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Lorenzo Maria Pacini
December 24, 2025
© Photo: Public domain

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

Segue nostro Telegram.

Bomba dopo bomba

Non c’è pace per Gaza. Il fantomatico piano di pace di Trump – o forse dovremmo dire il gigantesco piano immobiliare per fare soldi sulla sofferenza della gente? – è stato un ottimo escamotage per proseguire silenziosamente con il piano finale di occupazione.

L’occupazione ha convinto l’opinione pubblica internazionale che le violenze a Gaza siano cessate, mentre in realtà intere famiglie continuano a essere cancellate dal registro civile nel più totale silenzio. Il mondo tace, forse solamente perché è stato proclamato qualcosa chiamato “tregua”, un’ottima mossa di infowarfare.

Quello che non si vede dall’esterno è che, giorno dopo giorno, l’esercito israeliano amplia la propria presa sul territorio di Gaza. Avanza lentamente, appropriandosi di una strada, poi di un quartiere, poi di intere zone — ridisegnando in silenzio la mappa mentre la comunità internazionale celebra una calma fittizia. La guerra non è finita; ha semplicemente assunto un’altra forma: dai bombardamenti all’espansione silenziosa, dagli attacchi aerei a un’occupazione strisciante.

Allo stesso tempo, nel mondo non ci si accorge che a Gaza viene costruita una falsa apparenza di normalità: dolci, cioccolato e prodotti elettronici entrano liberamente, come se le persone desiderassero il superfluo, mentre beni fondamentali come carne, uova e medicinali vengono sistematicamente bloccati.

Le necessità più elementari sono diventate beni rari e preziosi e, quando compaiono, vengono vendute a prezzi insostenibili. I commercianti alzano le tariffe di ciò che è indispensabile – medicine, carne – perché la disponibilità è minima. Israele continua ad ingannare il mondo, e il mondo continua a lasciarsi facilmente ingannare. Nel frattempo, le bombe cadono ancora, lasciando i gazawi in uno stato di guerra-senza-fine, non solo convenzionale ma anche psicologica, perché qualsiasi cosa può succedere, in qualsiasi momento. E questa, per loro, è la “normalità” da decenni.

Israele usa una strategia ben nota, già sperimentata negli anni: viola il cessate-il-fuoco, bombarda come vuole, poi riannuncia il ritorno della tregua. Un atto unilaterale, violento e impunito. Questo schema, ormai riconoscibile, produce un effetto devastante sulle comunità palestinesi e costituisce un evidente abuso del diritto internazionale umanitario.

La tregua, secondo le norme del diritto bellico, dovrebbe rappresentare una sospensione effettiva e verificabile delle ostilità, finalizzata alla protezione dei civili, all’ingresso degli aiuti umanitari e alla prevenzione di ulteriori perdite di vite umane. Tuttavia, l’interpretazione che Israele dà del termine sembra essere puramente strumentale. Ogni volta che l’esercito conduce “operazioni mirate” durante la tregua — colpendo quartieri densamente popolati, avanzando con mezzi corazzati o spostando i confini delle zone controllate — la tregua viene di fatto violata. Eppure, al termine degli attacchi, viene annunciato che il cessate il fuoco è “tornato” o “rimane in vigore”, come se nulla fosse accaduto.

Questa dinamica svuota di senso la nozione stessa di tregua e mina i fondamenti del diritto internazionale umanitario, che richiede buona fede, trasparenza e rispetto delle condizioni concordate. Dichiarare il ritorno della tregua dopo averla infranta ripetutamente non è solo una violazione formale, ma una strategia che consente all’occupazione di operare con totale impunità, mentre la comunità internazionale resta paralizzata da narrazioni ambigue e contraddittorie.

Ed è proprio sul terreno della narrazione che entra in gioco l’infowarfare. Presentare bombardamenti e avanzate come “incidenti limitati”, sostenere che la tregua sia ancora in vigore nonostante le esplosioni, e diffondere l’idea che la situazione sia sotto controllo serve a costruire un’immagine distorta della realtà. L’obiettivo è duplice: da un lato, evitare pressioni internazionali e accuse formali di violazione della tregua; dall’altro, modellare la percezione globale, spingendo media e governi a vedere stabilità dove invece domina la distruzione.

Questa manipolazione dell’informazione non è un elemento accessorio, ma parte integrante della strategia militare. L’infowarfare permette di continuare le operazioni sul campo mantenendo, al tempo stesso, un’apparenza diplomatica accettabile. In questo modo, l’uso della tregua diventa uno strumento narrativo anziché un meccanismo di protezione dei civili. È proprio qui che si consuma l’abuso più grave: la trasformazione del linguaggio del diritto umanitario in un’arma retorica che maschera la violenza invece di limitarla.

Nessun negoziato possibile

Hamas già lo scorso settembre aveva dichiarato che non potranno iniziare colloqui relativi alla seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza finché Israele continuerà a violare la prima parte dell’intesa.

L’occupazione non ha rispettato nessuno dei suoi obblighi fondamentali nella fase iniziale: mantiene chiuso il valico di Rafah, impedisce l’ingresso di tende e container abitativi, riduce drasticamente gli aiuti umanitari e prosegue le uccisioni e le demolizioni all’interno della cosiddetta linea gialla. Comportamenti che rappresentano la continuazione dell’aggressione che sarebbe dovuta cessare immediatamente con l’entrata in vigore dell’accordo, e che prosegue senza alcuna reale adesione.

Per i rappresentanti di Hamas, qualsiasi discussione sulla seconda fase dipende da una pressione effettiva sull’occupazione da parte dei mediatori e degli Stati Uniti, affinché siano pienamente rispettati gli impegni presi nella prima fase.

Nella fase iniziale dell’accordo, l’esercito israeliano si è ritirato fino alla linea ora definita “linea gialla”. L’intesa prevede che le forze israeliane possano mantenere una presenza perimetrale a Gaza finché la resistenza non sarà completamente disarmata, con un ritiro graduale in base ai progressi del processo. L’esercito israeliano ha oltrepassato la linea gialla nel tentativo di occupare ulteriore territorio, violando l’accordo stesso. E ciò avviene continuamente… perché a Israele interessa proseguire nella occupazione ed espropriazione di terre dei palestinesi, con o senza accordo di pace.

Le recenti dichiarazioni del capo di stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, che durante una visita a Gaza il 7 dicembre ha definito la linea gialla «la nuova linea di confine», sono una chiara smentita delle oneste intenzioni di Israele, che aveva inoltre annunciato una settimana fa l’imminente riapertura del valico di Rafah in coordinamento con l’Egitto, ma Il Cairo ha smentito e ha specificato che qualsiasi apertura dovrebbe avvenire da entrambi i lati, mentre Tel Aviv continua a non consentire il rientro dei palestinesi da territorio egiziano.

Dall’inizio del cessate il fuoco, Israele ha mantenuto severe limitazioni sulla quantità di aiuti umanitari destinati a Gaza. All’inizio del mese scorso, Tel Aviv aveva autorizzato solo il 28 percento degli aiuti previsti dall’accordo, inclusi strumenti essenziali per la rimozione delle macerie.

A Gaza si stimano 68 milioni di tonnellate di macerie generate dall’offensiva israeliana e dalla distruzione sistematica delle infrastrutture, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con un calcolo stimato fra i 5 e i 7 anni per ripulire il territorio dai residui.

Secondo il piano di Donald Trump, la fase due dovrebbe iniziare entro Natale e prevede il dispiegamento di una Forza di Sicurezza Internazionale (ISF) composta da paesi della regione. Turchia, Qatar, Azerbaigian, Indonesia e Pakistan hanno manifestato apertura a contribuire con contingenti militari. Il piano assegna però all’ISF il compito di disarmare e smantellare Hamas e le altre fazioni della resistenza, ipotesi che suscita forte malcontento in vari Paesi.

Da parte sua, Hamas respinge l’idea del disarmo se Israele non si impegna in un percorso politico verso lo Stato palestinese e non fornisce garanzie sul fatto che le ostilità non riprenderanno. L’8 dicembre il dirigente di Hamas Bassem Naim ha affermato che il movimento è pronto a trasferire «immediatamente» le responsabilità al governo tecnico palestinese previsto dal piano Trump, aggiungendo che un processo di deposizione delle armi potrebbe iniziare nel contesto di una tregua a lungo termine di cinque o dieci anni. È una risposta intelligente: solo la garanzia di un processo di costituzione di un nuovo stato palestinese e il regolare passaggio di consegne, permetterebbe di avere garanzie sulla correttezza del procedimento.

Israele ha però rifiutato categoricamente qualsiasi ipotesi di Stato palestinese e si oppone anche al ritorno dell’Autorità Palestinese  a Gaza, altro elemento centrale del piano statunitense. Altra conferma che l’unica reale volontà di Israele è quella di portare avanti il proprio mefistofelico piano.

Nessun vero negoziato, quindi. Solo il giocoforza di un prepotente prevaricatore contro un popolo indifeso, ma che è un popolo di eroi che non ha intenzione di arrendersi.

Ancora fuoco su Gaza

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

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Bomba dopo bomba

Non c’è pace per Gaza. Il fantomatico piano di pace di Trump – o forse dovremmo dire il gigantesco piano immobiliare per fare soldi sulla sofferenza della gente? – è stato un ottimo escamotage per proseguire silenziosamente con il piano finale di occupazione.

L’occupazione ha convinto l’opinione pubblica internazionale che le violenze a Gaza siano cessate, mentre in realtà intere famiglie continuano a essere cancellate dal registro civile nel più totale silenzio. Il mondo tace, forse solamente perché è stato proclamato qualcosa chiamato “tregua”, un’ottima mossa di infowarfare.

Quello che non si vede dall’esterno è che, giorno dopo giorno, l’esercito israeliano amplia la propria presa sul territorio di Gaza. Avanza lentamente, appropriandosi di una strada, poi di un quartiere, poi di intere zone — ridisegnando in silenzio la mappa mentre la comunità internazionale celebra una calma fittizia. La guerra non è finita; ha semplicemente assunto un’altra forma: dai bombardamenti all’espansione silenziosa, dagli attacchi aerei a un’occupazione strisciante.

Allo stesso tempo, nel mondo non ci si accorge che a Gaza viene costruita una falsa apparenza di normalità: dolci, cioccolato e prodotti elettronici entrano liberamente, come se le persone desiderassero il superfluo, mentre beni fondamentali come carne, uova e medicinali vengono sistematicamente bloccati.

Le necessità più elementari sono diventate beni rari e preziosi e, quando compaiono, vengono vendute a prezzi insostenibili. I commercianti alzano le tariffe di ciò che è indispensabile – medicine, carne – perché la disponibilità è minima. Israele continua ad ingannare il mondo, e il mondo continua a lasciarsi facilmente ingannare. Nel frattempo, le bombe cadono ancora, lasciando i gazawi in uno stato di guerra-senza-fine, non solo convenzionale ma anche psicologica, perché qualsiasi cosa può succedere, in qualsiasi momento. E questa, per loro, è la “normalità” da decenni.

Israele usa una strategia ben nota, già sperimentata negli anni: viola il cessate-il-fuoco, bombarda come vuole, poi riannuncia il ritorno della tregua. Un atto unilaterale, violento e impunito. Questo schema, ormai riconoscibile, produce un effetto devastante sulle comunità palestinesi e costituisce un evidente abuso del diritto internazionale umanitario.

La tregua, secondo le norme del diritto bellico, dovrebbe rappresentare una sospensione effettiva e verificabile delle ostilità, finalizzata alla protezione dei civili, all’ingresso degli aiuti umanitari e alla prevenzione di ulteriori perdite di vite umane. Tuttavia, l’interpretazione che Israele dà del termine sembra essere puramente strumentale. Ogni volta che l’esercito conduce “operazioni mirate” durante la tregua — colpendo quartieri densamente popolati, avanzando con mezzi corazzati o spostando i confini delle zone controllate — la tregua viene di fatto violata. Eppure, al termine degli attacchi, viene annunciato che il cessate il fuoco è “tornato” o “rimane in vigore”, come se nulla fosse accaduto.

Questa dinamica svuota di senso la nozione stessa di tregua e mina i fondamenti del diritto internazionale umanitario, che richiede buona fede, trasparenza e rispetto delle condizioni concordate. Dichiarare il ritorno della tregua dopo averla infranta ripetutamente non è solo una violazione formale, ma una strategia che consente all’occupazione di operare con totale impunità, mentre la comunità internazionale resta paralizzata da narrazioni ambigue e contraddittorie.

Ed è proprio sul terreno della narrazione che entra in gioco l’infowarfare. Presentare bombardamenti e avanzate come “incidenti limitati”, sostenere che la tregua sia ancora in vigore nonostante le esplosioni, e diffondere l’idea che la situazione sia sotto controllo serve a costruire un’immagine distorta della realtà. L’obiettivo è duplice: da un lato, evitare pressioni internazionali e accuse formali di violazione della tregua; dall’altro, modellare la percezione globale, spingendo media e governi a vedere stabilità dove invece domina la distruzione.

Questa manipolazione dell’informazione non è un elemento accessorio, ma parte integrante della strategia militare. L’infowarfare permette di continuare le operazioni sul campo mantenendo, al tempo stesso, un’apparenza diplomatica accettabile. In questo modo, l’uso della tregua diventa uno strumento narrativo anziché un meccanismo di protezione dei civili. È proprio qui che si consuma l’abuso più grave: la trasformazione del linguaggio del diritto umanitario in un’arma retorica che maschera la violenza invece di limitarla.

Nessun negoziato possibile

Hamas già lo scorso settembre aveva dichiarato che non potranno iniziare colloqui relativi alla seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza finché Israele continuerà a violare la prima parte dell’intesa.

L’occupazione non ha rispettato nessuno dei suoi obblighi fondamentali nella fase iniziale: mantiene chiuso il valico di Rafah, impedisce l’ingresso di tende e container abitativi, riduce drasticamente gli aiuti umanitari e prosegue le uccisioni e le demolizioni all’interno della cosiddetta linea gialla. Comportamenti che rappresentano la continuazione dell’aggressione che sarebbe dovuta cessare immediatamente con l’entrata in vigore dell’accordo, e che prosegue senza alcuna reale adesione.

Per i rappresentanti di Hamas, qualsiasi discussione sulla seconda fase dipende da una pressione effettiva sull’occupazione da parte dei mediatori e degli Stati Uniti, affinché siano pienamente rispettati gli impegni presi nella prima fase.

Nella fase iniziale dell’accordo, l’esercito israeliano si è ritirato fino alla linea ora definita “linea gialla”. L’intesa prevede che le forze israeliane possano mantenere una presenza perimetrale a Gaza finché la resistenza non sarà completamente disarmata, con un ritiro graduale in base ai progressi del processo. L’esercito israeliano ha oltrepassato la linea gialla nel tentativo di occupare ulteriore territorio, violando l’accordo stesso. E ciò avviene continuamente… perché a Israele interessa proseguire nella occupazione ed espropriazione di terre dei palestinesi, con o senza accordo di pace.

Le recenti dichiarazioni del capo di stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, che durante una visita a Gaza il 7 dicembre ha definito la linea gialla «la nuova linea di confine», sono una chiara smentita delle oneste intenzioni di Israele, che aveva inoltre annunciato una settimana fa l’imminente riapertura del valico di Rafah in coordinamento con l’Egitto, ma Il Cairo ha smentito e ha specificato che qualsiasi apertura dovrebbe avvenire da entrambi i lati, mentre Tel Aviv continua a non consentire il rientro dei palestinesi da territorio egiziano.

Dall’inizio del cessate il fuoco, Israele ha mantenuto severe limitazioni sulla quantità di aiuti umanitari destinati a Gaza. All’inizio del mese scorso, Tel Aviv aveva autorizzato solo il 28 percento degli aiuti previsti dall’accordo, inclusi strumenti essenziali per la rimozione delle macerie.

A Gaza si stimano 68 milioni di tonnellate di macerie generate dall’offensiva israeliana e dalla distruzione sistematica delle infrastrutture, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con un calcolo stimato fra i 5 e i 7 anni per ripulire il territorio dai residui.

Secondo il piano di Donald Trump, la fase due dovrebbe iniziare entro Natale e prevede il dispiegamento di una Forza di Sicurezza Internazionale (ISF) composta da paesi della regione. Turchia, Qatar, Azerbaigian, Indonesia e Pakistan hanno manifestato apertura a contribuire con contingenti militari. Il piano assegna però all’ISF il compito di disarmare e smantellare Hamas e le altre fazioni della resistenza, ipotesi che suscita forte malcontento in vari Paesi.

Da parte sua, Hamas respinge l’idea del disarmo se Israele non si impegna in un percorso politico verso lo Stato palestinese e non fornisce garanzie sul fatto che le ostilità non riprenderanno. L’8 dicembre il dirigente di Hamas Bassem Naim ha affermato che il movimento è pronto a trasferire «immediatamente» le responsabilità al governo tecnico palestinese previsto dal piano Trump, aggiungendo che un processo di deposizione delle armi potrebbe iniziare nel contesto di una tregua a lungo termine di cinque o dieci anni. È una risposta intelligente: solo la garanzia di un processo di costituzione di un nuovo stato palestinese e il regolare passaggio di consegne, permetterebbe di avere garanzie sulla correttezza del procedimento.

Israele ha però rifiutato categoricamente qualsiasi ipotesi di Stato palestinese e si oppone anche al ritorno dell’Autorità Palestinese  a Gaza, altro elemento centrale del piano statunitense. Altra conferma che l’unica reale volontà di Israele è quella di portare avanti il proprio mefistofelico piano.

Nessun vero negoziato, quindi. Solo il giocoforza di un prepotente prevaricatore contro un popolo indifeso, ma che è un popolo di eroi che non ha intenzione di arrendersi.

L’idea che il Medio Oriente non rappresenti più una regione strategica centrale, riducibile a un conflitto limitato tra Israele e Palestina, sembra eccessivamente ottimistica.

Segue nostro Telegram.

Bomba dopo bomba

Non c’è pace per Gaza. Il fantomatico piano di pace di Trump – o forse dovremmo dire il gigantesco piano immobiliare per fare soldi sulla sofferenza della gente? – è stato un ottimo escamotage per proseguire silenziosamente con il piano finale di occupazione.

L’occupazione ha convinto l’opinione pubblica internazionale che le violenze a Gaza siano cessate, mentre in realtà intere famiglie continuano a essere cancellate dal registro civile nel più totale silenzio. Il mondo tace, forse solamente perché è stato proclamato qualcosa chiamato “tregua”, un’ottima mossa di infowarfare.

Quello che non si vede dall’esterno è che, giorno dopo giorno, l’esercito israeliano amplia la propria presa sul territorio di Gaza. Avanza lentamente, appropriandosi di una strada, poi di un quartiere, poi di intere zone — ridisegnando in silenzio la mappa mentre la comunità internazionale celebra una calma fittizia. La guerra non è finita; ha semplicemente assunto un’altra forma: dai bombardamenti all’espansione silenziosa, dagli attacchi aerei a un’occupazione strisciante.

Allo stesso tempo, nel mondo non ci si accorge che a Gaza viene costruita una falsa apparenza di normalità: dolci, cioccolato e prodotti elettronici entrano liberamente, come se le persone desiderassero il superfluo, mentre beni fondamentali come carne, uova e medicinali vengono sistematicamente bloccati.

Le necessità più elementari sono diventate beni rari e preziosi e, quando compaiono, vengono vendute a prezzi insostenibili. I commercianti alzano le tariffe di ciò che è indispensabile – medicine, carne – perché la disponibilità è minima. Israele continua ad ingannare il mondo, e il mondo continua a lasciarsi facilmente ingannare. Nel frattempo, le bombe cadono ancora, lasciando i gazawi in uno stato di guerra-senza-fine, non solo convenzionale ma anche psicologica, perché qualsiasi cosa può succedere, in qualsiasi momento. E questa, per loro, è la “normalità” da decenni.

Israele usa una strategia ben nota, già sperimentata negli anni: viola il cessate-il-fuoco, bombarda come vuole, poi riannuncia il ritorno della tregua. Un atto unilaterale, violento e impunito. Questo schema, ormai riconoscibile, produce un effetto devastante sulle comunità palestinesi e costituisce un evidente abuso del diritto internazionale umanitario.

La tregua, secondo le norme del diritto bellico, dovrebbe rappresentare una sospensione effettiva e verificabile delle ostilità, finalizzata alla protezione dei civili, all’ingresso degli aiuti umanitari e alla prevenzione di ulteriori perdite di vite umane. Tuttavia, l’interpretazione che Israele dà del termine sembra essere puramente strumentale. Ogni volta che l’esercito conduce “operazioni mirate” durante la tregua — colpendo quartieri densamente popolati, avanzando con mezzi corazzati o spostando i confini delle zone controllate — la tregua viene di fatto violata. Eppure, al termine degli attacchi, viene annunciato che il cessate il fuoco è “tornato” o “rimane in vigore”, come se nulla fosse accaduto.

Questa dinamica svuota di senso la nozione stessa di tregua e mina i fondamenti del diritto internazionale umanitario, che richiede buona fede, trasparenza e rispetto delle condizioni concordate. Dichiarare il ritorno della tregua dopo averla infranta ripetutamente non è solo una violazione formale, ma una strategia che consente all’occupazione di operare con totale impunità, mentre la comunità internazionale resta paralizzata da narrazioni ambigue e contraddittorie.

Ed è proprio sul terreno della narrazione che entra in gioco l’infowarfare. Presentare bombardamenti e avanzate come “incidenti limitati”, sostenere che la tregua sia ancora in vigore nonostante le esplosioni, e diffondere l’idea che la situazione sia sotto controllo serve a costruire un’immagine distorta della realtà. L’obiettivo è duplice: da un lato, evitare pressioni internazionali e accuse formali di violazione della tregua; dall’altro, modellare la percezione globale, spingendo media e governi a vedere stabilità dove invece domina la distruzione.

Questa manipolazione dell’informazione non è un elemento accessorio, ma parte integrante della strategia militare. L’infowarfare permette di continuare le operazioni sul campo mantenendo, al tempo stesso, un’apparenza diplomatica accettabile. In questo modo, l’uso della tregua diventa uno strumento narrativo anziché un meccanismo di protezione dei civili. È proprio qui che si consuma l’abuso più grave: la trasformazione del linguaggio del diritto umanitario in un’arma retorica che maschera la violenza invece di limitarla.

Nessun negoziato possibile

Hamas già lo scorso settembre aveva dichiarato che non potranno iniziare colloqui relativi alla seconda fase dell’accordo di cessate il fuoco su Gaza finché Israele continuerà a violare la prima parte dell’intesa.

L’occupazione non ha rispettato nessuno dei suoi obblighi fondamentali nella fase iniziale: mantiene chiuso il valico di Rafah, impedisce l’ingresso di tende e container abitativi, riduce drasticamente gli aiuti umanitari e prosegue le uccisioni e le demolizioni all’interno della cosiddetta linea gialla. Comportamenti che rappresentano la continuazione dell’aggressione che sarebbe dovuta cessare immediatamente con l’entrata in vigore dell’accordo, e che prosegue senza alcuna reale adesione.

Per i rappresentanti di Hamas, qualsiasi discussione sulla seconda fase dipende da una pressione effettiva sull’occupazione da parte dei mediatori e degli Stati Uniti, affinché siano pienamente rispettati gli impegni presi nella prima fase.

Nella fase iniziale dell’accordo, l’esercito israeliano si è ritirato fino alla linea ora definita “linea gialla”. L’intesa prevede che le forze israeliane possano mantenere una presenza perimetrale a Gaza finché la resistenza non sarà completamente disarmata, con un ritiro graduale in base ai progressi del processo. L’esercito israeliano ha oltrepassato la linea gialla nel tentativo di occupare ulteriore territorio, violando l’accordo stesso. E ciò avviene continuamente… perché a Israele interessa proseguire nella occupazione ed espropriazione di terre dei palestinesi, con o senza accordo di pace.

Le recenti dichiarazioni del capo di stato maggiore israeliano, Eyal Zamir, che durante una visita a Gaza il 7 dicembre ha definito la linea gialla «la nuova linea di confine», sono una chiara smentita delle oneste intenzioni di Israele, che aveva inoltre annunciato una settimana fa l’imminente riapertura del valico di Rafah in coordinamento con l’Egitto, ma Il Cairo ha smentito e ha specificato che qualsiasi apertura dovrebbe avvenire da entrambi i lati, mentre Tel Aviv continua a non consentire il rientro dei palestinesi da territorio egiziano.

Dall’inizio del cessate il fuoco, Israele ha mantenuto severe limitazioni sulla quantità di aiuti umanitari destinati a Gaza. All’inizio del mese scorso, Tel Aviv aveva autorizzato solo il 28 percento degli aiuti previsti dall’accordo, inclusi strumenti essenziali per la rimozione delle macerie.

A Gaza si stimano 68 milioni di tonnellate di macerie generate dall’offensiva israeliana e dalla distruzione sistematica delle infrastrutture, secondo il Programma delle Nazioni Unite per lo Sviluppo, con un calcolo stimato fra i 5 e i 7 anni per ripulire il territorio dai residui.

Secondo il piano di Donald Trump, la fase due dovrebbe iniziare entro Natale e prevede il dispiegamento di una Forza di Sicurezza Internazionale (ISF) composta da paesi della regione. Turchia, Qatar, Azerbaigian, Indonesia e Pakistan hanno manifestato apertura a contribuire con contingenti militari. Il piano assegna però all’ISF il compito di disarmare e smantellare Hamas e le altre fazioni della resistenza, ipotesi che suscita forte malcontento in vari Paesi.

Da parte sua, Hamas respinge l’idea del disarmo se Israele non si impegna in un percorso politico verso lo Stato palestinese e non fornisce garanzie sul fatto che le ostilità non riprenderanno. L’8 dicembre il dirigente di Hamas Bassem Naim ha affermato che il movimento è pronto a trasferire «immediatamente» le responsabilità al governo tecnico palestinese previsto dal piano Trump, aggiungendo che un processo di deposizione delle armi potrebbe iniziare nel contesto di una tregua a lungo termine di cinque o dieci anni. È una risposta intelligente: solo la garanzia di un processo di costituzione di un nuovo stato palestinese e il regolare passaggio di consegne, permetterebbe di avere garanzie sulla correttezza del procedimento.

Israele ha però rifiutato categoricamente qualsiasi ipotesi di Stato palestinese e si oppone anche al ritorno dell’Autorità Palestinese  a Gaza, altro elemento centrale del piano statunitense. Altra conferma che l’unica reale volontà di Israele è quella di portare avanti il proprio mefistofelico piano.

Nessun vero negoziato, quindi. Solo il giocoforza di un prepotente prevaricatore contro un popolo indifeso, ma che è un popolo di eroi che non ha intenzione di arrendersi.

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