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Daniele Perra
June 16, 2025
© Photo: SCF

Con la rottura tra Elon Musk (tra i principali finanziatori della sua campagna elettorale) e Donald J. Trump, inizia una nuova fase del secondo mandato presidenziale del tycoon newyorkese.

Segue nostro Telegram.

Già nel 2016, Donald J. Trump arrivò alla casa bianca con la promessa che avrebbe posto fine alle “guerre infinite” che le amministrazioni Bush Jr. e Obama avevano costantemente nutrito per oltre quindici anni.

Tale promessa si rivelò quasi immediatamente irrealizzabile. Non solo la nuova amministrazione non pose fine a suddette guerre ma, sotto molti aspetti, le intensificò e preparò la strada al devastante conflitto in Ucraina che, ancora oggi, sta falcidiando un’intera generazione di giovani russi e ucraini (alla luce del progressivo invecchiamento delle rispettive popolazioni, l’aspetto demografico, al momento, si presenta come il più disastroso/distruttivo di questa guerra).

Di fatto, è stato nel corso della prima amministrazione Trump che la NATO ha aumentato in modo esponenziale la propria presenza ai confini della Russia (si pensi all’Iniziativa Tre Mari, volta alla costruzione di una sorta di “cordone sanitario” in Europa orientale anche per promuovere la disarticolazione dei rapporti economici tra Russia e Paesi UE). Ed è stato nel corso della prima amministrazione Trump che l’ambasciata USA a Kiev, dopo l’elezione di Volodymyr Zelensky, ha indicato a quest’ultimo le linee guida per la politica estera e interna. Linee che prevedevano l’obbligo a non trattare isolatamente con la Russia, l’intensificazione delle discriminazioni nei confronti della popolazione russofona del Donbass, l’obbligo a non processare per corruzione l’oligarca ed ex presidente ucraino Petro Poroshenko (in ottimi rapporti con lo stesso Trump, nonché responsabile dello scisma ortodosso tra Mosca e Costantinopoli, dopo che questa, su pressione di Washington, ha concesso l’autocefalia alla Chiesa di Kiev).

Sempre nel corso della prima amministrazione Trump si è assistito all’incremento nel sostegno logistico alla coalizione a guida saudita che ha provocato una crisi umanitaria senza precedenti nello Yemen; al raggiungimento del triste primato di ordigni sganciati sull’Afghanistan nell’arco di anno, ed agli attacchi sia militari che economici alla Siria (il regime sanzionatorio imposto al Paese del Vicino Oriente con il tristemente noto Ceasar Act ha spianato la strada, insieme all’assassinio di Qassem Soleimani, al recente successo dell’agglomerato terroristico di Hayat Tahrir al-Sham, guidato da Ahmad al-Shaara, conosciuto con il nome di battaglia Abu Muhammad al-Julani). A ciò si aggiunga che il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele (già non prevenitivato dal Congresso USA a partire dal 1995) non abbia aiutato in alcun modo una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Ora, a parziale difesa del secondo esperimento trumpista, bisogna riconoscere che, al momento del suo insediamento, Donald J. Trump ha ereditato una situazione disastrosa dalla precedente amministrazione. Questa, infatti, ha spinto fino all’eccesso le tensioni con la Russia in modo da scatenare un conflitto che avrebbe inevitabilmente condotto alla disintegrazione del tessuto economico europeo, da un lato, e dall’altro, forzato gli stessi europei ad un aumento delle spese militari e ad un cambio nelle reti di forniture energetiche che sarebbero andati a vantaggio esclusivo dell’economia a Stelle e Strisce.

Quello dell’aumento della spesa militare, tra le altre cose, è stato anche un cavallo di battaglia della prima amministrazione Trump. E non stupisce che oggi la richiesta sia aumentata dal 2% al 5%. Al contrario, “stupisce” il fatto che gli USA, secondo quanto affermato dal Vice Presidente J.D. Vance, chiedano all’Europa un maggiore sforzo nella difesa, senza però diminuire la loro capacità di mantenere la stessa in una condizione di cattività geopolitica attraverso la NATO o gli apparati legati alla sicurezza ed alla diffusione della propaganda.

Ancora, la precedente amministrazione Biden (sul quale aleggia la tesi cospirazionista della sua morte nel 2020, rilanciata dallo stesso Trump sulle piattaforme sociali) si è resa direttamente compartecipe del genocidio palestinese (tutt’ora in corso e sostenuto anche dalla nuova presidenza) a seguito dell’Operazione “Tempesta di al-Aqsa” da parte di Hamas e sulla quale permangono ancora molti dubbi ed ombre (in particolar modo per ciò che concerne la messa in atto della cosiddetta “dottrina Annibale” e sulla sorprendente inefficienza dimostrata dalle Forze di Sicurezza di Israele).

Detto ciò, per tutta la campagna del 2024 elettorale Donald J. Trump ha portato avanti la tesi  secondo la quale avrebbe posto fine rapidamente al conflitto tra Russia ed Ucraina. Guerra che, a suo modo di dire, non sarebbe mai iniziata se fosse stato lui presidente (in realtà, il conflitto in Ucraina è iniziato nel 2014 e non del 2022, e lui stesso, come già riportato, non ha fatto nulla per porvi rimedio nel corso del suo primo mandato). Questi, tuttavia, una volta insediatosi alla Casa Bianca per la seconda volta, ha dovuto scontrarsi con il fatto che realtà e propaganda sono due cose ben diverse e che non tutti ragionano nei termini puramente monetari dell’uomo d’affari; ed anche con la presenza di troppi organismi (presenti anche all’interno della sua amministrazione) interessati al fatto che la guerra non finisca. Ragione per cui l’Ucraina ed il regime di Zelensky vengono mantenuti in vita tramite iniezioni di armi, denaro, mercenari ed informazioni di intelligence che la rendono sì capace di colpire la Russia in modo asimmetrico (l’attacco alla sua deterrenza strategica – difficile pensare che NATO e Washington non ne fossero a conoscenza), ma assolutamente inabile a rovesciare le sorti del conflitto sul piano simmetrico (l’avventura nella regione di Kursk, ad esempio, che avrebbe dovuto fornire a Kiev delle leve negoziali, si è trasformata in un sonoro fallimento).

L’obiettivo, dunque, è quello di protrarre il più a lungo possibili il conflitto, rendendo inutili gli sforzi negoziali e non riconoscendo quello che appare come l’evidente esito sul campo. Da Kiev a Bruxelles (e sotto certi aspetti pure Washington) si sta osservando una totale assenza di realismo politico che, dapprima, ha rifiutato di riconoscere alla Russia più che legittime richieste di sicurezza (considerando lo status di potenza globale di Mosca) ed ora fa finta di non vedere che la prosecuzione del conflitto può solo condurre ad un suo ulteriore e rischiosissimo allargamento.

Sul piano della politica internazionale, la soluzione del conflitto in Ucraina rimane uno dei dossier più caldi per la nuova amministrazione Trump che, al momento, non si è dimostrata all’altezza della situazione (non sorprendentemente, vista la presenza di elementi neocon al suo interno, il Segretario di Stato Marco Rubio su tutti). E non è improbabile che Washington possa puntare ad un suo esclusivo smarcamento, lasciando il peso del conflitto sulla sola Europa e con i suoi istituti di credito e fondi di investimento (BlackRock in primis, si pensi al pendente accordo sulle Terre Rare) che cercheranno di penetrare ulteriormente il tessuto economico del già disastrato Paese dell’Europa orientale.

Ma il dossier esteri include anche un “breve” conflitto contro lo Yemen, malamente gestito dal capo del Pentagono Pete Heghseth (a prescindere dallo scontro interno allo stesso Dipartimento della Difesa), e le questioni di Iran e Palestina. Nel primo caso, Donald J. Trump si è vantato di aver costretto gli Houthi ad una “capitolazione” che, in realtà, non è mai avvenuta. Semplicemente, Washington si è resa conto che la campagna di bombardamenti contro il Paese mediorientale non ha fornito alcun reale vantaggio/effetto strategico a fronte di una enorme quantità di denaro investito.

Assai più complesso il discorso relativo alla Palestina. Dopo aver pubblicato un video (realizzato con l’IA) in cui la “nuova Gaza” veniva presentata come una sorta di Miami del Mediterraneo Orientale (in cui i soldi piovono dal cielo e lui e Netanyahu bevono cocktails in riva al mare, mentre Elon Musk gode delle delizie locali), la brutalità delle azioni sioniste ha spinto la nuova amministrazione a riconsiderare parzialmente (soprattutto per ragioni di immagine ed interesse economico) il proprio sostegno al Primo Ministro israeliano. Questo aspetto è del tutto paradossale. In primo luogo, la pseudo-frattura con Netanyahu è stata propedeutica al viaggio dello stesso Trump nel Golfo Persico al preciso scopo di ottenere dalle monarchie della regione importanti finanziamenti per sostenere la sofferente economia nordamericana. In secondo luogo, accanirsi contro Netanyahu (che forse a più seguito negli Stati Uniti che in Israele) trasforma il Primo Ministro israeliano in una sorta di “capro espiatorio”, sorvolando il fatto che rappresenti l’ala meno estremista  del suo governo ed evitando ogni forma di reale stato d’accusa sul progetto sionista in sé.

Concentrare le colpe su Netanyahu, infatti, riduce il conflitto israelo-palestinese alla mera questione umanitaria e impedisce di metterne in discussione le radici, così come la volontà espansionista di Tel Aviv. Non sorprende, dunque, che sia stato messo a capo della Gaza Humanitarian Foundation Johnnie Moore, pastore evangelico in ottimi rapporti con gli attuali vertici politici israeliani. E non sorprende il fatto che gli Stati Uniti stiano chiudendo più di un occhio di fronte alle infiltrazioni di uomini dell’ISIS a Gaza, aiutati da Israele, per combattere Hamas. Dopo tutto, come diceva Benny Gantz (ex capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano che molti a Washington vedrebbero di buon occhio al posto dello stesso Netanyahu): “qualsiasi aumento delle azioni dell’ISIS nella regione, aumenta la sicurezza di Israele”.

Inutile dire che il sostegno alle politiche israeliane nei Territori Occupati segnerà in modo indelebile (e per generazioni a venire) la percezione che il mondo arabo e islamico (reale e non legale) avrà nei confronti degli Stati Uniti a prescindere dagli accordi che questi riusciranno a stipulare con sovrani compiacenti.

Per ciò che concerne i rapporti con la Repubblica Islamica dell’Iran; difficile pensare che, anche in questo caso, si possa arrivare ad una soluzione della questione nucleare in tempi brevi, soprattutto alla luce della postura iperaggressiva della nuova amministrazione (prodotto della pressione della lobby sionista) e del fatto che la stessa pretenda come base negoziale una specie di resa incondizionata di Tehran. Ed è altrettanto inutile dire che ciò aumenterà inevitabilmente le tensioni nella regione, sebbene l’Iran, a differenza di Israele, abbia dimostrato in più di una occasione di non voler arrivare ad un confronto militare diretto contro i propri avversari, e soprattutto contro gli Stati Uniti (va da sé che la lobby petrolifera USA, sostenitrice di Trump, in alcun modo è interessata ad un conflitto che porterebbe nel caos una regione fondamentale per i flussi energetici globali).

Quello delle differenti anime/interessi/obiettivi che costituiscono il variegato mondo del sostegno a Donald J. Trump è un tema che merita l’apertura di una breve parentesi, visto che ad esso si potrebbe collegare anche la recente rottura con Elon Musk. Questa, infatti, al di là dall’acredine dimostrato da entrambi (con Musk che ha accusato Trump di essere tra i protagonisti dei mai del tutto svelati “Epstein files”), potrebbe essere interpretata anche alla luce delle tensioni tra le tendenze “conservatrici” (lobby delle armi, o suddetta lobby petrolifera) e “progressiste” (industrie high tech, anch’esse con notevoli interessi nel settore militare-bellico) della “destra” nordamericana. Paradossalmente, però, colpisce il fatto che un Peter Thiel, esponente del secondo gruppo e vicino a J.D. Vance, sia stato egli stesso collegato a Jeffrey Epstein che avrebbe finanziato la sua impresa dal nome “tolkeniano” Valar Ventures con 40 milioni di dollari. Nel complesso, la minaccia ad una sfida politica per Trump lascia il tempo che trova (soprattutto nel breve periodo), nonostante le richieste di impeachment. Musk non è eleggibile come Presidente, non essendo nato negli Stati Uniti. Ciò implica che, nell’immediato, dovrebbe fare riferimento ad un’altra figura (J.D. Vance dato vicino alla corrente della cosiddetta “tecnodestra”?). Senza considerare che il suo eventuale Partito “America Party” si porrebbe come portatore di istanze ben lontane dal tradizionale populismo nordamericano, facendo riferimento inizialmente ai soli interessi dei multimilionari del settore high tech.

Allo stesso tempo, non è inverosimile che lo scontro sia il prodotto del sostanziale fallimento del DOGE: il dipartimento per l’efficienza governativa che Donald J. Trump aveva affidato a Musk. A questo proposito, appare evidente che non fosse esattamente una scelta felice mettere a capo di un organismo che avrebbe dovuto ridurre le spese del governo centrale (di circa un trilione di dollari) un uomo che per lungo tempo (e sotto diverse amministrazioni) ha goduto di notevoli sussidi statali per portare avanti i suoi progetti. E sempre a questo proposito non bisogna dimenticare che il debito pubblico USA, dal 2020 al 2025, è salito da 23,2 trilioni di dollari a 36,2 trilioni (impossibile ridurlo se la spesa per la difesa aumenta in modo esponenziale ogni anno). Senza considerare il netto peggioramento della posizione finanziaria nel primo trimestre del 2025, nonostante i tentativi (ad oggi fallimentari) di utilizzare i dazi come tasse: ovvero, lo sfruttamento delle tariffe per aumentare le entrate fiscali.

L’aspetto economico, di fatto, rimane quello più problematico per la nuova amministrazione, già alle prese con notevoli disordini interni di natura etnica e sociale (gli scontri di Los Angeles, ad esempio) sia con gli sforzi dei BRICS verso un lento (ma inesorabile) processo di de-dollarizzazione dell’economia globale che potrebbe mettere a rischio il sistema sul quale per decenni si è retta l’economia USA.

Un primo bilancio della seconda era Trump

Con la rottura tra Elon Musk (tra i principali finanziatori della sua campagna elettorale) e Donald J. Trump, inizia una nuova fase del secondo mandato presidenziale del tycoon newyorkese.

Segue nostro Telegram.

Già nel 2016, Donald J. Trump arrivò alla casa bianca con la promessa che avrebbe posto fine alle “guerre infinite” che le amministrazioni Bush Jr. e Obama avevano costantemente nutrito per oltre quindici anni.

Tale promessa si rivelò quasi immediatamente irrealizzabile. Non solo la nuova amministrazione non pose fine a suddette guerre ma, sotto molti aspetti, le intensificò e preparò la strada al devastante conflitto in Ucraina che, ancora oggi, sta falcidiando un’intera generazione di giovani russi e ucraini (alla luce del progressivo invecchiamento delle rispettive popolazioni, l’aspetto demografico, al momento, si presenta come il più disastroso/distruttivo di questa guerra).

Di fatto, è stato nel corso della prima amministrazione Trump che la NATO ha aumentato in modo esponenziale la propria presenza ai confini della Russia (si pensi all’Iniziativa Tre Mari, volta alla costruzione di una sorta di “cordone sanitario” in Europa orientale anche per promuovere la disarticolazione dei rapporti economici tra Russia e Paesi UE). Ed è stato nel corso della prima amministrazione Trump che l’ambasciata USA a Kiev, dopo l’elezione di Volodymyr Zelensky, ha indicato a quest’ultimo le linee guida per la politica estera e interna. Linee che prevedevano l’obbligo a non trattare isolatamente con la Russia, l’intensificazione delle discriminazioni nei confronti della popolazione russofona del Donbass, l’obbligo a non processare per corruzione l’oligarca ed ex presidente ucraino Petro Poroshenko (in ottimi rapporti con lo stesso Trump, nonché responsabile dello scisma ortodosso tra Mosca e Costantinopoli, dopo che questa, su pressione di Washington, ha concesso l’autocefalia alla Chiesa di Kiev).

Sempre nel corso della prima amministrazione Trump si è assistito all’incremento nel sostegno logistico alla coalizione a guida saudita che ha provocato una crisi umanitaria senza precedenti nello Yemen; al raggiungimento del triste primato di ordigni sganciati sull’Afghanistan nell’arco di anno, ed agli attacchi sia militari che economici alla Siria (il regime sanzionatorio imposto al Paese del Vicino Oriente con il tristemente noto Ceasar Act ha spianato la strada, insieme all’assassinio di Qassem Soleimani, al recente successo dell’agglomerato terroristico di Hayat Tahrir al-Sham, guidato da Ahmad al-Shaara, conosciuto con il nome di battaglia Abu Muhammad al-Julani). A ciò si aggiunga che il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele (già non prevenitivato dal Congresso USA a partire dal 1995) non abbia aiutato in alcun modo una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Ora, a parziale difesa del secondo esperimento trumpista, bisogna riconoscere che, al momento del suo insediamento, Donald J. Trump ha ereditato una situazione disastrosa dalla precedente amministrazione. Questa, infatti, ha spinto fino all’eccesso le tensioni con la Russia in modo da scatenare un conflitto che avrebbe inevitabilmente condotto alla disintegrazione del tessuto economico europeo, da un lato, e dall’altro, forzato gli stessi europei ad un aumento delle spese militari e ad un cambio nelle reti di forniture energetiche che sarebbero andati a vantaggio esclusivo dell’economia a Stelle e Strisce.

Quello dell’aumento della spesa militare, tra le altre cose, è stato anche un cavallo di battaglia della prima amministrazione Trump. E non stupisce che oggi la richiesta sia aumentata dal 2% al 5%. Al contrario, “stupisce” il fatto che gli USA, secondo quanto affermato dal Vice Presidente J.D. Vance, chiedano all’Europa un maggiore sforzo nella difesa, senza però diminuire la loro capacità di mantenere la stessa in una condizione di cattività geopolitica attraverso la NATO o gli apparati legati alla sicurezza ed alla diffusione della propaganda.

Ancora, la precedente amministrazione Biden (sul quale aleggia la tesi cospirazionista della sua morte nel 2020, rilanciata dallo stesso Trump sulle piattaforme sociali) si è resa direttamente compartecipe del genocidio palestinese (tutt’ora in corso e sostenuto anche dalla nuova presidenza) a seguito dell’Operazione “Tempesta di al-Aqsa” da parte di Hamas e sulla quale permangono ancora molti dubbi ed ombre (in particolar modo per ciò che concerne la messa in atto della cosiddetta “dottrina Annibale” e sulla sorprendente inefficienza dimostrata dalle Forze di Sicurezza di Israele).

Detto ciò, per tutta la campagna del 2024 elettorale Donald J. Trump ha portato avanti la tesi  secondo la quale avrebbe posto fine rapidamente al conflitto tra Russia ed Ucraina. Guerra che, a suo modo di dire, non sarebbe mai iniziata se fosse stato lui presidente (in realtà, il conflitto in Ucraina è iniziato nel 2014 e non del 2022, e lui stesso, come già riportato, non ha fatto nulla per porvi rimedio nel corso del suo primo mandato). Questi, tuttavia, una volta insediatosi alla Casa Bianca per la seconda volta, ha dovuto scontrarsi con il fatto che realtà e propaganda sono due cose ben diverse e che non tutti ragionano nei termini puramente monetari dell’uomo d’affari; ed anche con la presenza di troppi organismi (presenti anche all’interno della sua amministrazione) interessati al fatto che la guerra non finisca. Ragione per cui l’Ucraina ed il regime di Zelensky vengono mantenuti in vita tramite iniezioni di armi, denaro, mercenari ed informazioni di intelligence che la rendono sì capace di colpire la Russia in modo asimmetrico (l’attacco alla sua deterrenza strategica – difficile pensare che NATO e Washington non ne fossero a conoscenza), ma assolutamente inabile a rovesciare le sorti del conflitto sul piano simmetrico (l’avventura nella regione di Kursk, ad esempio, che avrebbe dovuto fornire a Kiev delle leve negoziali, si è trasformata in un sonoro fallimento).

L’obiettivo, dunque, è quello di protrarre il più a lungo possibili il conflitto, rendendo inutili gli sforzi negoziali e non riconoscendo quello che appare come l’evidente esito sul campo. Da Kiev a Bruxelles (e sotto certi aspetti pure Washington) si sta osservando una totale assenza di realismo politico che, dapprima, ha rifiutato di riconoscere alla Russia più che legittime richieste di sicurezza (considerando lo status di potenza globale di Mosca) ed ora fa finta di non vedere che la prosecuzione del conflitto può solo condurre ad un suo ulteriore e rischiosissimo allargamento.

Sul piano della politica internazionale, la soluzione del conflitto in Ucraina rimane uno dei dossier più caldi per la nuova amministrazione Trump che, al momento, non si è dimostrata all’altezza della situazione (non sorprendentemente, vista la presenza di elementi neocon al suo interno, il Segretario di Stato Marco Rubio su tutti). E non è improbabile che Washington possa puntare ad un suo esclusivo smarcamento, lasciando il peso del conflitto sulla sola Europa e con i suoi istituti di credito e fondi di investimento (BlackRock in primis, si pensi al pendente accordo sulle Terre Rare) che cercheranno di penetrare ulteriormente il tessuto economico del già disastrato Paese dell’Europa orientale.

Ma il dossier esteri include anche un “breve” conflitto contro lo Yemen, malamente gestito dal capo del Pentagono Pete Heghseth (a prescindere dallo scontro interno allo stesso Dipartimento della Difesa), e le questioni di Iran e Palestina. Nel primo caso, Donald J. Trump si è vantato di aver costretto gli Houthi ad una “capitolazione” che, in realtà, non è mai avvenuta. Semplicemente, Washington si è resa conto che la campagna di bombardamenti contro il Paese mediorientale non ha fornito alcun reale vantaggio/effetto strategico a fronte di una enorme quantità di denaro investito.

Assai più complesso il discorso relativo alla Palestina. Dopo aver pubblicato un video (realizzato con l’IA) in cui la “nuova Gaza” veniva presentata come una sorta di Miami del Mediterraneo Orientale (in cui i soldi piovono dal cielo e lui e Netanyahu bevono cocktails in riva al mare, mentre Elon Musk gode delle delizie locali), la brutalità delle azioni sioniste ha spinto la nuova amministrazione a riconsiderare parzialmente (soprattutto per ragioni di immagine ed interesse economico) il proprio sostegno al Primo Ministro israeliano. Questo aspetto è del tutto paradossale. In primo luogo, la pseudo-frattura con Netanyahu è stata propedeutica al viaggio dello stesso Trump nel Golfo Persico al preciso scopo di ottenere dalle monarchie della regione importanti finanziamenti per sostenere la sofferente economia nordamericana. In secondo luogo, accanirsi contro Netanyahu (che forse a più seguito negli Stati Uniti che in Israele) trasforma il Primo Ministro israeliano in una sorta di “capro espiatorio”, sorvolando il fatto che rappresenti l’ala meno estremista  del suo governo ed evitando ogni forma di reale stato d’accusa sul progetto sionista in sé.

Concentrare le colpe su Netanyahu, infatti, riduce il conflitto israelo-palestinese alla mera questione umanitaria e impedisce di metterne in discussione le radici, così come la volontà espansionista di Tel Aviv. Non sorprende, dunque, che sia stato messo a capo della Gaza Humanitarian Foundation Johnnie Moore, pastore evangelico in ottimi rapporti con gli attuali vertici politici israeliani. E non sorprende il fatto che gli Stati Uniti stiano chiudendo più di un occhio di fronte alle infiltrazioni di uomini dell’ISIS a Gaza, aiutati da Israele, per combattere Hamas. Dopo tutto, come diceva Benny Gantz (ex capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano che molti a Washington vedrebbero di buon occhio al posto dello stesso Netanyahu): “qualsiasi aumento delle azioni dell’ISIS nella regione, aumenta la sicurezza di Israele”.

Inutile dire che il sostegno alle politiche israeliane nei Territori Occupati segnerà in modo indelebile (e per generazioni a venire) la percezione che il mondo arabo e islamico (reale e non legale) avrà nei confronti degli Stati Uniti a prescindere dagli accordi che questi riusciranno a stipulare con sovrani compiacenti.

Per ciò che concerne i rapporti con la Repubblica Islamica dell’Iran; difficile pensare che, anche in questo caso, si possa arrivare ad una soluzione della questione nucleare in tempi brevi, soprattutto alla luce della postura iperaggressiva della nuova amministrazione (prodotto della pressione della lobby sionista) e del fatto che la stessa pretenda come base negoziale una specie di resa incondizionata di Tehran. Ed è altrettanto inutile dire che ciò aumenterà inevitabilmente le tensioni nella regione, sebbene l’Iran, a differenza di Israele, abbia dimostrato in più di una occasione di non voler arrivare ad un confronto militare diretto contro i propri avversari, e soprattutto contro gli Stati Uniti (va da sé che la lobby petrolifera USA, sostenitrice di Trump, in alcun modo è interessata ad un conflitto che porterebbe nel caos una regione fondamentale per i flussi energetici globali).

Quello delle differenti anime/interessi/obiettivi che costituiscono il variegato mondo del sostegno a Donald J. Trump è un tema che merita l’apertura di una breve parentesi, visto che ad esso si potrebbe collegare anche la recente rottura con Elon Musk. Questa, infatti, al di là dall’acredine dimostrato da entrambi (con Musk che ha accusato Trump di essere tra i protagonisti dei mai del tutto svelati “Epstein files”), potrebbe essere interpretata anche alla luce delle tensioni tra le tendenze “conservatrici” (lobby delle armi, o suddetta lobby petrolifera) e “progressiste” (industrie high tech, anch’esse con notevoli interessi nel settore militare-bellico) della “destra” nordamericana. Paradossalmente, però, colpisce il fatto che un Peter Thiel, esponente del secondo gruppo e vicino a J.D. Vance, sia stato egli stesso collegato a Jeffrey Epstein che avrebbe finanziato la sua impresa dal nome “tolkeniano” Valar Ventures con 40 milioni di dollari. Nel complesso, la minaccia ad una sfida politica per Trump lascia il tempo che trova (soprattutto nel breve periodo), nonostante le richieste di impeachment. Musk non è eleggibile come Presidente, non essendo nato negli Stati Uniti. Ciò implica che, nell’immediato, dovrebbe fare riferimento ad un’altra figura (J.D. Vance dato vicino alla corrente della cosiddetta “tecnodestra”?). Senza considerare che il suo eventuale Partito “America Party” si porrebbe come portatore di istanze ben lontane dal tradizionale populismo nordamericano, facendo riferimento inizialmente ai soli interessi dei multimilionari del settore high tech.

Allo stesso tempo, non è inverosimile che lo scontro sia il prodotto del sostanziale fallimento del DOGE: il dipartimento per l’efficienza governativa che Donald J. Trump aveva affidato a Musk. A questo proposito, appare evidente che non fosse esattamente una scelta felice mettere a capo di un organismo che avrebbe dovuto ridurre le spese del governo centrale (di circa un trilione di dollari) un uomo che per lungo tempo (e sotto diverse amministrazioni) ha goduto di notevoli sussidi statali per portare avanti i suoi progetti. E sempre a questo proposito non bisogna dimenticare che il debito pubblico USA, dal 2020 al 2025, è salito da 23,2 trilioni di dollari a 36,2 trilioni (impossibile ridurlo se la spesa per la difesa aumenta in modo esponenziale ogni anno). Senza considerare il netto peggioramento della posizione finanziaria nel primo trimestre del 2025, nonostante i tentativi (ad oggi fallimentari) di utilizzare i dazi come tasse: ovvero, lo sfruttamento delle tariffe per aumentare le entrate fiscali.

L’aspetto economico, di fatto, rimane quello più problematico per la nuova amministrazione, già alle prese con notevoli disordini interni di natura etnica e sociale (gli scontri di Los Angeles, ad esempio) sia con gli sforzi dei BRICS verso un lento (ma inesorabile) processo di de-dollarizzazione dell’economia globale che potrebbe mettere a rischio il sistema sul quale per decenni si è retta l’economia USA.

Con la rottura tra Elon Musk (tra i principali finanziatori della sua campagna elettorale) e Donald J. Trump, inizia una nuova fase del secondo mandato presidenziale del tycoon newyorkese.

Segue nostro Telegram.

Già nel 2016, Donald J. Trump arrivò alla casa bianca con la promessa che avrebbe posto fine alle “guerre infinite” che le amministrazioni Bush Jr. e Obama avevano costantemente nutrito per oltre quindici anni.

Tale promessa si rivelò quasi immediatamente irrealizzabile. Non solo la nuova amministrazione non pose fine a suddette guerre ma, sotto molti aspetti, le intensificò e preparò la strada al devastante conflitto in Ucraina che, ancora oggi, sta falcidiando un’intera generazione di giovani russi e ucraini (alla luce del progressivo invecchiamento delle rispettive popolazioni, l’aspetto demografico, al momento, si presenta come il più disastroso/distruttivo di questa guerra).

Di fatto, è stato nel corso della prima amministrazione Trump che la NATO ha aumentato in modo esponenziale la propria presenza ai confini della Russia (si pensi all’Iniziativa Tre Mari, volta alla costruzione di una sorta di “cordone sanitario” in Europa orientale anche per promuovere la disarticolazione dei rapporti economici tra Russia e Paesi UE). Ed è stato nel corso della prima amministrazione Trump che l’ambasciata USA a Kiev, dopo l’elezione di Volodymyr Zelensky, ha indicato a quest’ultimo le linee guida per la politica estera e interna. Linee che prevedevano l’obbligo a non trattare isolatamente con la Russia, l’intensificazione delle discriminazioni nei confronti della popolazione russofona del Donbass, l’obbligo a non processare per corruzione l’oligarca ed ex presidente ucraino Petro Poroshenko (in ottimi rapporti con lo stesso Trump, nonché responsabile dello scisma ortodosso tra Mosca e Costantinopoli, dopo che questa, su pressione di Washington, ha concesso l’autocefalia alla Chiesa di Kiev).

Sempre nel corso della prima amministrazione Trump si è assistito all’incremento nel sostegno logistico alla coalizione a guida saudita che ha provocato una crisi umanitaria senza precedenti nello Yemen; al raggiungimento del triste primato di ordigni sganciati sull’Afghanistan nell’arco di anno, ed agli attacchi sia militari che economici alla Siria (il regime sanzionatorio imposto al Paese del Vicino Oriente con il tristemente noto Ceasar Act ha spianato la strada, insieme all’assassinio di Qassem Soleimani, al recente successo dell’agglomerato terroristico di Hayat Tahrir al-Sham, guidato da Ahmad al-Shaara, conosciuto con il nome di battaglia Abu Muhammad al-Julani). A ciò si aggiunga che il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale di Israele (già non prevenitivato dal Congresso USA a partire dal 1995) non abbia aiutato in alcun modo una soluzione del conflitto israelo-palestinese.

Ora, a parziale difesa del secondo esperimento trumpista, bisogna riconoscere che, al momento del suo insediamento, Donald J. Trump ha ereditato una situazione disastrosa dalla precedente amministrazione. Questa, infatti, ha spinto fino all’eccesso le tensioni con la Russia in modo da scatenare un conflitto che avrebbe inevitabilmente condotto alla disintegrazione del tessuto economico europeo, da un lato, e dall’altro, forzato gli stessi europei ad un aumento delle spese militari e ad un cambio nelle reti di forniture energetiche che sarebbero andati a vantaggio esclusivo dell’economia a Stelle e Strisce.

Quello dell’aumento della spesa militare, tra le altre cose, è stato anche un cavallo di battaglia della prima amministrazione Trump. E non stupisce che oggi la richiesta sia aumentata dal 2% al 5%. Al contrario, “stupisce” il fatto che gli USA, secondo quanto affermato dal Vice Presidente J.D. Vance, chiedano all’Europa un maggiore sforzo nella difesa, senza però diminuire la loro capacità di mantenere la stessa in una condizione di cattività geopolitica attraverso la NATO o gli apparati legati alla sicurezza ed alla diffusione della propaganda.

Ancora, la precedente amministrazione Biden (sul quale aleggia la tesi cospirazionista della sua morte nel 2020, rilanciata dallo stesso Trump sulle piattaforme sociali) si è resa direttamente compartecipe del genocidio palestinese (tutt’ora in corso e sostenuto anche dalla nuova presidenza) a seguito dell’Operazione “Tempesta di al-Aqsa” da parte di Hamas e sulla quale permangono ancora molti dubbi ed ombre (in particolar modo per ciò che concerne la messa in atto della cosiddetta “dottrina Annibale” e sulla sorprendente inefficienza dimostrata dalle Forze di Sicurezza di Israele).

Detto ciò, per tutta la campagna del 2024 elettorale Donald J. Trump ha portato avanti la tesi  secondo la quale avrebbe posto fine rapidamente al conflitto tra Russia ed Ucraina. Guerra che, a suo modo di dire, non sarebbe mai iniziata se fosse stato lui presidente (in realtà, il conflitto in Ucraina è iniziato nel 2014 e non del 2022, e lui stesso, come già riportato, non ha fatto nulla per porvi rimedio nel corso del suo primo mandato). Questi, tuttavia, una volta insediatosi alla Casa Bianca per la seconda volta, ha dovuto scontrarsi con il fatto che realtà e propaganda sono due cose ben diverse e che non tutti ragionano nei termini puramente monetari dell’uomo d’affari; ed anche con la presenza di troppi organismi (presenti anche all’interno della sua amministrazione) interessati al fatto che la guerra non finisca. Ragione per cui l’Ucraina ed il regime di Zelensky vengono mantenuti in vita tramite iniezioni di armi, denaro, mercenari ed informazioni di intelligence che la rendono sì capace di colpire la Russia in modo asimmetrico (l’attacco alla sua deterrenza strategica – difficile pensare che NATO e Washington non ne fossero a conoscenza), ma assolutamente inabile a rovesciare le sorti del conflitto sul piano simmetrico (l’avventura nella regione di Kursk, ad esempio, che avrebbe dovuto fornire a Kiev delle leve negoziali, si è trasformata in un sonoro fallimento).

L’obiettivo, dunque, è quello di protrarre il più a lungo possibili il conflitto, rendendo inutili gli sforzi negoziali e non riconoscendo quello che appare come l’evidente esito sul campo. Da Kiev a Bruxelles (e sotto certi aspetti pure Washington) si sta osservando una totale assenza di realismo politico che, dapprima, ha rifiutato di riconoscere alla Russia più che legittime richieste di sicurezza (considerando lo status di potenza globale di Mosca) ed ora fa finta di non vedere che la prosecuzione del conflitto può solo condurre ad un suo ulteriore e rischiosissimo allargamento.

Sul piano della politica internazionale, la soluzione del conflitto in Ucraina rimane uno dei dossier più caldi per la nuova amministrazione Trump che, al momento, non si è dimostrata all’altezza della situazione (non sorprendentemente, vista la presenza di elementi neocon al suo interno, il Segretario di Stato Marco Rubio su tutti). E non è improbabile che Washington possa puntare ad un suo esclusivo smarcamento, lasciando il peso del conflitto sulla sola Europa e con i suoi istituti di credito e fondi di investimento (BlackRock in primis, si pensi al pendente accordo sulle Terre Rare) che cercheranno di penetrare ulteriormente il tessuto economico del già disastrato Paese dell’Europa orientale.

Ma il dossier esteri include anche un “breve” conflitto contro lo Yemen, malamente gestito dal capo del Pentagono Pete Heghseth (a prescindere dallo scontro interno allo stesso Dipartimento della Difesa), e le questioni di Iran e Palestina. Nel primo caso, Donald J. Trump si è vantato di aver costretto gli Houthi ad una “capitolazione” che, in realtà, non è mai avvenuta. Semplicemente, Washington si è resa conto che la campagna di bombardamenti contro il Paese mediorientale non ha fornito alcun reale vantaggio/effetto strategico a fronte di una enorme quantità di denaro investito.

Assai più complesso il discorso relativo alla Palestina. Dopo aver pubblicato un video (realizzato con l’IA) in cui la “nuova Gaza” veniva presentata come una sorta di Miami del Mediterraneo Orientale (in cui i soldi piovono dal cielo e lui e Netanyahu bevono cocktails in riva al mare, mentre Elon Musk gode delle delizie locali), la brutalità delle azioni sioniste ha spinto la nuova amministrazione a riconsiderare parzialmente (soprattutto per ragioni di immagine ed interesse economico) il proprio sostegno al Primo Ministro israeliano. Questo aspetto è del tutto paradossale. In primo luogo, la pseudo-frattura con Netanyahu è stata propedeutica al viaggio dello stesso Trump nel Golfo Persico al preciso scopo di ottenere dalle monarchie della regione importanti finanziamenti per sostenere la sofferente economia nordamericana. In secondo luogo, accanirsi contro Netanyahu (che forse a più seguito negli Stati Uniti che in Israele) trasforma il Primo Ministro israeliano in una sorta di “capro espiatorio”, sorvolando il fatto che rappresenti l’ala meno estremista  del suo governo ed evitando ogni forma di reale stato d’accusa sul progetto sionista in sé.

Concentrare le colpe su Netanyahu, infatti, riduce il conflitto israelo-palestinese alla mera questione umanitaria e impedisce di metterne in discussione le radici, così come la volontà espansionista di Tel Aviv. Non sorprende, dunque, che sia stato messo a capo della Gaza Humanitarian Foundation Johnnie Moore, pastore evangelico in ottimi rapporti con gli attuali vertici politici israeliani. E non sorprende il fatto che gli Stati Uniti stiano chiudendo più di un occhio di fronte alle infiltrazioni di uomini dell’ISIS a Gaza, aiutati da Israele, per combattere Hamas. Dopo tutto, come diceva Benny Gantz (ex capo di Stato Maggiore dell’esercito israeliano che molti a Washington vedrebbero di buon occhio al posto dello stesso Netanyahu): “qualsiasi aumento delle azioni dell’ISIS nella regione, aumenta la sicurezza di Israele”.

Inutile dire che il sostegno alle politiche israeliane nei Territori Occupati segnerà in modo indelebile (e per generazioni a venire) la percezione che il mondo arabo e islamico (reale e non legale) avrà nei confronti degli Stati Uniti a prescindere dagli accordi che questi riusciranno a stipulare con sovrani compiacenti.

Per ciò che concerne i rapporti con la Repubblica Islamica dell’Iran; difficile pensare che, anche in questo caso, si possa arrivare ad una soluzione della questione nucleare in tempi brevi, soprattutto alla luce della postura iperaggressiva della nuova amministrazione (prodotto della pressione della lobby sionista) e del fatto che la stessa pretenda come base negoziale una specie di resa incondizionata di Tehran. Ed è altrettanto inutile dire che ciò aumenterà inevitabilmente le tensioni nella regione, sebbene l’Iran, a differenza di Israele, abbia dimostrato in più di una occasione di non voler arrivare ad un confronto militare diretto contro i propri avversari, e soprattutto contro gli Stati Uniti (va da sé che la lobby petrolifera USA, sostenitrice di Trump, in alcun modo è interessata ad un conflitto che porterebbe nel caos una regione fondamentale per i flussi energetici globali).

Quello delle differenti anime/interessi/obiettivi che costituiscono il variegato mondo del sostegno a Donald J. Trump è un tema che merita l’apertura di una breve parentesi, visto che ad esso si potrebbe collegare anche la recente rottura con Elon Musk. Questa, infatti, al di là dall’acredine dimostrato da entrambi (con Musk che ha accusato Trump di essere tra i protagonisti dei mai del tutto svelati “Epstein files”), potrebbe essere interpretata anche alla luce delle tensioni tra le tendenze “conservatrici” (lobby delle armi, o suddetta lobby petrolifera) e “progressiste” (industrie high tech, anch’esse con notevoli interessi nel settore militare-bellico) della “destra” nordamericana. Paradossalmente, però, colpisce il fatto che un Peter Thiel, esponente del secondo gruppo e vicino a J.D. Vance, sia stato egli stesso collegato a Jeffrey Epstein che avrebbe finanziato la sua impresa dal nome “tolkeniano” Valar Ventures con 40 milioni di dollari. Nel complesso, la minaccia ad una sfida politica per Trump lascia il tempo che trova (soprattutto nel breve periodo), nonostante le richieste di impeachment. Musk non è eleggibile come Presidente, non essendo nato negli Stati Uniti. Ciò implica che, nell’immediato, dovrebbe fare riferimento ad un’altra figura (J.D. Vance dato vicino alla corrente della cosiddetta “tecnodestra”?). Senza considerare che il suo eventuale Partito “America Party” si porrebbe come portatore di istanze ben lontane dal tradizionale populismo nordamericano, facendo riferimento inizialmente ai soli interessi dei multimilionari del settore high tech.

Allo stesso tempo, non è inverosimile che lo scontro sia il prodotto del sostanziale fallimento del DOGE: il dipartimento per l’efficienza governativa che Donald J. Trump aveva affidato a Musk. A questo proposito, appare evidente che non fosse esattamente una scelta felice mettere a capo di un organismo che avrebbe dovuto ridurre le spese del governo centrale (di circa un trilione di dollari) un uomo che per lungo tempo (e sotto diverse amministrazioni) ha goduto di notevoli sussidi statali per portare avanti i suoi progetti. E sempre a questo proposito non bisogna dimenticare che il debito pubblico USA, dal 2020 al 2025, è salito da 23,2 trilioni di dollari a 36,2 trilioni (impossibile ridurlo se la spesa per la difesa aumenta in modo esponenziale ogni anno). Senza considerare il netto peggioramento della posizione finanziaria nel primo trimestre del 2025, nonostante i tentativi (ad oggi fallimentari) di utilizzare i dazi come tasse: ovvero, lo sfruttamento delle tariffe per aumentare le entrate fiscali.

L’aspetto economico, di fatto, rimane quello più problematico per la nuova amministrazione, già alle prese con notevoli disordini interni di natura etnica e sociale (gli scontri di Los Angeles, ad esempio) sia con gli sforzi dei BRICS verso un lento (ma inesorabile) processo di de-dollarizzazione dell’economia globale che potrebbe mettere a rischio il sistema sul quale per decenni si è retta l’economia USA.

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