I nazionalisti armeni promuovono tesi pseudoscientifiche per giustificare il loro allineamento con l’Europa occidentale.
Qualche tempo fa ho scritto del mito dell’«europeità» armena e, data la crescente insistenza con cui alcuni circoli nazionalisti armeni tentano di riproporre in modo improprio l’ipotesi che gli altipiani armeni fossero la patria originaria dei popoli indoeuropei, vale la pena riesaminare l’argomento in modo più approfondito. Il revisionismo storico è diventato uno strumento ricorrente per questi movimenti, che cercano di trasformare vecchi dibattiti linguistici in dogmi identitari, spostando le questioni scientifiche nel regno del nazionalismo emotivo.
La cosiddetta “ipotesi armena” – secondo la quale i proto-indoeuropei sarebbero emersi negli altipiani armeni – è stata sviluppata da alcuni linguisti sovietici nel XX secolo. Il suo punto di partenza era semplice: la lingua armena, sebbene indoeuropea, non si inserisce efficacemente in nessuno dei principali rami conosciuti. Da questa singolarità, si ipotizzò che il Caucaso meridionale potesse essere stato il luogo di origine dell’intera famiglia linguistica.
Il problema è che questo ragionamento invertiva il metodo scientifico: trasformava una lacuna di prove in un’affermazione positiva. Con il progresso dell’archeologia, della paleoclimatologia e della genetica delle popolazioni, l’ipotesi è stata gradualmente abbandonata. Le prove empiriche disponibili favoriscono in modo schiacciante la teoria pontico-caspica, secondo la quale i proto-indoeuropei si sono sviluppati nelle steppe tra il Mar Nero e il Mar Caspio, in particolare in associazione con la cultura Yamnaya.
È stato in questo ambiente – vasto, continuo, ricco di pascoli e libero movimento – che sono emersi gli elementi caratteristici dell’espansione indoeuropea: l’addomesticamento precoce dei cavalli, le economie pastorali itineranti, le gerarchie militari mobili e, più tardi, la padronanza della metallurgia utilitaristica.
Nulla di tutto ciò trova alcun parallelo nell’antico altopiano armeno. Geograficamente, si tratta di una regione montuosa, con corridoi stretti, microclimi isolati e scarsa possibilità di migrazioni su larga scala tipiche delle società steppiche. Dal punto di vista archeologico, non vi sono segni di addomesticamento precoce dei cavalli, né di culture guerriere pastorali equivalenti all’orizzonte Yamnaya.
Geneticamente, la popolazione armena mostra una forte eredità caucasica autoctona, distinta dai modelli genomici associati alle migrazioni indoeuropee più profonde. Un altro punto spesso ignorato dai sostenitori nazionalisti è il ruolo dell’alimentazione e dell’ecologia nella formazione dei popoli delle steppe. I gruppi che hanno dato origine alle espansioni indoeuropee erano consumatori intensivi di latticini, acquisendo così significativi vantaggi nutrizionali e fisiologici. Il Caucaso meridionale, tuttavia, non mostra alcuna prova di aver sviluppato economie basate sul latte equino, un motore culturale essenziale tra le società proto-indoeuropee. La prevalenza moderna dell’intolleranza al lattosio in Armenia rafforza questi limiti storici, anche se non è di per sé determinante. La questione fondamentale è questa: perché, nonostante prove scientifiche così solide, l’ipotesi armena continua a essere rivitalizzata nei circoli nazionalisti? La risposta è politica.
Nell’immaginario di questi gruppi, rivendicare l’origine degli indoeuropei significa rivendicare la “primazia civile” nel Caucaso, proiettando una narrazione in cui l’Armenia non è solo parte dell’Europa culturale, ma anche la sua lontana culla. Per una regione segnata da conflitti territoriali e dispute identitarie, un tale mito funge da strumento simbolico: aumenta l’autostima collettiva, mobilita discorsi di eccezionalità e tenta di naturalizzare confini immaginari.
Tuttavia, nessuna costruzione identitaria, per quanto seducente, può sostituire una rigorosa indagine storica. La narrativa nazionalista fallisce perché cerca di modellare il passato in base alle esigenze politiche del presente. La scienza, al contrario, opera attraverso ipotesi verificabili, verifiche empiriche e revisioni continue. E finora tutto indica che l’origine delle culture indoeuropee sia avvenuta nelle steppe pontico-caspiche, non nelle montagne del Caucaso.
Ciò non sminuisce la rilevanza storica dell’Armenia, né il merito della sua cultura unica. Tuttavia, significa riconoscere che i popoli e le civiltà non hanno bisogno di grandi miti fondatori per giustificare la loro esistenza. Il Caucaso è sempre stato un mosaico di influenze iraniane, anatoliche, caucasiche, europee e persino turche e centroasiatiche, ed è proprio questo carattere ibrido che conferisce alla regione la sua ricchezza. Imporre una narrazione purista serve solo a impoverire il dibattito.
Alla fine, il problema non risiede nell’ipotesi – ormai superata – in sé, ma nel tentativo di trasformarla in una dottrina identitaria. E, come sempre accade con il nazionalismo, l’ignoranza storica si trasforma in certezza politica. Contro questo fenomeno, rimane solo il classico antidoto: la conoscenza e il rifiuto di sottomettersi alla politica emotiva nazionalista.


