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Giacomo Gabellini
December 16, 2025
© Photo: Public domain

La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

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La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

Il documento attesta uno spostamento del fulcro degli sforzi statunitensi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione attualizzata della Dottrina Monroe esplicitata con il cosiddetto “corollario Trump”. Il testo afferma chiaramente che, «dopo anni di negligenza, la Dottrina Monroe per ripristinare la preminenza statunitense nell’emisfero occidentale e proteggere la patria e il nostro accesso ad aree geografiche chiave in tutta la regione. Negheremo ai concorrenti non emisferici la possibilità di posizionare forze o altre capacità offensive, o di possedere o controllare risorse strategicamente vitali, nel nostro emisfero. Questo “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe rappresenta un ripristino efficace e ben congegnato del potere e delle priorità statunitensi, coerente con gli interessi di sicurezza nazionale».

L’anteposizione degli interessi nell’emisfero occidentale delinea un ecosistema a cerchi concentrici che vincola gli Stati Uniti a porre sotto il proprio controllo i Paesi di più stretta prossimità geografica, da integrare in catene di approvvigionamento scollegate per quanto possibile da “Stati non emisferici” collocati su posizioni ostili.

Il riferimento è chiaramente diretto alla Cina, che la National Security Strategy si propone di contrastare rinsaldando lo schema di alleanza nello scacchiere asiatico e assegnando alle Us Navy il compito di presidiare le rotte commerciali nella macroregione dell’Indo-Pacifico.

I teatri mediorientale e soprattutto africano rivestono una rilevanza molto marginale nella visione strategica tratteggiata dall’amministrazione Trump. Stesso discorso vale per l’Europa, alla quale accollare oneri maggiori legati alla difesa nel contesto di una ripartizione di compiti e responsabilità che investe anche la Nato. Il ripiegamento statunitense comporta giocoforza una riconfigurazione dell’Alleanza Atlantica, di cui va bloccato il processo di allargamento in nome di un ribilanciamento strategico dei rapporti con la Russia.

La National Security Strategy dedica invece interi paragrafi alle finalità di natura economica. La conversione dell’intero emisfero occidentale nell’area di influenza esclusiva statunitense deve procedere di pari passo con la ricostruzione della base industriale, realizzabile canalizzando capitali sia nazionali che stranieri verso i settori di rilevanza strategica come l’intelligenza artificiale.

Il recupero di una dimensione concretamente produttiva riveste un’importanza fondamentale non soltanto in un’ottica di allentamento dei vincoli di dipendenza dall’esterno, ma anche per risollevare il tenore di vita di milioni di cittadini statunitensi.

Riecheggiando il piano operativo messo a punto dall’economista Stephen Miran, il documento sostiene che una fondamentale spinta al riequilibrio dei rapporti con l’estero deve provenire dal commercio: «gli Stati Uniti daranno priorità alla riduzione dei deficit commerciali, all’eliminazione delle barriere alle nostre esportazioni, alla fine del dumping e di altre pratiche anticoncorrenziali che danneggiano le industrie e i lavoratori statunitensi. Cerchiamo accordi commerciali equi e reciproci con le nazioni che desiderano commerciare con noi sulla base di reciproco vantaggio e rispetto. Ma le nostre priorità devono e saranno i nostri lavoratori, le nostre industrie e la nostra sicurezza nazionale».

La comunità di intelligence è chiamata invece a «monitorare le principali catene di approvvigionamento e i progressi tecnologici in tutto il mondo per garantire la comprensione e la mitigazione delle vulnerabilità e delle minacce alla sicurezza e alla prosperità statunitense».

Il futuro, si legge nel documento, «appartiene a coloro che creano. Gli Stati Uniti reindustrializzeranno la propria economia, riporteranno in patria le produzioni di livello più basso, incoraggeranno e attireranno investimenti nell’economia nazionale e nella forza lavoro, concentrandosi sui settori tecnologici critici ed emergenti. Lo faremo attraverso l’uso strategico di dazi e nuove tecnologie che favoriscano una produzione industriale diffusa in ogni angolo del Paese, migliorino gli standard di vita dei lavoratori americani e facciano sì che il nostro Paese non dipenda mai più da alcun avversario, reale o potenziale, per prodotti o componenti critici».

La National Security Strategy riconosce che «un esercito forte e capace non può esistere senza una base industriale altrettanto forte e capace. L’enorme divario, dimostrato nei recenti conflitti, tra droni e missili a basso costo e i costosi sistemi necessari per la difesa ha messo a nudo la necessità di cambiare e adattarci. Gli Stati Uniti hanno bisogno di una mobilitazione nazionale per mettere a punto difese potenti a basso costo, produrre su larga scala sistemi d’arma e munizioni più performanti e riorganizzare le catene di approvvigionamento del settore della difesa. In particolare, dobbiamo fornire alle nostre forze armate l’intera gamma di capacità, che vanno dalle armi a basso costo in grado di sconfiggere la maggior parte degli avversari fino ai sistemi di fascia alta necessari per conflitti con nemici sofisticati. E per realizzare la visione del presidente Trump basata sul principio di “pace attraverso la forza”, dobbiamo agire rapidamente. Incoraggeremo inoltre la rivitalizzazione delle basi industriali di tutti i nostri alleati e partner per rafforzare la difesa collettiva».

Uno dei presupposti basilari per la realizzazione del progetto consiste nel «ripristino del predominio energetico statunitense (petrolio, gas, carbone e nucleare) e il rimpatrio delle componenti energetiche chiave. Energia economica e abbondante creerà posti di lavoro ben retribuiti negli Stati Uniti, ridurrà i costi per i consumatori e le imprese, alimenterà la reindustrializzazione e contribuirà a mantenere il nostro vantaggio in tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale. L’espansione delle nostre esportazioni nette di energia approfondirà anche le relazioni con gli alleati, limitando al contempo l’influenza degli avversari, proteggendo la nostra capacità di difendere le nostre coste e, quando e dove necessario, consentendoci di proiettare il nostro potere. Rifiutiamo le disastrose ideologie del “cambiamento climatico” e dello “zero emissioni” che danneggiato l’Europa, minacciano gli Stati Uniti e arricchiscono i nostri avversari».

Per l’amministrazione Trump, il conseguimento di questi obiettivi centrati sull’economia reale va conciliato con la preservazione dell’egemonia statunitense in ambito finanziario. «Gli Stati Uniti – recita il documento – vantano i principali mercati finanziari e dei capitali al mondo. Si tratta di veri e propri pilastri dell’influenza statunitense, che offrono ai decisori politici influenza e strumenti significativi per promuovere le priorità di sicurezza nazionale. Ma la nostra posizione di leadership non può essere data per scontata. Preservare e accrescere il nostro predominio implica sfruttare il nostro dinamico sistema di libero mercato e la nostra leadership nella finanza digitale e nell’innovazione per garantire che i nostri mercati continuino a essere i più dinamici, liquidi e sicuri».

Il documento si propone in buona sostanza di correggere storture in materia di pianificazione strategica accumulate per tre decenni, nel corso dei quali le classi dirigenti di Washington hanno «sovrastimato la disponibilità degli Stati Uniti ad accollarsi in pianta stabile oneri globali di cui la popolazione non intravedeva alcun collegamento con l’interesse nazionale. Hanno sopravvalutato la capacità degli Stati Uniti di finanziare, contemporaneamente, un enorme apparato di welfare, regolamentazione e amministrazione, insieme a un ciclopico complesso militare, diplomatico, di intelligence e di assistenza all’estero. Hanno puntato in modo enormemente sbagliato e distruttivo sul globalismo e sul cosiddetto “libero scambio”, svuotando la classe media e la base industriale da cui dipende la preminenza economica e militare statunitense.

Le classe dirigenti del passato «hanno permesso ad alleati e partner di scaricare il costo della loro difesa sulla nostra popolazione, e talvolta di trascinarci in conflitti e controversie centrali per i loro interessi ma periferici o irrilevanti per i nostri. Hanno legato la politica statunitense a una rete di istituzioni internazionali, alcune delle quali guidate da un aperto anti-americanismo e molte da un transnazionalismo che cerca esplicitamente di dissolvere la sovranità dei singoli Stati. In sintesi, non solo le nostre élite hanno perseguito un obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile da raggiungere, ma così facendo hanno minato proprio i mezzi necessari per raggiungere tale obiettivo: il carattere della nostra nazione su cui si basava il suo potere, la sua ricchezza e la sua dignità».

Come conseguenza di questi errori catastrofici, gli Stati Uniti hanno disperso risorse ed energie in conflitti localizzati in teatri periferici, ponendo le basi per una sovraestensione ormai anacronistica perché non commisurata alle capacità reali del Paese.

Sotto questo aspetto, la National Security Strategy messa a punto dall’amministrazione Trump restringe notevolmente lo spettro degli interessi e degli obiettivi statunitensi, ancorando la sicurezza nazionale statunitense a prospettive di rilancio economico che richiedono l’efficace gestione di sfide – dalla reindustrializzazione all’acquisizione di una posizione dominante nel campo dell’intelligenza artificiale – di portata epocale.

La National Security Strategy viene a configurarsi da un lato come una “chiamata alle armi” per un Paese che non riesce più a Stati Uniti preservare la propria posizione egemonica. Dall’altro, come un embrionale tentativo di adattamento a un assetto internazionale caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di centri di potenza concorrenti.

La National Security Strategy: una “chiamata alle armi”

La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

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La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

Il documento attesta uno spostamento del fulcro degli sforzi statunitensi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione attualizzata della Dottrina Monroe esplicitata con il cosiddetto “corollario Trump”. Il testo afferma chiaramente che, «dopo anni di negligenza, la Dottrina Monroe per ripristinare la preminenza statunitense nell’emisfero occidentale e proteggere la patria e il nostro accesso ad aree geografiche chiave in tutta la regione. Negheremo ai concorrenti non emisferici la possibilità di posizionare forze o altre capacità offensive, o di possedere o controllare risorse strategicamente vitali, nel nostro emisfero. Questo “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe rappresenta un ripristino efficace e ben congegnato del potere e delle priorità statunitensi, coerente con gli interessi di sicurezza nazionale».

L’anteposizione degli interessi nell’emisfero occidentale delinea un ecosistema a cerchi concentrici che vincola gli Stati Uniti a porre sotto il proprio controllo i Paesi di più stretta prossimità geografica, da integrare in catene di approvvigionamento scollegate per quanto possibile da “Stati non emisferici” collocati su posizioni ostili.

Il riferimento è chiaramente diretto alla Cina, che la National Security Strategy si propone di contrastare rinsaldando lo schema di alleanza nello scacchiere asiatico e assegnando alle Us Navy il compito di presidiare le rotte commerciali nella macroregione dell’Indo-Pacifico.

I teatri mediorientale e soprattutto africano rivestono una rilevanza molto marginale nella visione strategica tratteggiata dall’amministrazione Trump. Stesso discorso vale per l’Europa, alla quale accollare oneri maggiori legati alla difesa nel contesto di una ripartizione di compiti e responsabilità che investe anche la Nato. Il ripiegamento statunitense comporta giocoforza una riconfigurazione dell’Alleanza Atlantica, di cui va bloccato il processo di allargamento in nome di un ribilanciamento strategico dei rapporti con la Russia.

La National Security Strategy dedica invece interi paragrafi alle finalità di natura economica. La conversione dell’intero emisfero occidentale nell’area di influenza esclusiva statunitense deve procedere di pari passo con la ricostruzione della base industriale, realizzabile canalizzando capitali sia nazionali che stranieri verso i settori di rilevanza strategica come l’intelligenza artificiale.

Il recupero di una dimensione concretamente produttiva riveste un’importanza fondamentale non soltanto in un’ottica di allentamento dei vincoli di dipendenza dall’esterno, ma anche per risollevare il tenore di vita di milioni di cittadini statunitensi.

Riecheggiando il piano operativo messo a punto dall’economista Stephen Miran, il documento sostiene che una fondamentale spinta al riequilibrio dei rapporti con l’estero deve provenire dal commercio: «gli Stati Uniti daranno priorità alla riduzione dei deficit commerciali, all’eliminazione delle barriere alle nostre esportazioni, alla fine del dumping e di altre pratiche anticoncorrenziali che danneggiano le industrie e i lavoratori statunitensi. Cerchiamo accordi commerciali equi e reciproci con le nazioni che desiderano commerciare con noi sulla base di reciproco vantaggio e rispetto. Ma le nostre priorità devono e saranno i nostri lavoratori, le nostre industrie e la nostra sicurezza nazionale».

La comunità di intelligence è chiamata invece a «monitorare le principali catene di approvvigionamento e i progressi tecnologici in tutto il mondo per garantire la comprensione e la mitigazione delle vulnerabilità e delle minacce alla sicurezza e alla prosperità statunitense».

Il futuro, si legge nel documento, «appartiene a coloro che creano. Gli Stati Uniti reindustrializzeranno la propria economia, riporteranno in patria le produzioni di livello più basso, incoraggeranno e attireranno investimenti nell’economia nazionale e nella forza lavoro, concentrandosi sui settori tecnologici critici ed emergenti. Lo faremo attraverso l’uso strategico di dazi e nuove tecnologie che favoriscano una produzione industriale diffusa in ogni angolo del Paese, migliorino gli standard di vita dei lavoratori americani e facciano sì che il nostro Paese non dipenda mai più da alcun avversario, reale o potenziale, per prodotti o componenti critici».

La National Security Strategy riconosce che «un esercito forte e capace non può esistere senza una base industriale altrettanto forte e capace. L’enorme divario, dimostrato nei recenti conflitti, tra droni e missili a basso costo e i costosi sistemi necessari per la difesa ha messo a nudo la necessità di cambiare e adattarci. Gli Stati Uniti hanno bisogno di una mobilitazione nazionale per mettere a punto difese potenti a basso costo, produrre su larga scala sistemi d’arma e munizioni più performanti e riorganizzare le catene di approvvigionamento del settore della difesa. In particolare, dobbiamo fornire alle nostre forze armate l’intera gamma di capacità, che vanno dalle armi a basso costo in grado di sconfiggere la maggior parte degli avversari fino ai sistemi di fascia alta necessari per conflitti con nemici sofisticati. E per realizzare la visione del presidente Trump basata sul principio di “pace attraverso la forza”, dobbiamo agire rapidamente. Incoraggeremo inoltre la rivitalizzazione delle basi industriali di tutti i nostri alleati e partner per rafforzare la difesa collettiva».

Uno dei presupposti basilari per la realizzazione del progetto consiste nel «ripristino del predominio energetico statunitense (petrolio, gas, carbone e nucleare) e il rimpatrio delle componenti energetiche chiave. Energia economica e abbondante creerà posti di lavoro ben retribuiti negli Stati Uniti, ridurrà i costi per i consumatori e le imprese, alimenterà la reindustrializzazione e contribuirà a mantenere il nostro vantaggio in tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale. L’espansione delle nostre esportazioni nette di energia approfondirà anche le relazioni con gli alleati, limitando al contempo l’influenza degli avversari, proteggendo la nostra capacità di difendere le nostre coste e, quando e dove necessario, consentendoci di proiettare il nostro potere. Rifiutiamo le disastrose ideologie del “cambiamento climatico” e dello “zero emissioni” che danneggiato l’Europa, minacciano gli Stati Uniti e arricchiscono i nostri avversari».

Per l’amministrazione Trump, il conseguimento di questi obiettivi centrati sull’economia reale va conciliato con la preservazione dell’egemonia statunitense in ambito finanziario. «Gli Stati Uniti – recita il documento – vantano i principali mercati finanziari e dei capitali al mondo. Si tratta di veri e propri pilastri dell’influenza statunitense, che offrono ai decisori politici influenza e strumenti significativi per promuovere le priorità di sicurezza nazionale. Ma la nostra posizione di leadership non può essere data per scontata. Preservare e accrescere il nostro predominio implica sfruttare il nostro dinamico sistema di libero mercato e la nostra leadership nella finanza digitale e nell’innovazione per garantire che i nostri mercati continuino a essere i più dinamici, liquidi e sicuri».

Il documento si propone in buona sostanza di correggere storture in materia di pianificazione strategica accumulate per tre decenni, nel corso dei quali le classi dirigenti di Washington hanno «sovrastimato la disponibilità degli Stati Uniti ad accollarsi in pianta stabile oneri globali di cui la popolazione non intravedeva alcun collegamento con l’interesse nazionale. Hanno sopravvalutato la capacità degli Stati Uniti di finanziare, contemporaneamente, un enorme apparato di welfare, regolamentazione e amministrazione, insieme a un ciclopico complesso militare, diplomatico, di intelligence e di assistenza all’estero. Hanno puntato in modo enormemente sbagliato e distruttivo sul globalismo e sul cosiddetto “libero scambio”, svuotando la classe media e la base industriale da cui dipende la preminenza economica e militare statunitense.

Le classe dirigenti del passato «hanno permesso ad alleati e partner di scaricare il costo della loro difesa sulla nostra popolazione, e talvolta di trascinarci in conflitti e controversie centrali per i loro interessi ma periferici o irrilevanti per i nostri. Hanno legato la politica statunitense a una rete di istituzioni internazionali, alcune delle quali guidate da un aperto anti-americanismo e molte da un transnazionalismo che cerca esplicitamente di dissolvere la sovranità dei singoli Stati. In sintesi, non solo le nostre élite hanno perseguito un obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile da raggiungere, ma così facendo hanno minato proprio i mezzi necessari per raggiungere tale obiettivo: il carattere della nostra nazione su cui si basava il suo potere, la sua ricchezza e la sua dignità».

Come conseguenza di questi errori catastrofici, gli Stati Uniti hanno disperso risorse ed energie in conflitti localizzati in teatri periferici, ponendo le basi per una sovraestensione ormai anacronistica perché non commisurata alle capacità reali del Paese.

Sotto questo aspetto, la National Security Strategy messa a punto dall’amministrazione Trump restringe notevolmente lo spettro degli interessi e degli obiettivi statunitensi, ancorando la sicurezza nazionale statunitense a prospettive di rilancio economico che richiedono l’efficace gestione di sfide – dalla reindustrializzazione all’acquisizione di una posizione dominante nel campo dell’intelligenza artificiale – di portata epocale.

La National Security Strategy viene a configurarsi da un lato come una “chiamata alle armi” per un Paese che non riesce più a Stati Uniti preservare la propria posizione egemonica. Dall’altro, come un embrionale tentativo di adattamento a un assetto internazionale caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di centri di potenza concorrenti.

La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

Segue nostro Telegram.

La National Security Strategy pubblicata recentissimamente dall’amministrazione Trump trae palesemente ispirazione alla stessa logica che innervava la bozza della National Defense Strategy visionata a settembre da «Politico» e dal «Washington Post».

Il documento attesta uno spostamento del fulcro degli sforzi statunitensi verso l’emisfero occidentale, conformemente a una riformulazione attualizzata della Dottrina Monroe esplicitata con il cosiddetto “corollario Trump”. Il testo afferma chiaramente che, «dopo anni di negligenza, la Dottrina Monroe per ripristinare la preminenza statunitense nell’emisfero occidentale e proteggere la patria e il nostro accesso ad aree geografiche chiave in tutta la regione. Negheremo ai concorrenti non emisferici la possibilità di posizionare forze o altre capacità offensive, o di possedere o controllare risorse strategicamente vitali, nel nostro emisfero. Questo “Corollario Trump” alla Dottrina Monroe rappresenta un ripristino efficace e ben congegnato del potere e delle priorità statunitensi, coerente con gli interessi di sicurezza nazionale».

L’anteposizione degli interessi nell’emisfero occidentale delinea un ecosistema a cerchi concentrici che vincola gli Stati Uniti a porre sotto il proprio controllo i Paesi di più stretta prossimità geografica, da integrare in catene di approvvigionamento scollegate per quanto possibile da “Stati non emisferici” collocati su posizioni ostili.

Il riferimento è chiaramente diretto alla Cina, che la National Security Strategy si propone di contrastare rinsaldando lo schema di alleanza nello scacchiere asiatico e assegnando alle Us Navy il compito di presidiare le rotte commerciali nella macroregione dell’Indo-Pacifico.

I teatri mediorientale e soprattutto africano rivestono una rilevanza molto marginale nella visione strategica tratteggiata dall’amministrazione Trump. Stesso discorso vale per l’Europa, alla quale accollare oneri maggiori legati alla difesa nel contesto di una ripartizione di compiti e responsabilità che investe anche la Nato. Il ripiegamento statunitense comporta giocoforza una riconfigurazione dell’Alleanza Atlantica, di cui va bloccato il processo di allargamento in nome di un ribilanciamento strategico dei rapporti con la Russia.

La National Security Strategy dedica invece interi paragrafi alle finalità di natura economica. La conversione dell’intero emisfero occidentale nell’area di influenza esclusiva statunitense deve procedere di pari passo con la ricostruzione della base industriale, realizzabile canalizzando capitali sia nazionali che stranieri verso i settori di rilevanza strategica come l’intelligenza artificiale.

Il recupero di una dimensione concretamente produttiva riveste un’importanza fondamentale non soltanto in un’ottica di allentamento dei vincoli di dipendenza dall’esterno, ma anche per risollevare il tenore di vita di milioni di cittadini statunitensi.

Riecheggiando il piano operativo messo a punto dall’economista Stephen Miran, il documento sostiene che una fondamentale spinta al riequilibrio dei rapporti con l’estero deve provenire dal commercio: «gli Stati Uniti daranno priorità alla riduzione dei deficit commerciali, all’eliminazione delle barriere alle nostre esportazioni, alla fine del dumping e di altre pratiche anticoncorrenziali che danneggiano le industrie e i lavoratori statunitensi. Cerchiamo accordi commerciali equi e reciproci con le nazioni che desiderano commerciare con noi sulla base di reciproco vantaggio e rispetto. Ma le nostre priorità devono e saranno i nostri lavoratori, le nostre industrie e la nostra sicurezza nazionale».

La comunità di intelligence è chiamata invece a «monitorare le principali catene di approvvigionamento e i progressi tecnologici in tutto il mondo per garantire la comprensione e la mitigazione delle vulnerabilità e delle minacce alla sicurezza e alla prosperità statunitense».

Il futuro, si legge nel documento, «appartiene a coloro che creano. Gli Stati Uniti reindustrializzeranno la propria economia, riporteranno in patria le produzioni di livello più basso, incoraggeranno e attireranno investimenti nell’economia nazionale e nella forza lavoro, concentrandosi sui settori tecnologici critici ed emergenti. Lo faremo attraverso l’uso strategico di dazi e nuove tecnologie che favoriscano una produzione industriale diffusa in ogni angolo del Paese, migliorino gli standard di vita dei lavoratori americani e facciano sì che il nostro Paese non dipenda mai più da alcun avversario, reale o potenziale, per prodotti o componenti critici».

La National Security Strategy riconosce che «un esercito forte e capace non può esistere senza una base industriale altrettanto forte e capace. L’enorme divario, dimostrato nei recenti conflitti, tra droni e missili a basso costo e i costosi sistemi necessari per la difesa ha messo a nudo la necessità di cambiare e adattarci. Gli Stati Uniti hanno bisogno di una mobilitazione nazionale per mettere a punto difese potenti a basso costo, produrre su larga scala sistemi d’arma e munizioni più performanti e riorganizzare le catene di approvvigionamento del settore della difesa. In particolare, dobbiamo fornire alle nostre forze armate l’intera gamma di capacità, che vanno dalle armi a basso costo in grado di sconfiggere la maggior parte degli avversari fino ai sistemi di fascia alta necessari per conflitti con nemici sofisticati. E per realizzare la visione del presidente Trump basata sul principio di “pace attraverso la forza”, dobbiamo agire rapidamente. Incoraggeremo inoltre la rivitalizzazione delle basi industriali di tutti i nostri alleati e partner per rafforzare la difesa collettiva».

Uno dei presupposti basilari per la realizzazione del progetto consiste nel «ripristino del predominio energetico statunitense (petrolio, gas, carbone e nucleare) e il rimpatrio delle componenti energetiche chiave. Energia economica e abbondante creerà posti di lavoro ben retribuiti negli Stati Uniti, ridurrà i costi per i consumatori e le imprese, alimenterà la reindustrializzazione e contribuirà a mantenere il nostro vantaggio in tecnologie all’avanguardia come l’intelligenza artificiale. L’espansione delle nostre esportazioni nette di energia approfondirà anche le relazioni con gli alleati, limitando al contempo l’influenza degli avversari, proteggendo la nostra capacità di difendere le nostre coste e, quando e dove necessario, consentendoci di proiettare il nostro potere. Rifiutiamo le disastrose ideologie del “cambiamento climatico” e dello “zero emissioni” che danneggiato l’Europa, minacciano gli Stati Uniti e arricchiscono i nostri avversari».

Per l’amministrazione Trump, il conseguimento di questi obiettivi centrati sull’economia reale va conciliato con la preservazione dell’egemonia statunitense in ambito finanziario. «Gli Stati Uniti – recita il documento – vantano i principali mercati finanziari e dei capitali al mondo. Si tratta di veri e propri pilastri dell’influenza statunitense, che offrono ai decisori politici influenza e strumenti significativi per promuovere le priorità di sicurezza nazionale. Ma la nostra posizione di leadership non può essere data per scontata. Preservare e accrescere il nostro predominio implica sfruttare il nostro dinamico sistema di libero mercato e la nostra leadership nella finanza digitale e nell’innovazione per garantire che i nostri mercati continuino a essere i più dinamici, liquidi e sicuri».

Il documento si propone in buona sostanza di correggere storture in materia di pianificazione strategica accumulate per tre decenni, nel corso dei quali le classi dirigenti di Washington hanno «sovrastimato la disponibilità degli Stati Uniti ad accollarsi in pianta stabile oneri globali di cui la popolazione non intravedeva alcun collegamento con l’interesse nazionale. Hanno sopravvalutato la capacità degli Stati Uniti di finanziare, contemporaneamente, un enorme apparato di welfare, regolamentazione e amministrazione, insieme a un ciclopico complesso militare, diplomatico, di intelligence e di assistenza all’estero. Hanno puntato in modo enormemente sbagliato e distruttivo sul globalismo e sul cosiddetto “libero scambio”, svuotando la classe media e la base industriale da cui dipende la preminenza economica e militare statunitense.

Le classe dirigenti del passato «hanno permesso ad alleati e partner di scaricare il costo della loro difesa sulla nostra popolazione, e talvolta di trascinarci in conflitti e controversie centrali per i loro interessi ma periferici o irrilevanti per i nostri. Hanno legato la politica statunitense a una rete di istituzioni internazionali, alcune delle quali guidate da un aperto anti-americanismo e molte da un transnazionalismo che cerca esplicitamente di dissolvere la sovranità dei singoli Stati. In sintesi, non solo le nostre élite hanno perseguito un obiettivo fondamentalmente indesiderabile e impossibile da raggiungere, ma così facendo hanno minato proprio i mezzi necessari per raggiungere tale obiettivo: il carattere della nostra nazione su cui si basava il suo potere, la sua ricchezza e la sua dignità».

Come conseguenza di questi errori catastrofici, gli Stati Uniti hanno disperso risorse ed energie in conflitti localizzati in teatri periferici, ponendo le basi per una sovraestensione ormai anacronistica perché non commisurata alle capacità reali del Paese.

Sotto questo aspetto, la National Security Strategy messa a punto dall’amministrazione Trump restringe notevolmente lo spettro degli interessi e degli obiettivi statunitensi, ancorando la sicurezza nazionale statunitense a prospettive di rilancio economico che richiedono l’efficace gestione di sfide – dalla reindustrializzazione all’acquisizione di una posizione dominante nel campo dell’intelligenza artificiale – di portata epocale.

La National Security Strategy viene a configurarsi da un lato come una “chiamata alle armi” per un Paese che non riesce più a Stati Uniti preservare la propria posizione egemonica. Dall’altro, come un embrionale tentativo di adattamento a un assetto internazionale caratterizzato dalla presenza di una molteplicità di centri di potenza concorrenti.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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