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Lorenzo Maria Pacini
July 10, 2025
© Photo: Public domain

Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore

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La cittadinanza per nascita come principio costituzionale

Nelle recenti analisi del Council on Foreign Relations – il think tank firmato Rockfeller che ci aiuta a capire quali sono gli argomenti di interesse per le attività politiche americane – è tornato di moda un problema caro agli americani e legato alle politiche migratorie: la cittadinanza per nascita.

Gli Stati Uniti sono tra i pochi paesi nel mondo che conferiscono automaticamente la cittadinanza a chi nasce entro i propri confini, una disposizione attiva sin dal 1868, anno in cui fu approvato il XIV Emendamento. Tuttavia, negli anni sono cresciuti gli sforzi per mettere fine a questa norma, ritenuta da alcuni responsabile dell’incremento dell’immigrazione irregolare.

Nel primo giorno del suo mandato, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo volto a modificare l’interpretazione della clausola costituzionale relativa alla cittadinanza, una iniziativa che ha dato luogo a numerosi ricorsi giudiziari e a ingiunzioni estese a livello federale. Il governo ha quindi presentato appello e, il 27 giugno, la Corte Suprema ha stabilito che i giudici federali non possono più emettere ingiunzioni valide su scala nazionale contro le politiche del governo centrale. La pronuncia, tuttavia, non ha chiarito quale sarà il destino della cittadinanza per nascita.

La Sezione 1 del citato Emendamento stabilisce che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione» sono cittadini americani. Le eccezioni sono poche: tra queste vi sono i figli dei diplomatici stranieri e quelli nati nelle Samoa Americane, i quali sono considerati nazionali ma non cittadini a pieno titolo, quindi privi di diritti come il voto o l’accesso alle cariche pubbliche.

Il concetto si fonda sul principio inglese dello jus soli (“diritto del suolo”, un principio che risale all’epoca dell’Impero Romano), secondo cui chi nasce in un certo territorio ottiene automaticamente la cittadinanza, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Gli Stati Uniti riconoscono anche il principio dello jus sanguinis (“diritto di sangue”, anch’esso di origine romana), che attribuisce la cittadinanza ai figli di cittadini americani nati all’estero.

La norma fu introdotta per annullare la controversa sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857, che negava la cittadinanza agli afroamericani. Nel 1898, il caso U.S. v. Wong Kim Ark confermò che anche i figli di non cittadini, nati negli USA o nei suoi territori, devono essere riconosciuti cittadini americani; si è aggiunto poi l’Indian Citizenship Act del 1924 che ha garantito la cittadinanza anche ai nativi americani nati nel paese.

Va distinto il concetto di cittadinanza per nascita da quello di naturalizzazione, che è il processo attraverso il quale uno straniero può ottenere la cittadinanza dopo aver soddisfatto criteri precisi.

Soltanto 38 stati, perlopiù nelle Americhe (come Brasile, Canada e Messico), garantiscono esplicitamente la cittadinanza a chi nasce nel loro territorio. Al contrario, la maggioranza dei paesi in Europa, Asia e Africa adotta il principio dello jus sanguinis, anche se con modalità e criteri differenti.

Il dibattito e l’uso politico

È chiaro che la questione sia tornata al centro con la questione migratoria e le politiche di Trump. Il dibattito politico non che poteva che infiammarsi di nuovo.

I critici sostengono che la Sezione 1 sia stata interpretata in modo errato per anni, sostenendo che la frase “soggetti alla giurisdizione” non dovrebbe comprendere i figli di persone che si trovano negli Stati Uniti solo temporaneamente o senza status legale. A ciò si riferisce il problema denunciato come “turismo di nascita”, che consiste nelle trasferte che alcune donne straniere in gravidanza fanno proprio per far nascere il figlio negli Stati Uniti, fatto per il quale il Dep aveva modificato i visti di accesso.

È però vero che l’Emendamento è giuridicamente chiaro, piaccia o no, ed è altrettanto vero che gli USA sono un Paese etnicamente vario e con un grande storico flusso migratorio, tanto che si può dire, antropologia ed etnologia alla mano, che non esiste una “etnia americana”, laddove non è più nemmeno confermato il dato che i discendenti dei gruppi bianchi europei sono la maggioranza della popolazione regolarmente registrata con la cittadinanza.

La domanda allora è squisitamente politica, come è politico l’interesse rivolto dal CFR: che uso fare di questo problema?

Perché appare chiaro che si tratti di un punto di forte tensione e di facile attacco verso Trump e il suo Governo.

L’applicazione di questo softpower interno potrà muovere verso un inasprimento della crisi interna (leggasi guerra civile) che prosegue inesorabilmente negli USA, soprattutto nei Paesi del Sud. Il Presidente americano non può cambiare la regole da solo, avrebbe bisogno di una modifica costituzionale che prevederebbe una super-maggioranza (due terzi del Congresso e la ratifica di almeno 38 Stati). Quindi?

Quindi la frangia Dem continua a muovere gruppi organizzati, associazioni e ONG verso contestazioni ripetute nei confronti delle politiche migratorie ristringenti volute da Trump. In questo modo, viene alimentata l’instabilità interna e confusa l’opinione pubblica a riguardo.

La discrasia cognitiva che viene sostenuta è quella che vorrebbe mantenere assieme due linee contrastanti: il rafforzamento interno della gestione politica e della sicurezza nazionale, assieme ad una liberalizzazione delle migrazioni in nome dei diritti civili.

Si tenga presente, per dovere di onestà intellettuale e storica, che tutti i Paesi vivono periodi storici di maggiore restrizioni e altri di maggiore morbidezza nei confronti dei flussi migratori. Non c’ niente di strano. La politica è anche trasformazione. L’uso consapevole e mirato ad azioni di sovversione dell’ordine politico è uno strumento frequente.

Ciò però non cambia né il problema sul piano giuridico, che vede un oggettivo impedimento secondo l’Ordinamento americano, né quello della instabilità migratoria. Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore: forzare la Costituzione per cambiare le regole, oppure agire contro la Costituzione. Tutto questo rischia di essere una trappola politica con un doppio boomerang. E il guaio rischia di non essere facilmente risolvibile.

Ecco una delle ulteriori evidenti contraddizioni del sistema americano, la cui soluzione, probabilmente, non si trova nell’attuale sistema, ma richiederà una rivoluzione interna che continua a rappresentare per gli americani la via d’uscita al crollo del proprio mondo.

Il diritto alla cittadinanza come arma di softpower politico negli Stati Uniti

Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore

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La cittadinanza per nascita come principio costituzionale

Nelle recenti analisi del Council on Foreign Relations – il think tank firmato Rockfeller che ci aiuta a capire quali sono gli argomenti di interesse per le attività politiche americane – è tornato di moda un problema caro agli americani e legato alle politiche migratorie: la cittadinanza per nascita.

Gli Stati Uniti sono tra i pochi paesi nel mondo che conferiscono automaticamente la cittadinanza a chi nasce entro i propri confini, una disposizione attiva sin dal 1868, anno in cui fu approvato il XIV Emendamento. Tuttavia, negli anni sono cresciuti gli sforzi per mettere fine a questa norma, ritenuta da alcuni responsabile dell’incremento dell’immigrazione irregolare.

Nel primo giorno del suo mandato, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo volto a modificare l’interpretazione della clausola costituzionale relativa alla cittadinanza, una iniziativa che ha dato luogo a numerosi ricorsi giudiziari e a ingiunzioni estese a livello federale. Il governo ha quindi presentato appello e, il 27 giugno, la Corte Suprema ha stabilito che i giudici federali non possono più emettere ingiunzioni valide su scala nazionale contro le politiche del governo centrale. La pronuncia, tuttavia, non ha chiarito quale sarà il destino della cittadinanza per nascita.

La Sezione 1 del citato Emendamento stabilisce che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione» sono cittadini americani. Le eccezioni sono poche: tra queste vi sono i figli dei diplomatici stranieri e quelli nati nelle Samoa Americane, i quali sono considerati nazionali ma non cittadini a pieno titolo, quindi privi di diritti come il voto o l’accesso alle cariche pubbliche.

Il concetto si fonda sul principio inglese dello jus soli (“diritto del suolo”, un principio che risale all’epoca dell’Impero Romano), secondo cui chi nasce in un certo territorio ottiene automaticamente la cittadinanza, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Gli Stati Uniti riconoscono anche il principio dello jus sanguinis (“diritto di sangue”, anch’esso di origine romana), che attribuisce la cittadinanza ai figli di cittadini americani nati all’estero.

La norma fu introdotta per annullare la controversa sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857, che negava la cittadinanza agli afroamericani. Nel 1898, il caso U.S. v. Wong Kim Ark confermò che anche i figli di non cittadini, nati negli USA o nei suoi territori, devono essere riconosciuti cittadini americani; si è aggiunto poi l’Indian Citizenship Act del 1924 che ha garantito la cittadinanza anche ai nativi americani nati nel paese.

Va distinto il concetto di cittadinanza per nascita da quello di naturalizzazione, che è il processo attraverso il quale uno straniero può ottenere la cittadinanza dopo aver soddisfatto criteri precisi.

Soltanto 38 stati, perlopiù nelle Americhe (come Brasile, Canada e Messico), garantiscono esplicitamente la cittadinanza a chi nasce nel loro territorio. Al contrario, la maggioranza dei paesi in Europa, Asia e Africa adotta il principio dello jus sanguinis, anche se con modalità e criteri differenti.

Il dibattito e l’uso politico

È chiaro che la questione sia tornata al centro con la questione migratoria e le politiche di Trump. Il dibattito politico non che poteva che infiammarsi di nuovo.

I critici sostengono che la Sezione 1 sia stata interpretata in modo errato per anni, sostenendo che la frase “soggetti alla giurisdizione” non dovrebbe comprendere i figli di persone che si trovano negli Stati Uniti solo temporaneamente o senza status legale. A ciò si riferisce il problema denunciato come “turismo di nascita”, che consiste nelle trasferte che alcune donne straniere in gravidanza fanno proprio per far nascere il figlio negli Stati Uniti, fatto per il quale il Dep aveva modificato i visti di accesso.

È però vero che l’Emendamento è giuridicamente chiaro, piaccia o no, ed è altrettanto vero che gli USA sono un Paese etnicamente vario e con un grande storico flusso migratorio, tanto che si può dire, antropologia ed etnologia alla mano, che non esiste una “etnia americana”, laddove non è più nemmeno confermato il dato che i discendenti dei gruppi bianchi europei sono la maggioranza della popolazione regolarmente registrata con la cittadinanza.

La domanda allora è squisitamente politica, come è politico l’interesse rivolto dal CFR: che uso fare di questo problema?

Perché appare chiaro che si tratti di un punto di forte tensione e di facile attacco verso Trump e il suo Governo.

L’applicazione di questo softpower interno potrà muovere verso un inasprimento della crisi interna (leggasi guerra civile) che prosegue inesorabilmente negli USA, soprattutto nei Paesi del Sud. Il Presidente americano non può cambiare la regole da solo, avrebbe bisogno di una modifica costituzionale che prevederebbe una super-maggioranza (due terzi del Congresso e la ratifica di almeno 38 Stati). Quindi?

Quindi la frangia Dem continua a muovere gruppi organizzati, associazioni e ONG verso contestazioni ripetute nei confronti delle politiche migratorie ristringenti volute da Trump. In questo modo, viene alimentata l’instabilità interna e confusa l’opinione pubblica a riguardo.

La discrasia cognitiva che viene sostenuta è quella che vorrebbe mantenere assieme due linee contrastanti: il rafforzamento interno della gestione politica e della sicurezza nazionale, assieme ad una liberalizzazione delle migrazioni in nome dei diritti civili.

Si tenga presente, per dovere di onestà intellettuale e storica, che tutti i Paesi vivono periodi storici di maggiore restrizioni e altri di maggiore morbidezza nei confronti dei flussi migratori. Non c’ niente di strano. La politica è anche trasformazione. L’uso consapevole e mirato ad azioni di sovversione dell’ordine politico è uno strumento frequente.

Ciò però non cambia né il problema sul piano giuridico, che vede un oggettivo impedimento secondo l’Ordinamento americano, né quello della instabilità migratoria. Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore: forzare la Costituzione per cambiare le regole, oppure agire contro la Costituzione. Tutto questo rischia di essere una trappola politica con un doppio boomerang. E il guaio rischia di non essere facilmente risolvibile.

Ecco una delle ulteriori evidenti contraddizioni del sistema americano, la cui soluzione, probabilmente, non si trova nell’attuale sistema, ma richiederà una rivoluzione interna che continua a rappresentare per gli americani la via d’uscita al crollo del proprio mondo.

Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore

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La cittadinanza per nascita come principio costituzionale

Nelle recenti analisi del Council on Foreign Relations – il think tank firmato Rockfeller che ci aiuta a capire quali sono gli argomenti di interesse per le attività politiche americane – è tornato di moda un problema caro agli americani e legato alle politiche migratorie: la cittadinanza per nascita.

Gli Stati Uniti sono tra i pochi paesi nel mondo che conferiscono automaticamente la cittadinanza a chi nasce entro i propri confini, una disposizione attiva sin dal 1868, anno in cui fu approvato il XIV Emendamento. Tuttavia, negli anni sono cresciuti gli sforzi per mettere fine a questa norma, ritenuta da alcuni responsabile dell’incremento dell’immigrazione irregolare.

Nel primo giorno del suo mandato, il presidente Donald Trump ha firmato un ordine esecutivo volto a modificare l’interpretazione della clausola costituzionale relativa alla cittadinanza, una iniziativa che ha dato luogo a numerosi ricorsi giudiziari e a ingiunzioni estese a livello federale. Il governo ha quindi presentato appello e, il 27 giugno, la Corte Suprema ha stabilito che i giudici federali non possono più emettere ingiunzioni valide su scala nazionale contro le politiche del governo centrale. La pronuncia, tuttavia, non ha chiarito quale sarà il destino della cittadinanza per nascita.

La Sezione 1 del citato Emendamento stabilisce che «tutte le persone nate o naturalizzate negli Stati Uniti e soggette alla loro giurisdizione» sono cittadini americani. Le eccezioni sono poche: tra queste vi sono i figli dei diplomatici stranieri e quelli nati nelle Samoa Americane, i quali sono considerati nazionali ma non cittadini a pieno titolo, quindi privi di diritti come il voto o l’accesso alle cariche pubbliche.

Il concetto si fonda sul principio inglese dello jus soli (“diritto del suolo”, un principio che risale all’epoca dell’Impero Romano), secondo cui chi nasce in un certo territorio ottiene automaticamente la cittadinanza, a prescindere dalla nazionalità dei genitori. Gli Stati Uniti riconoscono anche il principio dello jus sanguinis (“diritto di sangue”, anch’esso di origine romana), che attribuisce la cittadinanza ai figli di cittadini americani nati all’estero.

La norma fu introdotta per annullare la controversa sentenza Dred Scott v. Sandford del 1857, che negava la cittadinanza agli afroamericani. Nel 1898, il caso U.S. v. Wong Kim Ark confermò che anche i figli di non cittadini, nati negli USA o nei suoi territori, devono essere riconosciuti cittadini americani; si è aggiunto poi l’Indian Citizenship Act del 1924 che ha garantito la cittadinanza anche ai nativi americani nati nel paese.

Va distinto il concetto di cittadinanza per nascita da quello di naturalizzazione, che è il processo attraverso il quale uno straniero può ottenere la cittadinanza dopo aver soddisfatto criteri precisi.

Soltanto 38 stati, perlopiù nelle Americhe (come Brasile, Canada e Messico), garantiscono esplicitamente la cittadinanza a chi nasce nel loro territorio. Al contrario, la maggioranza dei paesi in Europa, Asia e Africa adotta il principio dello jus sanguinis, anche se con modalità e criteri differenti.

Il dibattito e l’uso politico

È chiaro che la questione sia tornata al centro con la questione migratoria e le politiche di Trump. Il dibattito politico non che poteva che infiammarsi di nuovo.

I critici sostengono che la Sezione 1 sia stata interpretata in modo errato per anni, sostenendo che la frase “soggetti alla giurisdizione” non dovrebbe comprendere i figli di persone che si trovano negli Stati Uniti solo temporaneamente o senza status legale. A ciò si riferisce il problema denunciato come “turismo di nascita”, che consiste nelle trasferte che alcune donne straniere in gravidanza fanno proprio per far nascere il figlio negli Stati Uniti, fatto per il quale il Dep aveva modificato i visti di accesso.

È però vero che l’Emendamento è giuridicamente chiaro, piaccia o no, ed è altrettanto vero che gli USA sono un Paese etnicamente vario e con un grande storico flusso migratorio, tanto che si può dire, antropologia ed etnologia alla mano, che non esiste una “etnia americana”, laddove non è più nemmeno confermato il dato che i discendenti dei gruppi bianchi europei sono la maggioranza della popolazione regolarmente registrata con la cittadinanza.

La domanda allora è squisitamente politica, come è politico l’interesse rivolto dal CFR: che uso fare di questo problema?

Perché appare chiaro che si tratti di un punto di forte tensione e di facile attacco verso Trump e il suo Governo.

L’applicazione di questo softpower interno potrà muovere verso un inasprimento della crisi interna (leggasi guerra civile) che prosegue inesorabilmente negli USA, soprattutto nei Paesi del Sud. Il Presidente americano non può cambiare la regole da solo, avrebbe bisogno di una modifica costituzionale che prevederebbe una super-maggioranza (due terzi del Congresso e la ratifica di almeno 38 Stati). Quindi?

Quindi la frangia Dem continua a muovere gruppi organizzati, associazioni e ONG verso contestazioni ripetute nei confronti delle politiche migratorie ristringenti volute da Trump. In questo modo, viene alimentata l’instabilità interna e confusa l’opinione pubblica a riguardo.

La discrasia cognitiva che viene sostenuta è quella che vorrebbe mantenere assieme due linee contrastanti: il rafforzamento interno della gestione politica e della sicurezza nazionale, assieme ad una liberalizzazione delle migrazioni in nome dei diritti civili.

Si tenga presente, per dovere di onestà intellettuale e storica, che tutti i Paesi vivono periodi storici di maggiore restrizioni e altri di maggiore morbidezza nei confronti dei flussi migratori. Non c’ niente di strano. La politica è anche trasformazione. L’uso consapevole e mirato ad azioni di sovversione dell’ordine politico è uno strumento frequente.

Ciò però non cambia né il problema sul piano giuridico, che vede un oggettivo impedimento secondo l’Ordinamento americano, né quello della instabilità migratoria. Il Governo Trump rischia di trovarsi davanti ad un bivio che per il diritto internazionale potrebbe rappresentare un problema ulteriore: forzare la Costituzione per cambiare le regole, oppure agire contro la Costituzione. Tutto questo rischia di essere una trappola politica con un doppio boomerang. E il guaio rischia di non essere facilmente risolvibile.

Ecco una delle ulteriori evidenti contraddizioni del sistema americano, la cui soluzione, probabilmente, non si trova nell’attuale sistema, ma richiederà una rivoluzione interna che continua a rappresentare per gli americani la via d’uscita al crollo del proprio mondo.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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