Dopo gli scontri tra milizie dello scorso maggio, la situazione a Tripoli sembra essersi stabilizzata. Tuttavia, la Libia rimane al centro di un complesso gioco di interessi geopolitici che ne condizioneranno la stabilità ancora per lungo tempo.
Il 12 maggio è stato ucciso a Tripoli Abdelghani “Ghnewa” al-Kikli, per diversi anni a capo di una delle più influenti milizie della città: quell’Apparato di Supporto Rapido che ebbe un ruolo di rilievo anche nell’assedio portato dalle forze di Khalifa Haftar (signore della guerra della Cirenaica) nel 2019.
A quanto pare, al-Kikli sarebbe morto a seguito di un’imboscata da parte di una milizia rivale (attirato con la scusa di intavolare un negoziato sulla spartizione del potere). Questa milizia rivale è la 444° Brigata di Mahmoud Hamza, alleato dell’attuale Primo Ministro tripolitano Abdul Hamid Dbeibah. Questi, imprenditore con un passato di amicizia con la famiglia Gheddafi e di innumerevoli accuse di corruzione (è comunque difficile trovare un politico non corrotto in Libia), è stato eletto nel marzo 2021 con un mandato temporaneo e l’obiettivo di condurre il Paese verso elezioni politiche unitarie. Tuttavia, dopo quattro anni è ancora coinvolto all’interno di una lotta di potere (interna alla Tripolitania) di cui l’assassinio di al-Kikli (a più riprese accusato di crimini di guerra e violazione dei diritti umani) rimane solo l’ultimo e forse più eclatante episodio. Anche alla luce delle violenti proteste e degli scontri tra bande rivali che ha messo a ferro e fuoco la capitale nei giorni immediatamente successivi.
Al-Kikli, di fatto, nel corso del tempo era stato capace di insediare i suoi uomini in posizioni chiave all’interno delle istituzioni del Governo di Unità Nazionale di Tripoli (quello che ancora oggi viene riconosciuto dall’ONU, a differenza del governo di Tobruk/Bengasi). E, poco prima del suo assassinio, aveva attaccato con i suoi uomini la sede di una compagnia di telecomunicazioni sotto controllo di Dbeibah. La sua eliminazione, dunque, si pone come il primo tassello verso una riduzione del potere delle milizie a Tripoli, auspicata dallo stesso Dbeibah per ricostruire l’apparato militare della Libia occidentale in senso favorevole al governo centrale (ed anche per ottenere maggiore credibilità sul piano internazionale).
Già nell’agosto del 2024 vi erano state le prime avvisaglie della frattura all’interno del governo di Tripoli, quando la Banca Centrale venne messa sotto assedio per costringere il suo governatore Sadiq al-Kabir (ex amico di Dbeibah) alle dimissioni. La Banca, infatti, rimane l’istituzione più importante dell’intera Libia, dato che controlla il flusso di denaro generato dalle risorse petrolifere (e la Libia è lo Stato con le più importanti riserve nel continente africano). Su di essa, inoltre, si basa il fragilissimo accordo di cessate il fuoco del 2020, fondato essenzialmente sulla divisione dei proventi di suddetta risorsa. Bisogna infine considerare che mentre la sede della Banca è a Tripoli, il grosso delle produzione petrolifera è situato nella parte orientale del Paese; e dunque sotto diretto controllo di Khalifa Haftar.
L’assedio alla Banca fu il risultato delle innumerevoli accuse di Dbeibah al suo governatore; colpevole, a suo dire, di aver destinato più denaro ad Haftar che al Governo di Unità Nazionale; ed anche di un piuttosto interessante riposizionamento degli attori internazionali coinvolti direttamente nello Stato nordafricano.
In primo luogo, si sta assistendo ad un maggiore coinvolgimento degli Stati Uniti nell’area. La nuova amministrazione Trump, infatti, appare particolarmente interessata alle risorse minerarie africane e sta lavorando, con mezzi diplomatici, anche per contrastare la crescente influenza di Cina e Russia nell’area. In questo contesto, Massad Boulos, plenipotenziario di Trump per l’Africa ed il Medio Oriente, sta svolgendo un notevole lavoro sia nell’area dei Grandi Laghi, siglando accordi tra Congo e Ruanda, sia proprio in Libia, dove sta lavorando anche per garantire agli Stati Uniti importanti appalti per la ricostruzione.
La figura di Boulos è particolarmente interessante. Uomo d’affari americano-libanese – suo figlio Michael è sposato con Tiffany Trump (figlia dell’attuale Presidente USA e di Marla Maples) – è stato centrale nel garantire allo stesso Trump il sostegno elettorale della comunità araba negli Stati Uniti. E non è da sottovalutare il suo ruolo neanche per ciò che concerne l’intenso lavoro per marginalizzare Hezbollah in Libano, facendo pressioni sugli uomini del governo legati a doppio filo all’Occidente.
Ad ogni modo, Washington e Tripoli avrebbero raggiunto un accordo di massima per la restituzione di 30 miliardi di dollari congelati dagli Stati Uniti nel 2011 a seguito dell’azione contro il regime di Gheddafi. In cambio, Tripoli dovrebbe garantire agli Stati Uniti pieno accesso all’economia libica: un’idea di accordo simile, nei suoi esiti finali, a quello ottenuto con l’Ucraina (accesso alle risorse in cambio di protezione).
È sicuramente curioso questo fatto, perché a lungo si è ritenuto Haftar come risorsa strategica della CIA e degli Stati Uniti (dove ha trascorso parte del suo esilio dopo lo scontro aperto con Gheddafi, e prima di tornare in Libia a seguito della sua caduta); mentre, ora, la situazione sembra essersi capovolta. Sempre Haftar, inoltre, è stato spesso associato alla Francia. Parigi, tuttavia, sembra aver perso in modo irrecuperabile le sue posizioni in Libia (un processo già ampiamente avvenuto anche nel Sahel a favore della Russia). Lo stesso si può affermare per l’Italia che, nonostante il circuito della propaganda legata al cosiddetto “Piano Mattei”, non riesce (vuoi per impotenza e sudditanza, vuoi per incapacità palese degli addetti ai lavori) ad esprimere quel potenziale geopolitico che almeno la sua posizione geografica dovrebbe garantirle nell’area.
Ora, in questo processo di repentino cambio di “alleanze”, è apparso sicuramente inaspettato (almeno per chi non conosce le modalità di operazione della Turchia, sempre assai pragmatica) l’avvicinamento tra Haftar ed Ankara. La Turchia, infatti, è bene ricordarlo, fu quella che salvò Tripoli dalla caduta nel 2019, anche favorendo il trasferimento di mercenari e miliziani gihadisti dalla Siria. Oggi, invece, Ankara sembra avvicinarsi all’altro campo, pur mantenendo un piede anche a Tripoli. Saddam Haftar, figlio di Khalifa (e, con tutta probabilità, suo successore), si è recentemente recato nella capitale turca dove si è discusso sulla possibilità per Tobruk/Bengasi di riconoscere il disegno geopolitico sulla delimitazione dei confini marittimi (figlio della dottrina della “Patria Blu” dell’ammiraglio Cem Gurdeniz) che proprio Ankara aveva intavolato con Tripoli.
Fattore che ha fatto inalberare il rivale storico della Turchia: la Grecia. Questa, con notevoli interessi nello sfruttamento delle risorse gassifere del Mediterraneo Orientale e nella costruzione di gasdotti che da questa regione attraversano il suo territorio e portano gas in Europa, ha subito chiesto all’Egitto (principale sostenitore “storico” di Haftar, insieme agli Emirati Arabi Uniti) di mediare per impedire che il maresciallo sigli un accordo potenzialmente dannoso per la sua già disastrata economia.
Sembra comunque fuori di dubbio che tale (potenziale) accordo rientri in un piano più complesso di spartizione russo-turca della Libia dopo una sua eventuale riunificazione. Mosca, infatti, dopo la caduta di Assad, pur mantenendo le sue basi sulla costa siriana, ha scelto di trasferire molte delle risorse presenti nel Paese levantino proprio in Libia ed a sostegno di Haftar (che ha spesso operato in stretta cooperazione con i membri del fu Gruppo Wagner).
Non bisogna dimenticare che una della principali motivazioni che spinsero la NATO ad attaccare la Libia di Gheddafi nel 2011 fu proprio l’apertura di quest’ultimo all’idea di costruzione di una base russa sulle coste del Paese nordafricano. Bene, oggi, dopo quattordici anni, la NATO si ritrova punto e a capo.
Allo stesso tempo, va detto che la figura di Haftar rimane piuttosto controversa (per non dire ambigua). Figlio del panarabismo ed addestrato in Unione Sovietica, Haftar prese parte al contingente libico che nel 1973 attraversò il canale di Suez a sostegno dell’esercito egiziano, dando inizio a quella che nella storiografia israeliana è nota come “Guerra del Kippur”: un evento che suscitò una profonda scossa psicologica nella stessa società israeliana a prescindere dai suoi esiti finali. Ancora, fu tra i capi militari dell’esercito libico nella guerra di frontiera con il Ciad (la cosiddetta “toyota war”, per l’utilizzo massiccio nel conflitto dei pick up della celebre casa automobilistica giapponese). Proprio il risultato insoddisfacente di questo scontro, provocò la lite tra lui e Gheddafi. Così, preso prigioniero nel corso della battaglia di Wadi al-Dum, venne avvicinato da agenti statunitensi che gli offrirono la libertà in cambio di un ruolo attivo contro la Jamahirriya libica. Non ci sono prove concrete di una sua affiliazione alla CIA nel periodo di tempo trascorso in esilio negli Stati Uniti (lo stesso Haftar ha spesso smentito tali “accuse” anche fornendo alla Russia i contenuti dei suoi dialoghi con gli statunitensi. Tuttavia, è giusto riportare che i suoi uomini sembrano aver partecipato attivamente alla guerra civile sudanese in aiuto delle altrettanto ambigue Forze di Supporto Rapido di Mohammad Hamdan Dagalo “Hemedti” (in ottimi rapporti con il Mossad israeliano).