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Lorenzo Maria Pacini
December 25, 2025
© Photo: Public domain

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

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Nuove ottiche

Le popolazioni del Medio Oriente osservano con attenzione se Washington sia davvero intenzionata a ridurre il proprio coinvolgimento nella regione o se, come avvenuto con le quattro amministrazioni precedenti, anche il governo del presidente statunitense Donald Trump finirà per restare intrappolato nelle sabbie mobili mediorientali. Al di là degli slogan altisonanti che hanno accompagnato le varie presidenze americane, i problemi dell’area si sono progressivamente aggravati, diventando sempre più complessi, in parallelo con l’aumento dell’ingerenza statunitense.

Oggi l’amministrazione americana invoca il principio di “America First”, proclamando il rifiuto dell’interventismo, della ricostruzione statale e delle guerre senza fine. Tuttavia, essa non ha rinunciato all’ambizione di plasmare l’ordine globale, come dimostra la pubblicazione della National Security Strategy, che propone una ridefinizione strategica del Medio Oriente con l’obiettivo di evitare l’ascesa di qualsiasi potenza dominante nella regione. Resta da capire se questo nuovo tentativo avrà successo, se gli Stati influenti accetteranno la formula americana e se le popolazioni locali tollereranno una gestione delle crisi regionali funzionale esclusivamente agli interessi di Washington. Molti interrogativi restano aperti e solo il tempo chiarirà l’esito della scommessa di Trump, che appare verosimilmente come l’ennesimo esperimento americano in Medio Oriente.

Il documento della Casa Bianca conferma che il Medio Oriente non rappresenta più l’elemento centrale delle priorità strategiche statunitensi. L’attenzione di Washington si sposta ora sull’emisfero occidentale e sull’Indo-Pacifico, individuati come i principali teatri della competizione geopolitica ed economica globale.

Secondo numerosi analisti, questa scelta segna una discontinuità significativa rispetto a decenni di politica estera americana, durante i quali il Medio Oriente ha occupato una posizione di assoluto rilievo. Tale riorientamento solleva interrogativi profondi sulle conseguenze di questo mutamento e sulla possibile conclusione di quella che può essere definita “l’era mediorientale” della strategia statunitense.

Inoltre, questa svolta getta un’ombra sul futuro dei conflitti regionali, poiché un eventuale vuoto di sicurezza derivante dal disimpegno americano potrebbe favorire nuove escalation, minare le prospettive di pace e aumentare il rischio di ulteriori guerre.

Secondo diversi esperti regionali, la strategia afferma chiaramente che l’emisfero occidentale e l’Indo-Pacifico costituiscono ormai i principali spazi della competizione globale, mentre il Medio Oriente viene retrocesso a un’area di “impegno selettivo”, basato su interessi reciproci e circoscritti.

Altri osservatori, tuttavia, sottolineano che non si tratterebbe di un ritiro totale, bensì di una forma di disimpegno calibrato. Gli Stati Uniti resterebbero presenti ogniqualvolta i propri interessi economici o di intelligence fossero minacciati, evitando però di combattere guerre per conto di terzi.

Secondo questa interpretazione, la riduzione della centralità del Medio Oriente non implica la fine delle sanzioni o delle operazioni militari contro Stati ritenuti pericolosi per gli interessi americani. Piuttosto, segnala la volontà di non sacrificare più risorse umane e finanziarie per contenere conflitti regionali che non incidono direttamente sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Questa linea è coerente con le dichiarazioni di numerosi funzionari di Washington, i quali hanno più volte evidenziato i costi enormi sostenuti dall’America in termini di denaro e vite umane, sostenendo che sia giunto il momento per gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, mentre gli Stati Uniti interverranno solo in caso di minacce dirette ai propri interessi vitali.

Qualcosa sta cambiando

In un certo senso, non è scorretto affermar che il declassamento del Medio Oriente nella strategia di sicurezza del 2025 non rappresenti una semplice riorganizzazione delle priorità, ma equivalga a una vera e propria dichiarazione di fine dell’era mediorientale nella politica americana, sostituita dalla competizione con Cina e Russia in altri teatri. Siffatto approccio genererà inevitabilmente un vuoto di sicurezza destinato ad alimentare nuove tensioni.

In particolare Israele dovrà decidere cosa fare riguardo la nuova strategia americana, interpretata già da alcuni come una autorizzazione a fare piazza pulita nella regione palestinese, estendendo anche l’egemonia del progetto del Grande Israele ai Paesi circostanti. Sicuramente Israele continuerà a beneficiare del sostegno logistico e informativo statunitense e che nessuno ne limiterà le operazioni, anche qualora superasse determinate linee rosse. Ciò potrebbe innescare una nuova corsa agli armamenti nella regione, con ogni Paese impegnato a rafforzare le proprie capacità militari per autodifesa.

È anche vero che la nuova strategia americana privilegia la difesa del territorio nazionale — confini, spazio aereo e sicurezza interna — riducendo drasticamente gli impegni globali che avevano caratterizzato la politica statunitense dalla Guerra Fredda in poi.

Il Medio Oriente, un tempo al centro delle strategie americane, viene ora relegato a regione secondaria, mentre la competizione con la Cina nel Pacifico assume il ruolo di principale campo di battaglia geopolitico del secolo. Washington affronterà il Medio Oriente principalmente in base a interessi economici reciproci, rinunciando agli impegni militari massicci del passato. Questa impostazione rappresenta, a suo avviso, l’applicazione concreta del principio “America First”, che lega la sicurezza nazionale alla stabilità economica interna, alla lotta all’immigrazione e al traffico di droga, e alla riduzione della spesa militare in Medio Oriente a favore dell’industria americana.

Possiamo sintetizzare dicendo che la National Security Strategy non preannuncia un Medio Oriente più giusto o pacifico, ma piuttosto un ordine regionale più rigido, spietato e al tempo stesso più trasparente. Per la prima volta da decenni, gli Stati Uniti trattano il Medio Oriente come suggerisce il realismo politico: una regione importante, ma non vitale, la cui stabilità conta solo nella misura in cui incide sugli interessi fondamentali americani; non è un semplice documento politico, bensì il manifesto teorico di un nuovo approccio che rifiuta l’idea post-1991 degli Stati Uniti come garanti indispensabili dell’ordine liberale globale. Al suo posto emerge un realismo disciplinato, che valuta ogni impegno esterno in base a un criterio unico: il beneficio diretto per la sicurezza, la prosperità e lo stile di vita americano.

In conclusione, Washington potrebbe riuscire a impedire l’ascesa di una potenza egemonica in Medio Oriente, ma imporre un assetto regionale costruito esclusivamente su interessi e direttive americane non è né scontato né garantito.

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e palestinesi, appare eccessivamente ottimistica. Negare la centralità energetica della regione, la competizione tra grandi potenze e il potenziale di diffusione dei conflitti non equivale a cancellarli.

La negazione o il desiderio non creano la realtà. Il Medio Oriente continuerà a essere cruciale per il sistema internazionale, e la questione palestinese resterà una presenza costante e irrisolta che continuerà a pesare su tutti gli attori coinvolti. E qualcuno, prima o dopo, chiederà il conto agli Stati Uniti d’America.

Il Medio Oriente, l’egemonia e la paura degli USA

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

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Nuove ottiche

Le popolazioni del Medio Oriente osservano con attenzione se Washington sia davvero intenzionata a ridurre il proprio coinvolgimento nella regione o se, come avvenuto con le quattro amministrazioni precedenti, anche il governo del presidente statunitense Donald Trump finirà per restare intrappolato nelle sabbie mobili mediorientali. Al di là degli slogan altisonanti che hanno accompagnato le varie presidenze americane, i problemi dell’area si sono progressivamente aggravati, diventando sempre più complessi, in parallelo con l’aumento dell’ingerenza statunitense.

Oggi l’amministrazione americana invoca il principio di “America First”, proclamando il rifiuto dell’interventismo, della ricostruzione statale e delle guerre senza fine. Tuttavia, essa non ha rinunciato all’ambizione di plasmare l’ordine globale, come dimostra la pubblicazione della National Security Strategy, che propone una ridefinizione strategica del Medio Oriente con l’obiettivo di evitare l’ascesa di qualsiasi potenza dominante nella regione. Resta da capire se questo nuovo tentativo avrà successo, se gli Stati influenti accetteranno la formula americana e se le popolazioni locali tollereranno una gestione delle crisi regionali funzionale esclusivamente agli interessi di Washington. Molti interrogativi restano aperti e solo il tempo chiarirà l’esito della scommessa di Trump, che appare verosimilmente come l’ennesimo esperimento americano in Medio Oriente.

Il documento della Casa Bianca conferma che il Medio Oriente non rappresenta più l’elemento centrale delle priorità strategiche statunitensi. L’attenzione di Washington si sposta ora sull’emisfero occidentale e sull’Indo-Pacifico, individuati come i principali teatri della competizione geopolitica ed economica globale.

Secondo numerosi analisti, questa scelta segna una discontinuità significativa rispetto a decenni di politica estera americana, durante i quali il Medio Oriente ha occupato una posizione di assoluto rilievo. Tale riorientamento solleva interrogativi profondi sulle conseguenze di questo mutamento e sulla possibile conclusione di quella che può essere definita “l’era mediorientale” della strategia statunitense.

Inoltre, questa svolta getta un’ombra sul futuro dei conflitti regionali, poiché un eventuale vuoto di sicurezza derivante dal disimpegno americano potrebbe favorire nuove escalation, minare le prospettive di pace e aumentare il rischio di ulteriori guerre.

Secondo diversi esperti regionali, la strategia afferma chiaramente che l’emisfero occidentale e l’Indo-Pacifico costituiscono ormai i principali spazi della competizione globale, mentre il Medio Oriente viene retrocesso a un’area di “impegno selettivo”, basato su interessi reciproci e circoscritti.

Altri osservatori, tuttavia, sottolineano che non si tratterebbe di un ritiro totale, bensì di una forma di disimpegno calibrato. Gli Stati Uniti resterebbero presenti ogniqualvolta i propri interessi economici o di intelligence fossero minacciati, evitando però di combattere guerre per conto di terzi.

Secondo questa interpretazione, la riduzione della centralità del Medio Oriente non implica la fine delle sanzioni o delle operazioni militari contro Stati ritenuti pericolosi per gli interessi americani. Piuttosto, segnala la volontà di non sacrificare più risorse umane e finanziarie per contenere conflitti regionali che non incidono direttamente sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Questa linea è coerente con le dichiarazioni di numerosi funzionari di Washington, i quali hanno più volte evidenziato i costi enormi sostenuti dall’America in termini di denaro e vite umane, sostenendo che sia giunto il momento per gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, mentre gli Stati Uniti interverranno solo in caso di minacce dirette ai propri interessi vitali.

Qualcosa sta cambiando

In un certo senso, non è scorretto affermar che il declassamento del Medio Oriente nella strategia di sicurezza del 2025 non rappresenti una semplice riorganizzazione delle priorità, ma equivalga a una vera e propria dichiarazione di fine dell’era mediorientale nella politica americana, sostituita dalla competizione con Cina e Russia in altri teatri. Siffatto approccio genererà inevitabilmente un vuoto di sicurezza destinato ad alimentare nuove tensioni.

In particolare Israele dovrà decidere cosa fare riguardo la nuova strategia americana, interpretata già da alcuni come una autorizzazione a fare piazza pulita nella regione palestinese, estendendo anche l’egemonia del progetto del Grande Israele ai Paesi circostanti. Sicuramente Israele continuerà a beneficiare del sostegno logistico e informativo statunitense e che nessuno ne limiterà le operazioni, anche qualora superasse determinate linee rosse. Ciò potrebbe innescare una nuova corsa agli armamenti nella regione, con ogni Paese impegnato a rafforzare le proprie capacità militari per autodifesa.

È anche vero che la nuova strategia americana privilegia la difesa del territorio nazionale — confini, spazio aereo e sicurezza interna — riducendo drasticamente gli impegni globali che avevano caratterizzato la politica statunitense dalla Guerra Fredda in poi.

Il Medio Oriente, un tempo al centro delle strategie americane, viene ora relegato a regione secondaria, mentre la competizione con la Cina nel Pacifico assume il ruolo di principale campo di battaglia geopolitico del secolo. Washington affronterà il Medio Oriente principalmente in base a interessi economici reciproci, rinunciando agli impegni militari massicci del passato. Questa impostazione rappresenta, a suo avviso, l’applicazione concreta del principio “America First”, che lega la sicurezza nazionale alla stabilità economica interna, alla lotta all’immigrazione e al traffico di droga, e alla riduzione della spesa militare in Medio Oriente a favore dell’industria americana.

Possiamo sintetizzare dicendo che la National Security Strategy non preannuncia un Medio Oriente più giusto o pacifico, ma piuttosto un ordine regionale più rigido, spietato e al tempo stesso più trasparente. Per la prima volta da decenni, gli Stati Uniti trattano il Medio Oriente come suggerisce il realismo politico: una regione importante, ma non vitale, la cui stabilità conta solo nella misura in cui incide sugli interessi fondamentali americani; non è un semplice documento politico, bensì il manifesto teorico di un nuovo approccio che rifiuta l’idea post-1991 degli Stati Uniti come garanti indispensabili dell’ordine liberale globale. Al suo posto emerge un realismo disciplinato, che valuta ogni impegno esterno in base a un criterio unico: il beneficio diretto per la sicurezza, la prosperità e lo stile di vita americano.

In conclusione, Washington potrebbe riuscire a impedire l’ascesa di una potenza egemonica in Medio Oriente, ma imporre un assetto regionale costruito esclusivamente su interessi e direttive americane non è né scontato né garantito.

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e palestinesi, appare eccessivamente ottimistica. Negare la centralità energetica della regione, la competizione tra grandi potenze e il potenziale di diffusione dei conflitti non equivale a cancellarli.

La negazione o il desiderio non creano la realtà. Il Medio Oriente continuerà a essere cruciale per il sistema internazionale, e la questione palestinese resterà una presenza costante e irrisolta che continuerà a pesare su tutti gli attori coinvolti. E qualcuno, prima o dopo, chiederà il conto agli Stati Uniti d’America.

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

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Nuove ottiche

Le popolazioni del Medio Oriente osservano con attenzione se Washington sia davvero intenzionata a ridurre il proprio coinvolgimento nella regione o se, come avvenuto con le quattro amministrazioni precedenti, anche il governo del presidente statunitense Donald Trump finirà per restare intrappolato nelle sabbie mobili mediorientali. Al di là degli slogan altisonanti che hanno accompagnato le varie presidenze americane, i problemi dell’area si sono progressivamente aggravati, diventando sempre più complessi, in parallelo con l’aumento dell’ingerenza statunitense.

Oggi l’amministrazione americana invoca il principio di “America First”, proclamando il rifiuto dell’interventismo, della ricostruzione statale e delle guerre senza fine. Tuttavia, essa non ha rinunciato all’ambizione di plasmare l’ordine globale, come dimostra la pubblicazione della National Security Strategy, che propone una ridefinizione strategica del Medio Oriente con l’obiettivo di evitare l’ascesa di qualsiasi potenza dominante nella regione. Resta da capire se questo nuovo tentativo avrà successo, se gli Stati influenti accetteranno la formula americana e se le popolazioni locali tollereranno una gestione delle crisi regionali funzionale esclusivamente agli interessi di Washington. Molti interrogativi restano aperti e solo il tempo chiarirà l’esito della scommessa di Trump, che appare verosimilmente come l’ennesimo esperimento americano in Medio Oriente.

Il documento della Casa Bianca conferma che il Medio Oriente non rappresenta più l’elemento centrale delle priorità strategiche statunitensi. L’attenzione di Washington si sposta ora sull’emisfero occidentale e sull’Indo-Pacifico, individuati come i principali teatri della competizione geopolitica ed economica globale.

Secondo numerosi analisti, questa scelta segna una discontinuità significativa rispetto a decenni di politica estera americana, durante i quali il Medio Oriente ha occupato una posizione di assoluto rilievo. Tale riorientamento solleva interrogativi profondi sulle conseguenze di questo mutamento e sulla possibile conclusione di quella che può essere definita “l’era mediorientale” della strategia statunitense.

Inoltre, questa svolta getta un’ombra sul futuro dei conflitti regionali, poiché un eventuale vuoto di sicurezza derivante dal disimpegno americano potrebbe favorire nuove escalation, minare le prospettive di pace e aumentare il rischio di ulteriori guerre.

Secondo diversi esperti regionali, la strategia afferma chiaramente che l’emisfero occidentale e l’Indo-Pacifico costituiscono ormai i principali spazi della competizione globale, mentre il Medio Oriente viene retrocesso a un’area di “impegno selettivo”, basato su interessi reciproci e circoscritti.

Altri osservatori, tuttavia, sottolineano che non si tratterebbe di un ritiro totale, bensì di una forma di disimpegno calibrato. Gli Stati Uniti resterebbero presenti ogniqualvolta i propri interessi economici o di intelligence fossero minacciati, evitando però di combattere guerre per conto di terzi.

Secondo questa interpretazione, la riduzione della centralità del Medio Oriente non implica la fine delle sanzioni o delle operazioni militari contro Stati ritenuti pericolosi per gli interessi americani. Piuttosto, segnala la volontà di non sacrificare più risorse umane e finanziarie per contenere conflitti regionali che non incidono direttamente sulla sicurezza nazionale degli Stati Uniti.

Questa linea è coerente con le dichiarazioni di numerosi funzionari di Washington, i quali hanno più volte evidenziato i costi enormi sostenuti dall’America in termini di denaro e vite umane, sostenendo che sia giunto il momento per gli alleati di assumersi maggiori responsabilità, mentre gli Stati Uniti interverranno solo in caso di minacce dirette ai propri interessi vitali.

Qualcosa sta cambiando

In un certo senso, non è scorretto affermar che il declassamento del Medio Oriente nella strategia di sicurezza del 2025 non rappresenti una semplice riorganizzazione delle priorità, ma equivalga a una vera e propria dichiarazione di fine dell’era mediorientale nella politica americana, sostituita dalla competizione con Cina e Russia in altri teatri. Siffatto approccio genererà inevitabilmente un vuoto di sicurezza destinato ad alimentare nuove tensioni.

In particolare Israele dovrà decidere cosa fare riguardo la nuova strategia americana, interpretata già da alcuni come una autorizzazione a fare piazza pulita nella regione palestinese, estendendo anche l’egemonia del progetto del Grande Israele ai Paesi circostanti. Sicuramente Israele continuerà a beneficiare del sostegno logistico e informativo statunitense e che nessuno ne limiterà le operazioni, anche qualora superasse determinate linee rosse. Ciò potrebbe innescare una nuova corsa agli armamenti nella regione, con ogni Paese impegnato a rafforzare le proprie capacità militari per autodifesa.

È anche vero che la nuova strategia americana privilegia la difesa del territorio nazionale — confini, spazio aereo e sicurezza interna — riducendo drasticamente gli impegni globali che avevano caratterizzato la politica statunitense dalla Guerra Fredda in poi.

Il Medio Oriente, un tempo al centro delle strategie americane, viene ora relegato a regione secondaria, mentre la competizione con la Cina nel Pacifico assume il ruolo di principale campo di battaglia geopolitico del secolo. Washington affronterà il Medio Oriente principalmente in base a interessi economici reciproci, rinunciando agli impegni militari massicci del passato. Questa impostazione rappresenta, a suo avviso, l’applicazione concreta del principio “America First”, che lega la sicurezza nazionale alla stabilità economica interna, alla lotta all’immigrazione e al traffico di droga, e alla riduzione della spesa militare in Medio Oriente a favore dell’industria americana.

Possiamo sintetizzare dicendo che la National Security Strategy non preannuncia un Medio Oriente più giusto o pacifico, ma piuttosto un ordine regionale più rigido, spietato e al tempo stesso più trasparente. Per la prima volta da decenni, gli Stati Uniti trattano il Medio Oriente come suggerisce il realismo politico: una regione importante, ma non vitale, la cui stabilità conta solo nella misura in cui incide sugli interessi fondamentali americani; non è un semplice documento politico, bensì il manifesto teorico di un nuovo approccio che rifiuta l’idea post-1991 degli Stati Uniti come garanti indispensabili dell’ordine liberale globale. Al suo posto emerge un realismo disciplinato, che valuta ogni impegno esterno in base a un criterio unico: il beneficio diretto per la sicurezza, la prosperità e lo stile di vita americano.

In conclusione, Washington potrebbe riuscire a impedire l’ascesa di una potenza egemonica in Medio Oriente, ma imporre un assetto regionale costruito esclusivamente su interessi e direttive americane non è né scontato né garantito.

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e palestinesi, appare eccessivamente ottimistica. Negare la centralità energetica della regione, la competizione tra grandi potenze e il potenziale di diffusione dei conflitti non equivale a cancellarli.

La negazione o il desiderio non creano la realtà. Il Medio Oriente continuerà a essere cruciale per il sistema internazionale, e la questione palestinese resterà una presenza costante e irrisolta che continuerà a pesare su tutti gli attori coinvolti. E qualcuno, prima o dopo, chiederà il conto agli Stati Uniti d’America.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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December 24, 2025

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