Ormai manca poco: non appena un sufficiente numero di fabbriche di microchip saranno delocalizzate dalla Cina all’Europa, gli USA non avranno più motivo di aspettare: a Taiwan sarà guerra.
Un oggetto a cui non si può rinunciare
Partiamo dal presupposto che i microchip sono irrinunciabili al giorno d’oggi. Quasi niente di ciò che vediamo attorno a noi ogni giorno funzionerebbe nello stesso modo. Letteralmente. La comunicazione, la medicina, l’automazione industriale, l’automobile e l’intrattenimento. I microchip sono al cuore di Internet, che ha trasformato il modo in cui le persone lavorano, comunicano e accedono alle informazioni. Sono fondamentali per lo sviluppo di tecnologie emergenti come l’intelligenza artificiale, l’Internet delle cose (IoT) e la blockchain. Queste tecnologie stanno plasmando il futuro, che ci piaccia o no, e ci viviamo dentro al 100%, tutti quanti.
Prima dell’invenzione dei microchip, i computer e i dispositivi elettronici utilizzavano valvole a vuoto e transistor discreti. Questi componenti occupavano molto spazio, consumavano molta energia e generavano calore, rendendo i computer grandi, costosi e inaffidabili. L’invenzione del transistor nel 1947 da parte di John Bardeen, Walter Brattain e William Shockley fu un passo importante verso la miniaturizzazione e l’efficienza energetica.
La svolta successiva arrivò con l’invenzione del circuito integrato. Nel 1958, Jack Kilby, un ingegnere della Texas Instruments, riuscì a costruire il primo circuito integrato funzionante, che consisteva in un transistor, alcune resistenze e un condensatore, tutti collegati su un singolo pezzo di materiale semiconduttore, il silicio. Poco dopo, Robert Noyce, co-fondatore di Fairchild Semiconductor, sviluppò un approccio simile ma con miglioramenti che facilitarono la produzione di massa. Queste invenzioni permisero di combinare molteplici funzioni elettroniche in un unico chip, riducendo drasticamente le dimensioni e i costi dei dispositivi elettronici.
I microchip sono diventati irrinunciabili per diverse ragioni:
- Miniaturizzazione e portabilità: i microchip hanno permesso di ridurre le dimensioni dei dispositivi elettronici, rendendo possibile lo sviluppo di dispositivi portatili come smartphone, laptop e smartwatch.
- Efficienza energetica: Rispetto ai componenti discreti, i microchip consumano molta meno energia, contribuendo a prolungare la durata della batteria nei dispositivi portatili e a ridurre il consumo energetico complessivo.
- Velocità e prestazioni: possono eseguire miliardi di operazioni al secondo, rendendo possibile il funzionamento di computer, server e dispositivi complessi che richiedono elevate prestazioni.
- Economia di Scala: la produzione di massa di microchip ha abbattuto i costi, rendendo la tecnologia accessibile a una vasta gamma di applicazioni, dal settore industriale a quello consumer.
- Versatilità: sono estremamente versatili e possono essere progettati per una vasta gamma di applicazioni, inclusi processori, memorie, sensori e dispositivi di comunicazione.
Ora, la domanda è: chi produce microchip nel mondo? Il primo produttore è la Cina.
Chi consuma di più microchip? La risposta è: gli Stati Uniti d’America.
Cosa significa ciò? Significa che c’è un legame di dipendenza che ha un valore geopolitico e strategico enorme. E adesso è un problema molto più serio di prima.
Lo scudo dei microchip
È stato chiamato “scudo dei microchip”: la primazia di Taipei sui microprocessori garantirebbe una improbabilità di un attacco della Cina, che spingerebbe gli USA, che dipendono dai chip cinesi, ad intervenire.
Detto in altre parole: un accordo per una guerra a bassa intensità, che però non può durare in eterno.
Effettivamente il conflitto c’è stato, a colpi di aziende vendute e comprate, sia da Cina che da USA.
La taiwanese King Yuan Electronics Co (KYEC), nel mese di aprile 2024 aveva ceduto la sua intera partecipazione alla Cina, vendendo la filiale di Suzhou per 4,9 miliardi di yuan (circa 676 milioni di dollari) al consorzio che comprende King Legacy Investments, Le Power, Anchor Light Holdings, Suzhou Insustrial Park Investments Fund, TongFu Microelectronics Co e Shanghai State Enterprises Integrated Improvement e Experiment Private Equity Fund Partnership. La ragione dichiarata dall’azienda è che la Cina doveva soddisfare maggiormente la produzione di chip per le IA. L’accordo era stato fatto a pochi giorni dalla promulgazione di uno dei pacchetti di sanzioni emanati da Biden.
Un altro caso emblematico è quello della Taiwan Semiconductor Manufacturing, la cui sede in Arizona ha ottenuto successi di produzione maggiori della “gemella” taiwanese, dando un vantaggio agli USA. Nel caso di questa azienda, si aggiunge un dettaglio molto significativo: in caso di conflitto, l’intelligence americana consentirà a Taiwan di interrompere la produzione di microchip, cosa che comporterebbe un enorme shock finanziario globale. I chip di TSMC sono impiegati in quasi tutti i dispositivi elettronici del mondo, provate a immaginare che effetto avrebbe tutto ciò.
Il punto è che non si può rinunciare ai microchip. Questa condizione non lascia scampo. Lo scudo protegge da qualcosa, ma se questo qualcosa riesce a impossessarsi dello scudo, che cosa avviene?
L’urgenza geopolitica e strategica di cambiare rotta
Il 2024 per gli USA è stato un anno terribile, a proposito di microchip.
Il titolo Intel – azienda leader – ha avuto un trascorso difficile, con un crollo di quasi il 60% da gennaio e una caduta vertiginosa all’inizio di agosto, quando gli investitori guidati da Warren Buffett hanno dato il via a un massiccio selloff che ha portato i principali titoli tecnologici a perdere quasi 3.000 miliardi di dollari di valore in una tempesta perfetta di timori di recessione, preoccupazioni per l’aumento delle spese di capitale legate all’intelligenza artificiale e inflazione.
Il crollo delle azioni ha fatto luce sulle difficoltà di Intel, con una raffica di notizie iniziate alla fine della scorsa settimana che citavano fonti informate e che rivelavano che l’azienda si trova nel “periodo più difficile dei suoi 56 anni di storia”, sta cercando consigli strategici da grandi banche e sta valutando la possibilità di vendere le sue attività di produzione di chip.
La notizia ha un significato importante per il governo degli Stati Uniti. Intel non è solo una delle più antiche aziende americane di produzione di chip, ma “na risorsa fondamentale per la sicurezza nazionale, che segnala la capacità (o l’incapacità) di Washington di competere con Taiwan, Corea del Sud, Cina e altri golia della produzione di chip.
Intel ha attualmente più di due dozzine di siti fab e post-fab, la maggior parte dei quali in Oregon, Arizona, California, New Mexico, Colorado e Ohio, ma anche in Irlanda e Israele. La potenziale riduzione degli investimenti rischia di mettere a repentaglio gli ambiziosi piani di espansione dell’azienda, con spese in conto capitale che dovrebbero diminuire di 10 miliardi di dollari nel 2025.
I problemi dell’azienda sono stati una cattiva notizia per l’amministrazione Biden, che a marzo ha versato 8,5 miliardi di dollari nelle casse dell’azienda grazie alla legge CHIPS & Science Act, che prevede 39 miliardi di dollari di sovvenzioni per la produzione di chip negli Stati Uniti, 13 miliardi di dollari per la ricerca sui semiconduttori e la formazione della forza lavoro e lucrosi incentivi fiscali.
Se Intel viene riformata e ristrutturata al punto da perdere il suo potere di produzione di chip, un elemento importante dell’agenda economica non soltanto dell’uscente Biden, ma anche di Trump, potrebbe andare in fumo.
Ma non è solo Intel il problema.
Gli USA non possono più delegare all’estero la produzione di ciò che gli serve. Decenni di decentramento produttivo si sono rivelati ottimi nel breve periodo ma disastrosi sul lungo. A dire il vero, stavano già guardando avanti alla problematica da anni.
Nel 2022, il Congresso aveva discusso il Taiwan Policy Act 2022, un disegno di legge che si concentrava sull’espansione sia della natura che dell’importo degli aiuti militari statunitensi che il governo americano è autorizzato a fornire a Taiwan, incluso un cospicuo pacchetto di sanzioni alla Cina. La vicenda fu discussa durante il viaggio diplomatico di Nancy Pelosi nella regione, una aperta provocazione nei confronti di Pechino che fece preoccupare anche Giappone e Australia.
Alla cerimonia per la firma del disegno di legge sono arrivati anche i dirigenti delle società IT di Micron, Intel, Lockheed Martin, HP e Advanced Micro Devices. Curiosamente, proprio in contemporanea, anche il settore tecnologico americano ha annunciato un aumento degli investimenti. Micron ha speso 40 miliardi di dollari per creare posti di lavoro negli Stati Uniti. E Qualcomm e Global Foundries hanno stipulato accordi di partnership in base ai quali verranno investiti 4,2 miliardi di dollari nella produzione di microchip e nell’espansione delle imprese esistenti.
La questione chip passa in mano all’amministrazione Trump e non sarà un passeggiata. L’entourage presidenziale è pieno di anti-cinesi che sono preparati a fronteggiare il nemico.
La volontà di Trump è quella di spostare la produzione di chip in Europa, oltre che in America, sfruttando i nuovi accordi commerciali che sono in procinto di essere siglati. Per l’Europa, l’assetto di economia di guerra è perfetto per incentivare la produzione di questi piccoli elementi elettronici.
La TSMC, ad esempio, ha investito a fine 2023 ben 10 miliardi di euro in Germania per un impianto costruito a Dresda in cui produrre chip entro la fine del 2027. Un evento che è stato favorito dal Chip Act europeo, una sorta di fotocopia di quello americano, voluto con l’intenzione di raddoppiare la produzione di microchip nel giro di pochi anni.
In Europa gli statunitensi di Intel puntano su Magdeburgo (oltre alla Francia ed all’Irlanda). L’Italia è in gioco con un’area in Veneto ed una in Piemonte: un investimento da 5 mila posti di lavoro. In prospettiva le filiere si stanno accorciando ed è importante che, se la produzione di componenti elettronici si avvicinerà ai mercati di sbocco, l’Italia diventi un punto di riferimento per il Vecchio Continente.
Al di là degli investimenti e delle partnership che possono essere siglate, la questione è da considerarsi anche sotto il punto di vista strategico.
Dobbiamo aspettarci una possibile mossa di questo tipo: nel momento in cui una sufficiente quantità di microchip saranno prodotti e garantiti fuori dall’orbita di potere cinese… allora gli USA potranno attaccare, tentando di prendere Taiwan.
È per questa ragione che gli USA stanno impiegando anche vari Paesi vassalli, come l’Italia, in esplorazioni “commerciali” nel Mare Cinese, toccando anche gli Stati limitrofi, come Indonesia e Filippine.
Il Mare cosa c’entra in tutto questo? Semplice: Taiwan è un’isola, quindi il mare è il dominio a cui appartiene, e una potenza di mare come gli USA non possono rinunciare ad un ingaggio marittimo. I grandi dispiegamenti americani attorno a Taiwan, realizzati nel corso degli anni, rappresentano ora una minaccia reale per la Cina.
Il punto è che non si conosce né la quantità reale di questi microchip necessari, né quando verrà raggiunta. E questo significa che l’attacco potrebbe essere dietro l’angolo, ogni giorno.