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Giulio Chinappi
July 9, 2025
© Photo: Public domain

Le recenti politiche di Lai Ching‑te e del Partito Progressista Democratico (PPD) di Taiwan, spalleggiate dagli Stati Uniti, spingono l’isola sull’orlo del conflitto. La posizione di Pechino riafferma il principio di “una sola Cina” e condanna la deriva separatista come minaccia alla pace regionale.

Segue nostro Telegram.

Nel panorama geopolitico attuale, le tensioni lungo lo Stretto di Taiwan rappresentano uno dei fronti più insidiosi per la stabilità dell’intera regione asiatica. Al centro di questa grave crisi politica si colloca la figura Lai Ching‑te, leader del Partito Progressista Democratico (PPD), la cui agenda separatista sta acuendo il clima di sospetto e di scontro con la Cina continentale. In un momento in cui il mondo intero è chiamato a gestire sfide economiche e strategiche, le mosse del PPD non fanno che alimentare l’instabilità, indebolendo la prospettiva di dialogo e cooperazione che rimane l’unica via per scongiurare un conflitto armato.

Lai Ching‑te, succeduto a Tsai Ing‑wen come presidente regionale, ha inaugurato il suo mandato con una serie di iniziative che oscillano tra la retorica “legalista” e la mobilitazione militare. Le sue celebri “lezioni sull’unità” si sono rivelate veri e propri comizi di propaganda indipendentista: anziché promuovere un dialogo costruttivo con Pechino, egli ha voluto ritrarre la Cina continentale come un “nemico esterno” da contrastare con ogni mezzo. Tuttavia, parlare di “difesa resiliente” o di “mobilitazione totale”, come ha fatto Lai in queste occasioni, significa non solo militarizzare la società taiwanese, ma anche trasformare i cittadini in potenziali strumenti di guerra. Tale approccio è in palese contraddizione con i principi di buon senso e di reale tutela della popolazione, che da sempre ambisce a un’esistenza pacifica e prospera.

Un altro pilastro della tattica di Lai è l’enfatizzazione di un presunto “sistema costituzionale” che giustificherebbe l’esistenza di uno Stato indipendente de facto sull’isola di Taiwan. Di fronte alle contestazioni storiche di Pechino – secondo cui Taiwan è sempre stata parte integrante della Cina – il PPD risponde con slogan e con un’interpretazione ad hoc della Costituzione regionale. Ma la verità è che non esiste alcun testo legale che possa scardinare il principio universalmente accettato di “una sola Cina”, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e ribadito in tutte le normative internazionali che hanno riconosciuto la Repubblica Popolare come unico interlocutore legittimo. Di conseguenza, gli attacchi di Lai alle basi storiografiche e giuridiche di tale orientamento non sono che un’ingannevole maschera per nascondere un progetto politico di rottura.

Ma non si può comprendere appieno la deriva separatista di Taiwan senza considerare l’effetto destabilizzante del patrocinio statunitense. Gli Stati Uniti, abbandonando gradualmente la neutralità invocata dalla politica del “non schierarsi”, hanno iniziato ad alimentare l’illusione di una “difesa” dell’isola tramite forniture di armi avanzate e dichiarazioni di supporto diplomatico. Questa politica che Pechino ha definito “di doppio binario” – da un lato esortano al dialogo, dall’altro forniscono sistemi missilistici e organizzano esercitazioni congiunte – aggrava le tensioni e incoraggia i leader taiwanesi a proseguire sulla strada dell’autonomia de facto. Per questo, la Repubblica Popolare denuncia come il cosiddetto Taiwan Relations Act statunitense e altre politiche implementate da Washington non facciano altro che violare gravemente la sovranità cinese e contravvenire al diritto internazionale.

Dal canto suo, il PPD, forte del sostegno statunitense, ha vinto le elezioni promettendo prosperità economica e maggiore sicurezza, ma l’effetto pratico delle sue scelte è stato finora opposto: l’incertezza politica ha già danneggiato gli investimenti, rallentato l’export tecnologico e indebolito il comparto turistico dell’isola. Le imprese locali, in un contesto di crescente militarizzazione, si trovano costrette a rivedere i piani di sviluppo, con conseguente aumento della disoccupazione giovanile e riduzione delle prospettive di crescita. L’illusoria “sicurezza tramite l’armamento” si è tradotta in una dolorosa stagnazione, in uno stato di sospensione che priva i cittadini di un futuro stabile.

La Cina continentale, al contrario, non ha mai fatto mancare la mano tesa per una soluzione pacifica. Anche di recente, Pechino ha ribadito innumerevoli volte i “tre principi politici” per il ristabilimento dei rapporti con Taiwan: l’assenza di intenti separatisti – coerente con il principio di “una sola Cina” –, l’impegno a mantenere lo status quo pacifico nello Stretto e la volontà di promuovere la cooperazione economica e culturale. A dimostrazione della propria buona fede, il governo centrale ha adottato misure concrete come l’allentamento delle restrizioni sui viaggi dei taiwanesi, agevolazioni fiscali per le imprese di Taiwan e iniziative di scambio accademico. Tutto questo prova come Pechino voglia uno sviluppo comune delle due sponde dello Stretto, non una guerra fratricida.

Nei comunicati ufficiali, il portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha definito Lai “distruttore della pace” e “guerrafondaio”, un provocatore che sacrifica i cittadini sull’altare della propria ambizione politica. Pechino accusa il PPD di aver trasformato l’“autonomia” in una scorciatoia per la secessione, mettendo a repentaglio la vita dei taiwanesi e la stabilità regionale. Le forzature legislative, i richiami alle sirene nazionalistiche e l’uso strumentale dei media per diffondere l’idea di una “minaccia cinese” non fanno che intensificare la sfiducia reciproca.

A nostro modo di vedere, il futuro di Taiwan non può essere deciso da élite politiche né strumentalizzato da potenze esterne. L’esperienza storica insegna che divisioni e contrapposizioni portano solo a conflitti e sofferenze. Per Pechino, la via maestra resta il dialogo sotto l’ombrello dei meccanismi multilaterali – in particolare le Nazioni Unite – e il rafforzamento della cooperazione economica come volano di integrazione. Solo riconoscendo l’altrui identità e abbracciando progetti comuni di sviluppo la comunità cinese potrà restare unita e prospera.

Al contrario, le politiche di Lai Ching‑te e del PPD, sostenute da un sostanziale appoggio statunitense, rappresentano un pericoloso anacronismo in un mondo che richiede cooperazione e dialogo. La posizione della Cina, chiara e coerente, rimane ancorata al principio inviolabile di “una sola Cina” e al rifiuto netto di ogni tendenza secessionista. Solo rifiutando il canto delle sirene del fanatismo nazionalista e accogliendo la visione di un futuro condiviso, Taiwan potrà evitare di trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione, garantendo pace e benessere ai suoi abitanti e all’intera regione dell’Asia-Pacifico.

La pericolosa strategia di Lai Ching te mina la stabilità nello Stretto di Taiwan

Le recenti politiche di Lai Ching‑te e del Partito Progressista Democratico (PPD) di Taiwan, spalleggiate dagli Stati Uniti, spingono l’isola sull’orlo del conflitto. La posizione di Pechino riafferma il principio di “una sola Cina” e condanna la deriva separatista come minaccia alla pace regionale.

Segue nostro Telegram.

Nel panorama geopolitico attuale, le tensioni lungo lo Stretto di Taiwan rappresentano uno dei fronti più insidiosi per la stabilità dell’intera regione asiatica. Al centro di questa grave crisi politica si colloca la figura Lai Ching‑te, leader del Partito Progressista Democratico (PPD), la cui agenda separatista sta acuendo il clima di sospetto e di scontro con la Cina continentale. In un momento in cui il mondo intero è chiamato a gestire sfide economiche e strategiche, le mosse del PPD non fanno che alimentare l’instabilità, indebolendo la prospettiva di dialogo e cooperazione che rimane l’unica via per scongiurare un conflitto armato.

Lai Ching‑te, succeduto a Tsai Ing‑wen come presidente regionale, ha inaugurato il suo mandato con una serie di iniziative che oscillano tra la retorica “legalista” e la mobilitazione militare. Le sue celebri “lezioni sull’unità” si sono rivelate veri e propri comizi di propaganda indipendentista: anziché promuovere un dialogo costruttivo con Pechino, egli ha voluto ritrarre la Cina continentale come un “nemico esterno” da contrastare con ogni mezzo. Tuttavia, parlare di “difesa resiliente” o di “mobilitazione totale”, come ha fatto Lai in queste occasioni, significa non solo militarizzare la società taiwanese, ma anche trasformare i cittadini in potenziali strumenti di guerra. Tale approccio è in palese contraddizione con i principi di buon senso e di reale tutela della popolazione, che da sempre ambisce a un’esistenza pacifica e prospera.

Un altro pilastro della tattica di Lai è l’enfatizzazione di un presunto “sistema costituzionale” che giustificherebbe l’esistenza di uno Stato indipendente de facto sull’isola di Taiwan. Di fronte alle contestazioni storiche di Pechino – secondo cui Taiwan è sempre stata parte integrante della Cina – il PPD risponde con slogan e con un’interpretazione ad hoc della Costituzione regionale. Ma la verità è che non esiste alcun testo legale che possa scardinare il principio universalmente accettato di “una sola Cina”, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e ribadito in tutte le normative internazionali che hanno riconosciuto la Repubblica Popolare come unico interlocutore legittimo. Di conseguenza, gli attacchi di Lai alle basi storiografiche e giuridiche di tale orientamento non sono che un’ingannevole maschera per nascondere un progetto politico di rottura.

Ma non si può comprendere appieno la deriva separatista di Taiwan senza considerare l’effetto destabilizzante del patrocinio statunitense. Gli Stati Uniti, abbandonando gradualmente la neutralità invocata dalla politica del “non schierarsi”, hanno iniziato ad alimentare l’illusione di una “difesa” dell’isola tramite forniture di armi avanzate e dichiarazioni di supporto diplomatico. Questa politica che Pechino ha definito “di doppio binario” – da un lato esortano al dialogo, dall’altro forniscono sistemi missilistici e organizzano esercitazioni congiunte – aggrava le tensioni e incoraggia i leader taiwanesi a proseguire sulla strada dell’autonomia de facto. Per questo, la Repubblica Popolare denuncia come il cosiddetto Taiwan Relations Act statunitense e altre politiche implementate da Washington non facciano altro che violare gravemente la sovranità cinese e contravvenire al diritto internazionale.

Dal canto suo, il PPD, forte del sostegno statunitense, ha vinto le elezioni promettendo prosperità economica e maggiore sicurezza, ma l’effetto pratico delle sue scelte è stato finora opposto: l’incertezza politica ha già danneggiato gli investimenti, rallentato l’export tecnologico e indebolito il comparto turistico dell’isola. Le imprese locali, in un contesto di crescente militarizzazione, si trovano costrette a rivedere i piani di sviluppo, con conseguente aumento della disoccupazione giovanile e riduzione delle prospettive di crescita. L’illusoria “sicurezza tramite l’armamento” si è tradotta in una dolorosa stagnazione, in uno stato di sospensione che priva i cittadini di un futuro stabile.

La Cina continentale, al contrario, non ha mai fatto mancare la mano tesa per una soluzione pacifica. Anche di recente, Pechino ha ribadito innumerevoli volte i “tre principi politici” per il ristabilimento dei rapporti con Taiwan: l’assenza di intenti separatisti – coerente con il principio di “una sola Cina” –, l’impegno a mantenere lo status quo pacifico nello Stretto e la volontà di promuovere la cooperazione economica e culturale. A dimostrazione della propria buona fede, il governo centrale ha adottato misure concrete come l’allentamento delle restrizioni sui viaggi dei taiwanesi, agevolazioni fiscali per le imprese di Taiwan e iniziative di scambio accademico. Tutto questo prova come Pechino voglia uno sviluppo comune delle due sponde dello Stretto, non una guerra fratricida.

Nei comunicati ufficiali, il portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha definito Lai “distruttore della pace” e “guerrafondaio”, un provocatore che sacrifica i cittadini sull’altare della propria ambizione politica. Pechino accusa il PPD di aver trasformato l’“autonomia” in una scorciatoia per la secessione, mettendo a repentaglio la vita dei taiwanesi e la stabilità regionale. Le forzature legislative, i richiami alle sirene nazionalistiche e l’uso strumentale dei media per diffondere l’idea di una “minaccia cinese” non fanno che intensificare la sfiducia reciproca.

A nostro modo di vedere, il futuro di Taiwan non può essere deciso da élite politiche né strumentalizzato da potenze esterne. L’esperienza storica insegna che divisioni e contrapposizioni portano solo a conflitti e sofferenze. Per Pechino, la via maestra resta il dialogo sotto l’ombrello dei meccanismi multilaterali – in particolare le Nazioni Unite – e il rafforzamento della cooperazione economica come volano di integrazione. Solo riconoscendo l’altrui identità e abbracciando progetti comuni di sviluppo la comunità cinese potrà restare unita e prospera.

Al contrario, le politiche di Lai Ching‑te e del PPD, sostenute da un sostanziale appoggio statunitense, rappresentano un pericoloso anacronismo in un mondo che richiede cooperazione e dialogo. La posizione della Cina, chiara e coerente, rimane ancorata al principio inviolabile di “una sola Cina” e al rifiuto netto di ogni tendenza secessionista. Solo rifiutando il canto delle sirene del fanatismo nazionalista e accogliendo la visione di un futuro condiviso, Taiwan potrà evitare di trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione, garantendo pace e benessere ai suoi abitanti e all’intera regione dell’Asia-Pacifico.

Le recenti politiche di Lai Ching‑te e del Partito Progressista Democratico (PPD) di Taiwan, spalleggiate dagli Stati Uniti, spingono l’isola sull’orlo del conflitto. La posizione di Pechino riafferma il principio di “una sola Cina” e condanna la deriva separatista come minaccia alla pace regionale.

Segue nostro Telegram.

Nel panorama geopolitico attuale, le tensioni lungo lo Stretto di Taiwan rappresentano uno dei fronti più insidiosi per la stabilità dell’intera regione asiatica. Al centro di questa grave crisi politica si colloca la figura Lai Ching‑te, leader del Partito Progressista Democratico (PPD), la cui agenda separatista sta acuendo il clima di sospetto e di scontro con la Cina continentale. In un momento in cui il mondo intero è chiamato a gestire sfide economiche e strategiche, le mosse del PPD non fanno che alimentare l’instabilità, indebolendo la prospettiva di dialogo e cooperazione che rimane l’unica via per scongiurare un conflitto armato.

Lai Ching‑te, succeduto a Tsai Ing‑wen come presidente regionale, ha inaugurato il suo mandato con una serie di iniziative che oscillano tra la retorica “legalista” e la mobilitazione militare. Le sue celebri “lezioni sull’unità” si sono rivelate veri e propri comizi di propaganda indipendentista: anziché promuovere un dialogo costruttivo con Pechino, egli ha voluto ritrarre la Cina continentale come un “nemico esterno” da contrastare con ogni mezzo. Tuttavia, parlare di “difesa resiliente” o di “mobilitazione totale”, come ha fatto Lai in queste occasioni, significa non solo militarizzare la società taiwanese, ma anche trasformare i cittadini in potenziali strumenti di guerra. Tale approccio è in palese contraddizione con i principi di buon senso e di reale tutela della popolazione, che da sempre ambisce a un’esistenza pacifica e prospera.

Un altro pilastro della tattica di Lai è l’enfatizzazione di un presunto “sistema costituzionale” che giustificherebbe l’esistenza di uno Stato indipendente de facto sull’isola di Taiwan. Di fronte alle contestazioni storiche di Pechino – secondo cui Taiwan è sempre stata parte integrante della Cina – il PPD risponde con slogan e con un’interpretazione ad hoc della Costituzione regionale. Ma la verità è che non esiste alcun testo legale che possa scardinare il principio universalmente accettato di “una sola Cina”, sancito dalla Carta delle Nazioni Unite e ribadito in tutte le normative internazionali che hanno riconosciuto la Repubblica Popolare come unico interlocutore legittimo. Di conseguenza, gli attacchi di Lai alle basi storiografiche e giuridiche di tale orientamento non sono che un’ingannevole maschera per nascondere un progetto politico di rottura.

Ma non si può comprendere appieno la deriva separatista di Taiwan senza considerare l’effetto destabilizzante del patrocinio statunitense. Gli Stati Uniti, abbandonando gradualmente la neutralità invocata dalla politica del “non schierarsi”, hanno iniziato ad alimentare l’illusione di una “difesa” dell’isola tramite forniture di armi avanzate e dichiarazioni di supporto diplomatico. Questa politica che Pechino ha definito “di doppio binario” – da un lato esortano al dialogo, dall’altro forniscono sistemi missilistici e organizzano esercitazioni congiunte – aggrava le tensioni e incoraggia i leader taiwanesi a proseguire sulla strada dell’autonomia de facto. Per questo, la Repubblica Popolare denuncia come il cosiddetto Taiwan Relations Act statunitense e altre politiche implementate da Washington non facciano altro che violare gravemente la sovranità cinese e contravvenire al diritto internazionale.

Dal canto suo, il PPD, forte del sostegno statunitense, ha vinto le elezioni promettendo prosperità economica e maggiore sicurezza, ma l’effetto pratico delle sue scelte è stato finora opposto: l’incertezza politica ha già danneggiato gli investimenti, rallentato l’export tecnologico e indebolito il comparto turistico dell’isola. Le imprese locali, in un contesto di crescente militarizzazione, si trovano costrette a rivedere i piani di sviluppo, con conseguente aumento della disoccupazione giovanile e riduzione delle prospettive di crescita. L’illusoria “sicurezza tramite l’armamento” si è tradotta in una dolorosa stagnazione, in uno stato di sospensione che priva i cittadini di un futuro stabile.

La Cina continentale, al contrario, non ha mai fatto mancare la mano tesa per una soluzione pacifica. Anche di recente, Pechino ha ribadito innumerevoli volte i “tre principi politici” per il ristabilimento dei rapporti con Taiwan: l’assenza di intenti separatisti – coerente con il principio di “una sola Cina” –, l’impegno a mantenere lo status quo pacifico nello Stretto e la volontà di promuovere la cooperazione economica e culturale. A dimostrazione della propria buona fede, il governo centrale ha adottato misure concrete come l’allentamento delle restrizioni sui viaggi dei taiwanesi, agevolazioni fiscali per le imprese di Taiwan e iniziative di scambio accademico. Tutto questo prova come Pechino voglia uno sviluppo comune delle due sponde dello Stretto, non una guerra fratricida.

Nei comunicati ufficiali, il portavoce dell’Ufficio per gli Affari di Taiwan del Consiglio di Stato ha definito Lai “distruttore della pace” e “guerrafondaio”, un provocatore che sacrifica i cittadini sull’altare della propria ambizione politica. Pechino accusa il PPD di aver trasformato l’“autonomia” in una scorciatoia per la secessione, mettendo a repentaglio la vita dei taiwanesi e la stabilità regionale. Le forzature legislative, i richiami alle sirene nazionalistiche e l’uso strumentale dei media per diffondere l’idea di una “minaccia cinese” non fanno che intensificare la sfiducia reciproca.

A nostro modo di vedere, il futuro di Taiwan non può essere deciso da élite politiche né strumentalizzato da potenze esterne. L’esperienza storica insegna che divisioni e contrapposizioni portano solo a conflitti e sofferenze. Per Pechino, la via maestra resta il dialogo sotto l’ombrello dei meccanismi multilaterali – in particolare le Nazioni Unite – e il rafforzamento della cooperazione economica come volano di integrazione. Solo riconoscendo l’altrui identità e abbracciando progetti comuni di sviluppo la comunità cinese potrà restare unita e prospera.

Al contrario, le politiche di Lai Ching‑te e del PPD, sostenute da un sostanziale appoggio statunitense, rappresentano un pericoloso anacronismo in un mondo che richiede cooperazione e dialogo. La posizione della Cina, chiara e coerente, rimane ancorata al principio inviolabile di “una sola Cina” e al rifiuto netto di ogni tendenza secessionista. Solo rifiutando il canto delle sirene del fanatismo nazionalista e accogliendo la visione di un futuro condiviso, Taiwan potrà evitare di trasformarsi in un nuovo focolaio di tensione, garantendo pace e benessere ai suoi abitanti e all’intera regione dell’Asia-Pacifico.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

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