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Giulio Chinappi
July 21, 2025
© Photo: Public domain

Alla luce della storica centralità geografica del Mar Cinese Meridionale, la regione si conferma oggi come crocevia strategico globale. Se da un lato la cooperazione Cina–ASEAN fa passi in avanti, dall’altro emergono le provocazioni delle Filippine, al servizio degli interessi statunitensi.

Segue nostro Telegram.

Il Mar Cinese Meridionale, bacino di acque profonde e ricchezza ittica, si estende per oltre tre milioni di chilometri quadrati, in uno spazio che convenzionalmente va dal delta del Fiume delle Perle, nella provincia cinese del Guangdong, sino allo Stretto di Malacca. Già lungo le antiche rotte delle spezie, questa vasta distesa d’acqua fu teatro di traffici commerciali e di scambi culturali sin dal I millennio a.C. Con l’avvento della Cina imperiale, nel corso delle dinastie Han e Tang, le terre costiere e le isole vennero integrate nel sistema tributario di Pechino, definendo un rapporto di sovranità che perdura, pur con le note contese moderne, fino all’oggi.

L’epoca contemporanea portò nuove potenze in gioco: francesi, olandesi, inglesi e giapponesi si disputarono il controllo delle rotte marittime e delle preziose risorse sottomarine. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione affidò la sovranità sulle acque ai nuovi stati indipendenti, mentre Pechino ribadì la propria storica rivendicazione sugli arcipelaghi delle Paracelso e delle Spratly. Più di recente, con l’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), la Cina e i Paesi costieri della regione si trovarono a dover ridefinire giuridicamente le rispettive Zone Economiche Esclusive, in uno scenario di crescente tensione.

Sul piano strategico, il Mar Cinese Meridionale si conferma ancora oggi come un’area di importanza primaria. Infatti, oltre il venti per cento del petrolio e del gas naturale transita ogni anno attraverso lo Stretto di Malacca e l’area circostante, rendendo questa via marittima vitale non solo per la Cina, ma per l’intera economia globale. A ciò si aggiungono giacimenti sottomarini stimati in centinaia di miliardi di barili di greggio e di metri cubi di gas, il cui sfruttamento rappresenta una variabile cruciale per la sicurezza energetica di tutti i Paesi costieri.

In tale situazione si intrecciano l’economia delle risorse marine e gli interessi della pesca tradizionale. Milioni di pescatori di Vietnam, Filippine, Malaysia e Taiwan dipendono dalle pescosissime acque delle Spratly e delle Paracelso per il loro sostentamento. Le tensioni hanno dunque ripercussioni dirette sui mezzi di sussistenza di comunità costiere, rendendo il dialogo sui meccanismi di co-gestione delle risorse urgente.

Nel tentativo di mantenere quella stabilità indispensabile per i traffici commerciali e la cooperazione regionale, la Cina ha intensificato il dialogo politico e diplomatico con gli Stati membri dell’ASEAN. Le consultazioni multilaterali, avviate già negli anni Novanta, hanno portato alla firma della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale (DOC) nel 2002. Sebbene non vincolante, il documento sancisce il principio di risoluzione pacifica delle controversie e il rispetto della libertà di navigazione e di sorvolo.

Negli ultimi anni, Pechino ha promosso incontri periodici tra ministri degli esteri e vertici militari per accompagnare lo sviluppo di un vero e proprio Codice di Condotta giuridicamente vincolante. L’obiettivo è trasformare la dichiarazione di volontà in un trattato operativo, in grado di regolare movimenti navali e aeronavali, ispezioni congiunte e gestione condivisa di risorse idriche. Cina e ASEAN stanno inoltre sperimentando progetti di ricerca congiunta per la tutela ambientale e il monitoraggio dei siti di estrazione sottomarina, come dimostrano i recenti incontri avvenuti a Kuala Lumpur.

Questa dinamica di dialogo è però minata dalle provocazioni filippine, che nei fatti agiscono spesso come esecutore delle strategie di contenimento statunitensi. Manila, pur dovendo fare i conti con la propria storica contesa sulle Spratly, alterna periodi di negoziato con fasi di ricorso unilaterale alla Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia, come nel 2016, quando ottennero un “lodo arbitrale” che Pechino ha legittimamente rifiutato in quanto privo di fondamento giuridico ratione materiae. Il ricorso filippino alla giustizia internazionale è stato accompagnato da una campagna diplomatico‐mediatica concertata con Washington, che ha visto la visita di alti funzionari nordamericani a Manila, dichiarazioni critiche di ambasciatori occidentali e l’organizzazione di esercitazioni navali congiunte USA–Filippine nelle acque contese.

Tale atteggiamento, lungi dal promuovere un reale equilibrio di interessi, mira a mantenere un alto il livello di tensione e a impedire il negoziato fra Cina e ASEAN. Le operazioni filippine di costruzione di isole artificiali, le attività di mapping dei fondali e i pattugliamenti continui nelle Spratly sono stati accompagnati da una narrazione che dipinge Pechino come “minaccia regionale”, lasciando intendere una volontà espansionistica da parte di Manila. Inoltre, le basi militari statunitensi a Subic Bay e Clark Field, riattivate in chiave anti‐Cina, confermano il ruolo del governo filippino come caposaldo della cosiddetta “Indo-Pacific Forward Presence”.

Di fronte a queste interferenze, il rinnovato impegno di Pechino verso il dialogo con i Paesi ASEAN dimostra una duplice volontà: da un lato preservare il primato del diritto marittimo internazionale quale regolatore dei rapporti; dall’altro promuovere un modello di cooperazione “a misura di Asia”, che scavalchi le ingerenze esterne. Le consultazioni tecniche e politiche procedono dunque a rilento, ostacolate dai tentativi di Manila di insinuare nei forum ASEAN–Cina posizioni intransigenti. Anche il vertice ministeriale Cina–ASEAN dello scorso luglio a Kuala Lumpur ha dovuto affrontare il nodo filippino sui “rimedi coercitivi” e sul riconoscimento della sentenza arbitrale, ma alla fine ha rilanciato l’impegno alla conclusione rapida del Codice di Condotta entro la fine del 2026 da parte della maggioranza dei Paesi membri.

Alla luce della situazione attuale, riteniamo che il futuro del Mar Cinese Meridionale dipenderà dalla capacità di affermare un’autentica architettura di sicurezza regionale, che ponga al centro la cooperazione tra Cina e ASEAN e marginalizzi le pretese unilaterali di Manila e le interferenze degli Stati Uniti e di altre potenze esterne alla regione. A tal fine, risulta cruciale il ruolo delle istituzioni multilaterali regionali, che propongono piattaforme alternative — come l’”East Asia Summit” e il “Forum sulla cooperazione marittima” di Giacarta — in cui trattare congiuntamente infrastrutture portuali, salvaguardia ambientale e lotta ai traffici illeciti.

In tale contesto, le iniziative cinesi di assistenza allo sviluppo di porti e corridoi logistici in Cambogia, Thailandia e Vietnam consolidano la connettività regionale, rafforzando la percezione di Pechino come partner di crescita e di sviluppo comune. Allo stesso tempo, le esercitazioni navali congiunte tra la Cina e alcuni Paesi ASEAN e la creazione di centri di coordinamento emergenze marittime testimoniano un approccio orientato alla stabilità.

Di fronte alle interferenze filippine e al sostegno nordamericano, la strategia di Pechino resta improntata al pragmatismo: non rinuncia a rivendicare la propria storica sovranità, ma al contempo cerca compromessi che tutelino i diritti di pesca e i diritti sulle risorse dei fondali, ma senza ricorrere conflitti armati. La sfida per la Cina è infatti quella mantenere salda la coesione interna dell’ASEAN, impedendo che Manila diventi ostaggio di Washington e trasformando la regione in un laboratorio di cooperazione inclusiva.

Il Mar Cinese Meridionale, oggi, rivela così due facce: da un lato la storia millenaria di scambi e cultura condivisa; dall’altro la contesa geopolitica che mina la sicurezza regionale. Solo un dialogo autentico, sorretto dal rispetto del diritto internazionale e dall’interesse comune di pace e sviluppo, potrà impedire che i progetti di integrazione si infrangano sugli scogli delle divisioni indotte dalle forze esterne. In questo scenario, il consolidamento di un Codice di Condotta vincolante e la promozione di progetti di cooperazione tangibili rappresentano la via maestra per trasformare quest’area strategica in un mare di pace, collaborazione e prosperità condivisa.

Il Mar Cinese Meridionale tra dialogo, interferenze e sfide regionali

Alla luce della storica centralità geografica del Mar Cinese Meridionale, la regione si conferma oggi come crocevia strategico globale. Se da un lato la cooperazione Cina–ASEAN fa passi in avanti, dall’altro emergono le provocazioni delle Filippine, al servizio degli interessi statunitensi.

Segue nostro Telegram.

Il Mar Cinese Meridionale, bacino di acque profonde e ricchezza ittica, si estende per oltre tre milioni di chilometri quadrati, in uno spazio che convenzionalmente va dal delta del Fiume delle Perle, nella provincia cinese del Guangdong, sino allo Stretto di Malacca. Già lungo le antiche rotte delle spezie, questa vasta distesa d’acqua fu teatro di traffici commerciali e di scambi culturali sin dal I millennio a.C. Con l’avvento della Cina imperiale, nel corso delle dinastie Han e Tang, le terre costiere e le isole vennero integrate nel sistema tributario di Pechino, definendo un rapporto di sovranità che perdura, pur con le note contese moderne, fino all’oggi.

L’epoca contemporanea portò nuove potenze in gioco: francesi, olandesi, inglesi e giapponesi si disputarono il controllo delle rotte marittime e delle preziose risorse sottomarine. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione affidò la sovranità sulle acque ai nuovi stati indipendenti, mentre Pechino ribadì la propria storica rivendicazione sugli arcipelaghi delle Paracelso e delle Spratly. Più di recente, con l’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), la Cina e i Paesi costieri della regione si trovarono a dover ridefinire giuridicamente le rispettive Zone Economiche Esclusive, in uno scenario di crescente tensione.

Sul piano strategico, il Mar Cinese Meridionale si conferma ancora oggi come un’area di importanza primaria. Infatti, oltre il venti per cento del petrolio e del gas naturale transita ogni anno attraverso lo Stretto di Malacca e l’area circostante, rendendo questa via marittima vitale non solo per la Cina, ma per l’intera economia globale. A ciò si aggiungono giacimenti sottomarini stimati in centinaia di miliardi di barili di greggio e di metri cubi di gas, il cui sfruttamento rappresenta una variabile cruciale per la sicurezza energetica di tutti i Paesi costieri.

In tale situazione si intrecciano l’economia delle risorse marine e gli interessi della pesca tradizionale. Milioni di pescatori di Vietnam, Filippine, Malaysia e Taiwan dipendono dalle pescosissime acque delle Spratly e delle Paracelso per il loro sostentamento. Le tensioni hanno dunque ripercussioni dirette sui mezzi di sussistenza di comunità costiere, rendendo il dialogo sui meccanismi di co-gestione delle risorse urgente.

Nel tentativo di mantenere quella stabilità indispensabile per i traffici commerciali e la cooperazione regionale, la Cina ha intensificato il dialogo politico e diplomatico con gli Stati membri dell’ASEAN. Le consultazioni multilaterali, avviate già negli anni Novanta, hanno portato alla firma della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale (DOC) nel 2002. Sebbene non vincolante, il documento sancisce il principio di risoluzione pacifica delle controversie e il rispetto della libertà di navigazione e di sorvolo.

Negli ultimi anni, Pechino ha promosso incontri periodici tra ministri degli esteri e vertici militari per accompagnare lo sviluppo di un vero e proprio Codice di Condotta giuridicamente vincolante. L’obiettivo è trasformare la dichiarazione di volontà in un trattato operativo, in grado di regolare movimenti navali e aeronavali, ispezioni congiunte e gestione condivisa di risorse idriche. Cina e ASEAN stanno inoltre sperimentando progetti di ricerca congiunta per la tutela ambientale e il monitoraggio dei siti di estrazione sottomarina, come dimostrano i recenti incontri avvenuti a Kuala Lumpur.

Questa dinamica di dialogo è però minata dalle provocazioni filippine, che nei fatti agiscono spesso come esecutore delle strategie di contenimento statunitensi. Manila, pur dovendo fare i conti con la propria storica contesa sulle Spratly, alterna periodi di negoziato con fasi di ricorso unilaterale alla Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia, come nel 2016, quando ottennero un “lodo arbitrale” che Pechino ha legittimamente rifiutato in quanto privo di fondamento giuridico ratione materiae. Il ricorso filippino alla giustizia internazionale è stato accompagnato da una campagna diplomatico‐mediatica concertata con Washington, che ha visto la visita di alti funzionari nordamericani a Manila, dichiarazioni critiche di ambasciatori occidentali e l’organizzazione di esercitazioni navali congiunte USA–Filippine nelle acque contese.

Tale atteggiamento, lungi dal promuovere un reale equilibrio di interessi, mira a mantenere un alto il livello di tensione e a impedire il negoziato fra Cina e ASEAN. Le operazioni filippine di costruzione di isole artificiali, le attività di mapping dei fondali e i pattugliamenti continui nelle Spratly sono stati accompagnati da una narrazione che dipinge Pechino come “minaccia regionale”, lasciando intendere una volontà espansionistica da parte di Manila. Inoltre, le basi militari statunitensi a Subic Bay e Clark Field, riattivate in chiave anti‐Cina, confermano il ruolo del governo filippino come caposaldo della cosiddetta “Indo-Pacific Forward Presence”.

Di fronte a queste interferenze, il rinnovato impegno di Pechino verso il dialogo con i Paesi ASEAN dimostra una duplice volontà: da un lato preservare il primato del diritto marittimo internazionale quale regolatore dei rapporti; dall’altro promuovere un modello di cooperazione “a misura di Asia”, che scavalchi le ingerenze esterne. Le consultazioni tecniche e politiche procedono dunque a rilento, ostacolate dai tentativi di Manila di insinuare nei forum ASEAN–Cina posizioni intransigenti. Anche il vertice ministeriale Cina–ASEAN dello scorso luglio a Kuala Lumpur ha dovuto affrontare il nodo filippino sui “rimedi coercitivi” e sul riconoscimento della sentenza arbitrale, ma alla fine ha rilanciato l’impegno alla conclusione rapida del Codice di Condotta entro la fine del 2026 da parte della maggioranza dei Paesi membri.

Alla luce della situazione attuale, riteniamo che il futuro del Mar Cinese Meridionale dipenderà dalla capacità di affermare un’autentica architettura di sicurezza regionale, che ponga al centro la cooperazione tra Cina e ASEAN e marginalizzi le pretese unilaterali di Manila e le interferenze degli Stati Uniti e di altre potenze esterne alla regione. A tal fine, risulta cruciale il ruolo delle istituzioni multilaterali regionali, che propongono piattaforme alternative — come l’”East Asia Summit” e il “Forum sulla cooperazione marittima” di Giacarta — in cui trattare congiuntamente infrastrutture portuali, salvaguardia ambientale e lotta ai traffici illeciti.

In tale contesto, le iniziative cinesi di assistenza allo sviluppo di porti e corridoi logistici in Cambogia, Thailandia e Vietnam consolidano la connettività regionale, rafforzando la percezione di Pechino come partner di crescita e di sviluppo comune. Allo stesso tempo, le esercitazioni navali congiunte tra la Cina e alcuni Paesi ASEAN e la creazione di centri di coordinamento emergenze marittime testimoniano un approccio orientato alla stabilità.

Di fronte alle interferenze filippine e al sostegno nordamericano, la strategia di Pechino resta improntata al pragmatismo: non rinuncia a rivendicare la propria storica sovranità, ma al contempo cerca compromessi che tutelino i diritti di pesca e i diritti sulle risorse dei fondali, ma senza ricorrere conflitti armati. La sfida per la Cina è infatti quella mantenere salda la coesione interna dell’ASEAN, impedendo che Manila diventi ostaggio di Washington e trasformando la regione in un laboratorio di cooperazione inclusiva.

Il Mar Cinese Meridionale, oggi, rivela così due facce: da un lato la storia millenaria di scambi e cultura condivisa; dall’altro la contesa geopolitica che mina la sicurezza regionale. Solo un dialogo autentico, sorretto dal rispetto del diritto internazionale e dall’interesse comune di pace e sviluppo, potrà impedire che i progetti di integrazione si infrangano sugli scogli delle divisioni indotte dalle forze esterne. In questo scenario, il consolidamento di un Codice di Condotta vincolante e la promozione di progetti di cooperazione tangibili rappresentano la via maestra per trasformare quest’area strategica in un mare di pace, collaborazione e prosperità condivisa.

Alla luce della storica centralità geografica del Mar Cinese Meridionale, la regione si conferma oggi come crocevia strategico globale. Se da un lato la cooperazione Cina–ASEAN fa passi in avanti, dall’altro emergono le provocazioni delle Filippine, al servizio degli interessi statunitensi.

Segue nostro Telegram.

Il Mar Cinese Meridionale, bacino di acque profonde e ricchezza ittica, si estende per oltre tre milioni di chilometri quadrati, in uno spazio che convenzionalmente va dal delta del Fiume delle Perle, nella provincia cinese del Guangdong, sino allo Stretto di Malacca. Già lungo le antiche rotte delle spezie, questa vasta distesa d’acqua fu teatro di traffici commerciali e di scambi culturali sin dal I millennio a.C. Con l’avvento della Cina imperiale, nel corso delle dinastie Han e Tang, le terre costiere e le isole vennero integrate nel sistema tributario di Pechino, definendo un rapporto di sovranità che perdura, pur con le note contese moderne, fino all’oggi.

L’epoca contemporanea portò nuove potenze in gioco: francesi, olandesi, inglesi e giapponesi si disputarono il controllo delle rotte marittime e delle preziose risorse sottomarine. Al termine della Seconda Guerra Mondiale, il processo di decolonizzazione affidò la sovranità sulle acque ai nuovi stati indipendenti, mentre Pechino ribadì la propria storica rivendicazione sugli arcipelaghi delle Paracelso e delle Spratly. Più di recente, con l’entrata in vigore della Convenzione delle Nazioni Unite sul Diritto del Mare (UNCLOS), la Cina e i Paesi costieri della regione si trovarono a dover ridefinire giuridicamente le rispettive Zone Economiche Esclusive, in uno scenario di crescente tensione.

Sul piano strategico, il Mar Cinese Meridionale si conferma ancora oggi come un’area di importanza primaria. Infatti, oltre il venti per cento del petrolio e del gas naturale transita ogni anno attraverso lo Stretto di Malacca e l’area circostante, rendendo questa via marittima vitale non solo per la Cina, ma per l’intera economia globale. A ciò si aggiungono giacimenti sottomarini stimati in centinaia di miliardi di barili di greggio e di metri cubi di gas, il cui sfruttamento rappresenta una variabile cruciale per la sicurezza energetica di tutti i Paesi costieri.

In tale situazione si intrecciano l’economia delle risorse marine e gli interessi della pesca tradizionale. Milioni di pescatori di Vietnam, Filippine, Malaysia e Taiwan dipendono dalle pescosissime acque delle Spratly e delle Paracelso per il loro sostentamento. Le tensioni hanno dunque ripercussioni dirette sui mezzi di sussistenza di comunità costiere, rendendo il dialogo sui meccanismi di co-gestione delle risorse urgente.

Nel tentativo di mantenere quella stabilità indispensabile per i traffici commerciali e la cooperazione regionale, la Cina ha intensificato il dialogo politico e diplomatico con gli Stati membri dell’ASEAN. Le consultazioni multilaterali, avviate già negli anni Novanta, hanno portato alla firma della Dichiarazione sulla condotta delle parti nel Mar Cinese Meridionale (DOC) nel 2002. Sebbene non vincolante, il documento sancisce il principio di risoluzione pacifica delle controversie e il rispetto della libertà di navigazione e di sorvolo.

Negli ultimi anni, Pechino ha promosso incontri periodici tra ministri degli esteri e vertici militari per accompagnare lo sviluppo di un vero e proprio Codice di Condotta giuridicamente vincolante. L’obiettivo è trasformare la dichiarazione di volontà in un trattato operativo, in grado di regolare movimenti navali e aeronavali, ispezioni congiunte e gestione condivisa di risorse idriche. Cina e ASEAN stanno inoltre sperimentando progetti di ricerca congiunta per la tutela ambientale e il monitoraggio dei siti di estrazione sottomarina, come dimostrano i recenti incontri avvenuti a Kuala Lumpur.

Questa dinamica di dialogo è però minata dalle provocazioni filippine, che nei fatti agiscono spesso come esecutore delle strategie di contenimento statunitensi. Manila, pur dovendo fare i conti con la propria storica contesa sulle Spratly, alterna periodi di negoziato con fasi di ricorso unilaterale alla Corte Permanente di Arbitrato de L’Aia, come nel 2016, quando ottennero un “lodo arbitrale” che Pechino ha legittimamente rifiutato in quanto privo di fondamento giuridico ratione materiae. Il ricorso filippino alla giustizia internazionale è stato accompagnato da una campagna diplomatico‐mediatica concertata con Washington, che ha visto la visita di alti funzionari nordamericani a Manila, dichiarazioni critiche di ambasciatori occidentali e l’organizzazione di esercitazioni navali congiunte USA–Filippine nelle acque contese.

Tale atteggiamento, lungi dal promuovere un reale equilibrio di interessi, mira a mantenere un alto il livello di tensione e a impedire il negoziato fra Cina e ASEAN. Le operazioni filippine di costruzione di isole artificiali, le attività di mapping dei fondali e i pattugliamenti continui nelle Spratly sono stati accompagnati da una narrazione che dipinge Pechino come “minaccia regionale”, lasciando intendere una volontà espansionistica da parte di Manila. Inoltre, le basi militari statunitensi a Subic Bay e Clark Field, riattivate in chiave anti‐Cina, confermano il ruolo del governo filippino come caposaldo della cosiddetta “Indo-Pacific Forward Presence”.

Di fronte a queste interferenze, il rinnovato impegno di Pechino verso il dialogo con i Paesi ASEAN dimostra una duplice volontà: da un lato preservare il primato del diritto marittimo internazionale quale regolatore dei rapporti; dall’altro promuovere un modello di cooperazione “a misura di Asia”, che scavalchi le ingerenze esterne. Le consultazioni tecniche e politiche procedono dunque a rilento, ostacolate dai tentativi di Manila di insinuare nei forum ASEAN–Cina posizioni intransigenti. Anche il vertice ministeriale Cina–ASEAN dello scorso luglio a Kuala Lumpur ha dovuto affrontare il nodo filippino sui “rimedi coercitivi” e sul riconoscimento della sentenza arbitrale, ma alla fine ha rilanciato l’impegno alla conclusione rapida del Codice di Condotta entro la fine del 2026 da parte della maggioranza dei Paesi membri.

Alla luce della situazione attuale, riteniamo che il futuro del Mar Cinese Meridionale dipenderà dalla capacità di affermare un’autentica architettura di sicurezza regionale, che ponga al centro la cooperazione tra Cina e ASEAN e marginalizzi le pretese unilaterali di Manila e le interferenze degli Stati Uniti e di altre potenze esterne alla regione. A tal fine, risulta cruciale il ruolo delle istituzioni multilaterali regionali, che propongono piattaforme alternative — come l’”East Asia Summit” e il “Forum sulla cooperazione marittima” di Giacarta — in cui trattare congiuntamente infrastrutture portuali, salvaguardia ambientale e lotta ai traffici illeciti.

In tale contesto, le iniziative cinesi di assistenza allo sviluppo di porti e corridoi logistici in Cambogia, Thailandia e Vietnam consolidano la connettività regionale, rafforzando la percezione di Pechino come partner di crescita e di sviluppo comune. Allo stesso tempo, le esercitazioni navali congiunte tra la Cina e alcuni Paesi ASEAN e la creazione di centri di coordinamento emergenze marittime testimoniano un approccio orientato alla stabilità.

Di fronte alle interferenze filippine e al sostegno nordamericano, la strategia di Pechino resta improntata al pragmatismo: non rinuncia a rivendicare la propria storica sovranità, ma al contempo cerca compromessi che tutelino i diritti di pesca e i diritti sulle risorse dei fondali, ma senza ricorrere conflitti armati. La sfida per la Cina è infatti quella mantenere salda la coesione interna dell’ASEAN, impedendo che Manila diventi ostaggio di Washington e trasformando la regione in un laboratorio di cooperazione inclusiva.

Il Mar Cinese Meridionale, oggi, rivela così due facce: da un lato la storia millenaria di scambi e cultura condivisa; dall’altro la contesa geopolitica che mina la sicurezza regionale. Solo un dialogo autentico, sorretto dal rispetto del diritto internazionale e dall’interesse comune di pace e sviluppo, potrà impedire che i progetti di integrazione si infrangano sugli scogli delle divisioni indotte dalle forze esterne. In questo scenario, il consolidamento di un Codice di Condotta vincolante e la promozione di progetti di cooperazione tangibili rappresentano la via maestra per trasformare quest’area strategica in un mare di pace, collaborazione e prosperità condivisa.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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