibilità dei confini e il rispetto della sovranità statale. Il trasferimento manu militari degli oblast’ di Crimea, Donec’k, Lugans’k, Zaporižžja e Kherson dall’Ucraina alla Federazione Russa e l’occupazione di un’ampia “fascia di sicurezza” all’interno del territorio siriano da parte di Israele rappresentano gli episodi culminanti di un ciclo di destrutturazione e riconfigurazione degli assetti internazionali succeduto a quello avviato all’inizio del XX Secolo per effetto di una (apparentemente) paradossale convergenza di punti di vista tra Unione Sovietica e Stati Uniti in merito alla tesi secondo cui ogni nazione avesse diritto a dotarsi di uno Stato. La trasposizione pratica dell’idea, sostenuta dai bolscevichi per ragioni ideologiche e dal presidente Woodrow Wilson perché funzionale a ben precisi interessi strategici ed economici, comportò, specie in seguito alla disgregazione degli imperi coloniali, la parcellizzazione dello spazio geopolitico in una costellazione di Stati sprovvisti di qualsiasi forza politica e consistenza economica. Ne scaturì un quadro strategico bipolare caratterizzato dal controllo condominiale da parte di Mosca e Washington su una variegatissima congrega di satelliti posti in una condizione di subordinazione dall’“arruolamento” tramite cooptazione delle singole oligarchie locali. Il legame di dipendenza imposto alle micro-particelle statali la cui sovranità rappresentava mera merce di scambio elle élite locali bisognose dell’appoggio esterno, fu esteso in una certa misura anche a Paesi di stazza incommensurabilmente maggiore come Cina e India.

La frammentazione geopolitica aveva in altri termini aperto il varco a nuove lottizzazioni territoriali, soppiantando la preesistente logica imperiale di espansione e acquisizione diretta dello spazio geografico. Come scrive lo studioso francese François Thual, «se lo spezzettamento del pianeta ha preceduto la mondializzazione economica, quest’ultima l’ha successivamente favorito abbattendo tramezzi e paratie che separavano i mercati per sostituirli con un mercato mondiale unico».

Risultato: un incremento costante dei livelli di interdipendenza economica, con una quota assai significativa di Paesi dotati di prospettive di benessere interno dipendenti in maniera schiacciante dall’accesso ai mercati stranieri. A partire da quello statunitense. È proprio il caso del Canada, che ha chiuso il 2024 con un avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti pari a circa 55 miliardi di dollari.

Con il consueto stile crudo e provocatorio, Trump ha manifestato l’intenzione di correggere questo squilibrio (rispetto ai quali i decisori statunitensi hanno responsabilità enormi e incontestabili) evitando di farne una questione di principio o di giustizia, ma richiamandosi semplicemente ai rapporti di forza vigenti. E lo ha fatto per perorare la causa dell’annessione del discreto vicino settentrionale, titolare di una sovranità alquanto limitata e sostanzialmente rispettata finora dagli Stati Uniti perché esercitata in funzione dei loro interessi. Una condizione di vassallaggio de facto che il Canada condivide sostanzialmente con i Paesi europei membri della Nato.

L’odierno quadro strategico, caratterizzato da una competizione senza esclusione di colpi tra grandi potenze rivali, va tuttavia comprimendo i pur ristretti margini di manovra dei Paesi a sovranità limitata e restituendo al controllo diretto del territorio – come fonte di risorse essenziali per la conduzione della guerra, la crescita dell’economia e l’incremento della popolazione – la rilevanza cruciale rivestita per secoli e secoli. La cortina fumogena dell’“ordine internazionale basato sulle regole” (rule-based international order) ne esce fortemente diradata, palesando la natura profondamente hobbesiana delle relazioni internazionali, regolate da logiche ispirate più o meno esplicitamente alla legge della giungla.

Come ha affermato lo stesso Trump alternando la carota al bastone: «se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, verrebbero meno tariffe, le tasse calerebbero notevolmente e i suoi cittadini sarebbero totalmente al sicuro dalla minaccia delle navi russe e cinesi che li circondano costantemente. Insieme, che grande Nazione diventeremmo!». Una nazione, per l’esattezza, abitata da 375 milioni di persone e stracolma di risorse naturali d’ogni genere, dotata di una estensione territoriale superiore a quella della Russia e in grado di assommare un Pil pari a 32.000 miliardi di dollari. In un’ottica di medio-lungo termine, una “Fortezza America” del genere che Trump intende costituire soddisferebbe per di più tutte le credenziali necessarie ad accreditarsi in un formidabile polo d’attrazione per un numero crescente di soggetti minori, riassegnando agli Stati Uniti il magnetismo geopolitico esercitato nel corso del XIX Secolo.

Le dinamiche del “Grande Gioco” lasciano pertanto intravedere la possibilità che, in un futuro non troppo remoto, gli Stati-satellite o comunque relegati in una condizione di dipendenza perdano gli ultimi rimasugli di sovranità rimasta a favore dei grandi attori internazionali. La prospettiva di un’incorporazione negli Stati Uniti del Canada e della Groenlandia risulterebbe molto meno inconcepibile rispetto a quanto appaia attualmente.

Le bordate di Trump demoliscono la finzione dell’“ordine internazionale basato sulle regole”

Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», dove porterà?

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Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», e iscritto il ricorso a strumenti coercitivi nel novero delle opzioni praticabili per conseguire l’obiettivo. Le esternazioni del presidente eletto hanno prevedibilmente suscitato un’ondata di reazioni stizzite. Il ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot ha dichiarato senza mezzi termini che «la Groenlandia è un territorio dell’Unione Europea […]. È fuori discussione che l’Unione Europea accetti che altre nazioni del mondo, qualunque esse siano, prendano di mira le nostre frontiere sovrane». La Francia attribuisce così una dimensione europea a un tema che riguarderebbe direttamente la Danimarca, ma pregno di implicazioni geoeconomiche alla luce della ricchezza di risorse che caratterizza la Groenlandia. Prese di posizione altrettanto severe sono arrivate dalla Germania, con il cancelliere Olaf Scholz che ha espresso sincero sconcerto per le “sparate” di Trump e ribadito che «il principio dell’inviolabilità delle frontiere vale per ogni Paese».

Nonostante le recriminazioni di Scholz, e a dispetto delle valutazioni formulate da Blinken atte a minimizzare la portata delle dichiarazioni di Trump, le uscite del magnate newyorkese aprono uno squarcio su un ipotetico scenario futuro che potrebbe caratterizzarsi per il “superamento” di alcuni pilastri del diritto internazionale come l’intangibilità dei confini e il rispetto della sovranità statale. Il trasferimento manu militari degli oblast’ di Crimea, Donec’k, Lugans’k, Zaporižžja e Kherson dall’Ucraina alla Federazione Russa e l’occupazione di un’ampia “fascia di sicurezza” all’interno del territorio siriano da parte di Israele rappresentano gli episodi culminanti di un ciclo di destrutturazione e riconfigurazione degli assetti internazionali succeduto a quello avviato all’inizio del XX Secolo per effetto di una (apparentemente) paradossale convergenza di punti di vista tra Unione Sovietica e Stati Uniti in merito alla tesi secondo cui ogni nazione avesse diritto a dotarsi di uno Stato. La trasposizione pratica dell’idea, sostenuta dai bolscevichi per ragioni ideologiche e dal presidente Woodrow Wilson perché funzionale a ben precisi interessi strategici ed economici, comportò, specie in seguito alla disgregazione degli imperi coloniali, la parcellizzazione dello spazio geopolitico in una costellazione di Stati sprovvisti di qualsiasi forza politica e consistenza economica. Ne scaturì un quadro strategico bipolare caratterizzato dal controllo condominiale da parte di Mosca e Washington su una variegatissima congrega di satelliti posti in una condizione di subordinazione dall’“arruolamento” tramite cooptazione delle singole oligarchie locali. Il legame di dipendenza imposto alle micro-particelle statali la cui sovranità rappresentava mera merce di scambio elle élite locali bisognose dell’appoggio esterno, fu esteso in una certa misura anche a Paesi di stazza incommensurabilmente maggiore come Cina e India.

La frammentazione geopolitica aveva in altri termini aperto il varco a nuove lottizzazioni territoriali, soppiantando la preesistente logica imperiale di espansione e acquisizione diretta dello spazio geografico. Come scrive lo studioso francese François Thual, «se lo spezzettamento del pianeta ha preceduto la mondializzazione economica, quest’ultima l’ha successivamente favorito abbattendo tramezzi e paratie che separavano i mercati per sostituirli con un mercato mondiale unico».

Risultato: un incremento costante dei livelli di interdipendenza economica, con una quota assai significativa di Paesi dotati di prospettive di benessere interno dipendenti in maniera schiacciante dall’accesso ai mercati stranieri. A partire da quello statunitense. È proprio il caso del Canada, che ha chiuso il 2024 con un avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti pari a circa 55 miliardi di dollari.

Con il consueto stile crudo e provocatorio, Trump ha manifestato l’intenzione di correggere questo squilibrio (rispetto ai quali i decisori statunitensi hanno responsabilità enormi e incontestabili) evitando di farne una questione di principio o di giustizia, ma richiamandosi semplicemente ai rapporti di forza vigenti. E lo ha fatto per perorare la causa dell’annessione del discreto vicino settentrionale, titolare di una sovranità alquanto limitata e sostanzialmente rispettata finora dagli Stati Uniti perché esercitata in funzione dei loro interessi. Una condizione di vassallaggio de facto che il Canada condivide sostanzialmente con i Paesi europei membri della Nato.

L’odierno quadro strategico, caratterizzato da una competizione senza esclusione di colpi tra grandi potenze rivali, va tuttavia comprimendo i pur ristretti margini di manovra dei Paesi a sovranità limitata e restituendo al controllo diretto del territorio – come fonte di risorse essenziali per la conduzione della guerra, la crescita dell’economia e l’incremento della popolazione – la rilevanza cruciale rivestita per secoli e secoli. La cortina fumogena dell’“ordine internazionale basato sulle regole” (rule-based international order) ne esce fortemente diradata, palesando la natura profondamente hobbesiana delle relazioni internazionali, regolate da logiche ispirate più o meno esplicitamente alla legge della giungla.

Come ha affermato lo stesso Trump alternando la carota al bastone: «se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, verrebbero meno tariffe, le tasse calerebbero notevolmente e i suoi cittadini sarebbero totalmente al sicuro dalla minaccia delle navi russe e cinesi che li circondano costantemente. Insieme, che grande Nazione diventeremmo!». Una nazione, per l’esattezza, abitata da 375 milioni di persone e stracolma di risorse naturali d’ogni genere, dotata di una estensione territoriale superiore a quella della Russia e in grado di assommare un Pil pari a 32.000 miliardi di dollari. In un’ottica di medio-lungo termine, una “Fortezza America” del genere che Trump intende costituire soddisferebbe per di più tutte le credenziali necessarie ad accreditarsi in un formidabile polo d’attrazione per un numero crescente di soggetti minori, riassegnando agli Stati Uniti il magnetismo geopolitico esercitato nel corso del XIX Secolo.

Le dinamiche del “Grande Gioco” lasciano pertanto intravedere la possibilità che, in un futuro non troppo remoto, gli Stati-satellite o comunque relegati in una condizione di dipendenza perdano gli ultimi rimasugli di sovranità rimasta a favore dei grandi attori internazionali. La prospettiva di un’incorporazione negli Stati Uniti del Canada e della Groenlandia risulterebbe molto meno inconcepibile rispetto a quanto appaia attualmente.

Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», dove porterà?

Segue nostro Telegram.

Nei giorni scorsi, Donald Trump ha esplicitato l’intenzione di annettere Canda, Groenlandia e Panama «per ragioni di sicurezza economica», e iscritto il ricorso a strumenti coercitivi nel novero delle opzioni praticabili per conseguire l’obiettivo. Le esternazioni del presidente eletto hanno prevedibilmente suscitato un’ondata di reazioni stizzite. Il ministro degli Esteri francese Jean-Noel Barrot ha dichiarato senza mezzi termini che «la Groenlandia è un territorio dell’Unione Europea […]. È fuori discussione che l’Unione Europea accetti che altre nazioni del mondo, qualunque esse siano, prendano di mira le nostre frontiere sovrane». La Francia attribuisce così una dimensione europea a un tema che riguarderebbe direttamente la Danimarca, ma pregno di implicazioni geoeconomiche alla luce della ricchezza di risorse che caratterizza la Groenlandia. Prese di posizione altrettanto severe sono arrivate dalla Germania, con il cancelliere Olaf Scholz che ha espresso sincero sconcerto per le “sparate” di Trump e ribadito che «il principio dell’inviolabilità delle frontiere vale per ogni Paese».

Nonostante le recriminazioni di Scholz, e a dispetto delle valutazioni formulate da Blinken atte a minimizzare la portata delle dichiarazioni di Trump, le uscite del magnate newyorkese aprono uno squarcio su un ipotetico scenario futuro che potrebbe caratterizzarsi per il “superamento” di alcuni pilastri del diritto internazionale come l’intangibilità dei confini e il rispetto della sovranità statale. Il trasferimento manu militari degli oblast’ di Crimea, Donec’k, Lugans’k, Zaporižžja e Kherson dall’Ucraina alla Federazione Russa e l’occupazione di un’ampia “fascia di sicurezza” all’interno del territorio siriano da parte di Israele rappresentano gli episodi culminanti di un ciclo di destrutturazione e riconfigurazione degli assetti internazionali succeduto a quello avviato all’inizio del XX Secolo per effetto di una (apparentemente) paradossale convergenza di punti di vista tra Unione Sovietica e Stati Uniti in merito alla tesi secondo cui ogni nazione avesse diritto a dotarsi di uno Stato. La trasposizione pratica dell’idea, sostenuta dai bolscevichi per ragioni ideologiche e dal presidente Woodrow Wilson perché funzionale a ben precisi interessi strategici ed economici, comportò, specie in seguito alla disgregazione degli imperi coloniali, la parcellizzazione dello spazio geopolitico in una costellazione di Stati sprovvisti di qualsiasi forza politica e consistenza economica. Ne scaturì un quadro strategico bipolare caratterizzato dal controllo condominiale da parte di Mosca e Washington su una variegatissima congrega di satelliti posti in una condizione di subordinazione dall’“arruolamento” tramite cooptazione delle singole oligarchie locali. Il legame di dipendenza imposto alle micro-particelle statali la cui sovranità rappresentava mera merce di scambio elle élite locali bisognose dell’appoggio esterno, fu esteso in una certa misura anche a Paesi di stazza incommensurabilmente maggiore come Cina e India.

La frammentazione geopolitica aveva in altri termini aperto il varco a nuove lottizzazioni territoriali, soppiantando la preesistente logica imperiale di espansione e acquisizione diretta dello spazio geografico. Come scrive lo studioso francese François Thual, «se lo spezzettamento del pianeta ha preceduto la mondializzazione economica, quest’ultima l’ha successivamente favorito abbattendo tramezzi e paratie che separavano i mercati per sostituirli con un mercato mondiale unico».

Risultato: un incremento costante dei livelli di interdipendenza economica, con una quota assai significativa di Paesi dotati di prospettive di benessere interno dipendenti in maniera schiacciante dall’accesso ai mercati stranieri. A partire da quello statunitense. È proprio il caso del Canada, che ha chiuso il 2024 con un avanzo commerciale nei confronti degli Stati Uniti pari a circa 55 miliardi di dollari.

Con il consueto stile crudo e provocatorio, Trump ha manifestato l’intenzione di correggere questo squilibrio (rispetto ai quali i decisori statunitensi hanno responsabilità enormi e incontestabili) evitando di farne una questione di principio o di giustizia, ma richiamandosi semplicemente ai rapporti di forza vigenti. E lo ha fatto per perorare la causa dell’annessione del discreto vicino settentrionale, titolare di una sovranità alquanto limitata e sostanzialmente rispettata finora dagli Stati Uniti perché esercitata in funzione dei loro interessi. Una condizione di vassallaggio de facto che il Canada condivide sostanzialmente con i Paesi europei membri della Nato.

L’odierno quadro strategico, caratterizzato da una competizione senza esclusione di colpi tra grandi potenze rivali, va tuttavia comprimendo i pur ristretti margini di manovra dei Paesi a sovranità limitata e restituendo al controllo diretto del territorio – come fonte di risorse essenziali per la conduzione della guerra, la crescita dell’economia e l’incremento della popolazione – la rilevanza cruciale rivestita per secoli e secoli. La cortina fumogena dell’“ordine internazionale basato sulle regole” (rule-based international order) ne esce fortemente diradata, palesando la natura profondamente hobbesiana delle relazioni internazionali, regolate da logiche ispirate più o meno esplicitamente alla legge della giungla.

Come ha affermato lo stesso Trump alternando la carota al bastone: «se il Canada si fondesse con gli Stati Uniti, verrebbero meno tariffe, le tasse calerebbero notevolmente e i suoi cittadini sarebbero totalmente al sicuro dalla minaccia delle navi russe e cinesi che li circondano costantemente. Insieme, che grande Nazione diventeremmo!». Una nazione, per l’esattezza, abitata da 375 milioni di persone e stracolma di risorse naturali d’ogni genere, dotata di una estensione territoriale superiore a quella della Russia e in grado di assommare un Pil pari a 32.000 miliardi di dollari. In un’ottica di medio-lungo termine, una “Fortezza America” del genere che Trump intende costituire soddisferebbe per di più tutte le credenziali necessarie ad accreditarsi in un formidabile polo d’attrazione per un numero crescente di soggetti minori, riassegnando agli Stati Uniti il magnetismo geopolitico esercitato nel corso del XIX Secolo.

Le dinamiche del “Grande Gioco” lasciano pertanto intravedere la possibilità che, in un futuro non troppo remoto, gli Stati-satellite o comunque relegati in una condizione di dipendenza perdano gli ultimi rimasugli di sovranità rimasta a favore dei grandi attori internazionali. La prospettiva di un’incorporazione negli Stati Uniti del Canada e della Groenlandia risulterebbe molto meno inconcepibile rispetto a quanto appaia attualmente.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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January 17, 2025

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