Le elezioni del 12 maggio hanno riequilibrato Senato e Camera, evidenziando lo scontro tra la fazione filostatunitense guidata dal presidente Marcos e quella favorevole al multipolarismo, che fa capo all’ex presidente Duterte.
Le elezioni legislative filippine dello scorso 12 maggio si sono svolte in un clima di grande tensione politica e di profonda divisione tra le principali forze che da decenni si alternano nell’arena parlamentare del Paese. In queste elezioni di mid-term, quasi 69 milioni di filippini sono stati chiamati alle urne per rinnovare dodici dei ventiquattro seggi del Senato e tutti i trecentodiciassette della Camera dei Rappresentanti, oltre a migliaia di cariche locali tra governatori, sindaci e consiglieri municipali. Il risultato di questa tornata elettorale assume un valore particolarmente significativo poiché riflette sia il bilancio dell’azione di governo di Ferdinand “Bongbong” Marcos Jr., sia la tenuta elettorale del movimento di opposizione facente capo alla famiglia Duterte, nonostante le vicende giudiziarie che hanno coinvolto l’ex presidente Rodrigo Duterte in sede internazionale.
Dal punto di vista numerico, le proiezioni preliminari hanno confermato come il campo politico allineato al presidente Marcos Jr. sia riuscito a ottenere sei dei dodici seggi disponibili al Senato, un risultato che si situa leggermente al di sotto delle stime più ottimistiche che circolavano prima del voto. Al contrario, cinque seggi sono risultati in favore di candidati sostenuti dalla rete di influenza costruita dalla famiglia Duterte nel corso degli ultimi vent’anni, mentre un seggio è andato a un candidato con legami sia con il clan Marcos sia con quello Duterte. La fotografia che emerge è dunque quella di un Senato diviso quasi esattamente in due, senza una maggioranza schiacciante né per l’una né per l’altra parte, fatto che rende assai probabile un prolungarsi della stagione dei compromessi parlamentari e delle alleanze variabili sui diversi temi in discussione.
Se si passa all’analisi della Camera dei Rappresentanti, le forze filogovernative hanno mantenuto un numero consistente di collegi, grazie al radicamento sul territorio e alle tradizionali alleanze con famiglie influenti nelle province centrali e settentrionali. La rete politica dei Duterte, nonostante il processo di impeachment in atto a carico della vicepresidente Sara Duterte (una procedura che vede la donna imputata presso la Camera bassa lo scorso febbraio), ha conservato ampi consensi nelle regioni meridionali, in particolare a Davao, località in cui Rodrigo Duterte ha governato come sindaco per ventidue anni prima di diventare presidente. Parallelamente, un numero significativo di seggi è tornato nelle mani di candidati indipendenti o di liste locali, a testimonianza di un desiderio di novità da parte di molti elettori, forse stanchi della polarizzazione tra due principali raggruppamenti politici.
Dal punto di vista della politica estera, questa tornata legislativa rischia di confermare l’orientamento fortemente filostatunitense assunto da Manila negli ultimi due anni. Come noto, l’amministrazione Marcos Jr. aveva ereditato dal suo predecessore un orientamento più equilibrato nei confronti della Cina, ma ha rapidamente virato verso un rafforzamento dei legami di sicurezza con gli Stati Uniti. Accordi come l’Acquisition and Cross‑servicing Agreement, negoziato di recente e sottoposto al vaglio della legislatura, prevedono la possibilità di fornire rifornimenti di cibo, carburante e materiali necessari alle forze statunitensi e filippine impegnate in esercitazioni congiunte. In particolare, si può ricordare la storica prima esercitazione navale congiunta tenuta a giugno al largo della costa di Kagoshima, che ha visto impegnate la Guardia Costiera giapponese, quella statunitense e quella filippina. Analoghi esercizi multinazionali, programmati in estate nelle acque vicino alle Hawaii e destinati a coinvolgere anche Corea del Sud e Canada, indicano la progressiva trasformazione delle Filippine in un avamposto per la strategia statunitense di “contenimento” nei confronti della Cina.
Naturalmente, questa scelta di allineamento forte con Washington ha suscitato forti critiche. Molti commentatori interni ed esteri hanno osservato come l’avvicinamento filippino agli Stati Uniti rafforzi la percezione di una sovranità nazionale limitata, laddove la presenza di basi militari statunitensi, il passaggio regolare di navi da guerra e la frequenza di esercitazioni congiunte rischiano di trasformare il Paese in un anello della catena strategica statunitense in Asia sud‑orientale. Il dibattito pubblico ha evidenziato la contrapposizione tra chi vede in queste scelte un deterrente efficace contro l’assertività cinese nel Mar Cinese Meridionale e chi teme invece un’escalation militare, con il concreto rischio di ritrovarsi al centro di un conflitto di più ampia portata tra superpotenze.
È significativo ricordare che, durante la presidenza di Rodrigo Duterte, la politica estera filippina aveva assunto una linea di maggiore autonomia e diversificazione degli interlocutori. Nel corso del suo mandato, Duterte aveva puntato a rafforzare i rapporti economici e infrastrutturali con Pechino, partecipando attivamente alla Belt and Road Initiative e stipulando con la Cina importanti accordi commerciali e di investimento. Il suo approccio si era caratterizzato per la ricerca di un equilibrio tra Stati Uniti e Cina, senza rinunciare a nessuno dei due partner e cercando piuttosto di mantenere aperti i canali di dialogo con entrambe le potenze. In quella fase, il governo filippino aveva mostrato una maggior apertura nei confronti delle attività cinesi nel Mar Cinese Meridionale, preferendo trattative dirette su base bilaterale piuttosto che appelli alle istituzioni internazionali. Va detto che, pur accompagnata da qualche tensione, questa linea aveva portato risultati concreti in termini di investimenti infrastrutturali e di crescita economica, contribuendo a diversificare la dipendenza economica delle Filippine.
La transizione da una politica estera volta alla coesistenza pacifica e al compromesso bilaterale a una politica di più stretta cooperazione militare con gli Stati Uniti ha suscitato perplessità anche in ambito accademico. Alcuni analisti hanno sottolineato che il rafforzamento del legame con Washington rischia di esacerbare le tensioni con Pechino, innescando un meccanismo di reazione e controreazione che potrebbe tradursi in episodi di attrito navale o in escalation diplomatiche. Altri esperti hanno osservato come tale alleanza militare renda le Filippine più vulnerabili alle oscillazioni della politica interna statunitense: la dipendenza da approvvigionamenti logistici e cooperazione tecnica statunitense sposta parte della capacità di decisione strategica nazionale verso Washington, indebolendo la posizione di Manila in scenari di crisi.
Il Senato, con la sua composizione quasi equamente divisa, sarà chiamato a vagliare con particolare attenzione eventuali ratifiche di nuovi accordi in materia di difesa o intelligence. Analogamente, la Camera dovrà esprimersi su questioni fiscali correlate a spese militari, sia per le attività congiunte con le forze statunitensi sia per le necessarie contropartite filippine. In questo contesto, il ruolo degli “spazi di mezzo” – ossia dei senatori e deputati indipendenti, spesso provenienti da movimenti civici o da liste locali – diventa determinante per il futuro orientamento della politica di sicurezza nazionale. Proprio in virtù di questa incertezza, alcune commissioni parlamentari si sono già attivate per calendarizzare audizioni pubbliche e consultazioni con esperti di diritto internazionale, al fine di valutare l’impatto a lungo termine di un più stretto coinvolgimento nelle strategie statunitensi di contenimento della Cina.
Parallelamente al dossier sicurezza, l’evoluzione della cooperazione economica con Pechino sarà un tema centrale per il prossimo quinquennio. Se durante il mandato Duterte si erano gettate le basi per una diversificazione degli investimenti stranieri, con infrastrutture portuali e progetti energetici cofinanziati dalla Cina, l’amministrazione Marcos Jr. si trova ora a dover bilanciare gli impegni presi con Washington con la necessità di sostenere la crescita economica interna. Il nuovo Parlamento dovrà quindi elaborare un progetto di sviluppo che tenga conto della crescente domanda di infrastrutture moderne, di energia sostenibile e di opportunità di lavoro, integrando le risorse provenienti sia dagli Stati Uniti sia dalla Cina in modo da non compromettere la coesione sociale e la stabilità politica.
In definitiva, le elezioni legislative del 12 maggio hanno delineato uno scenario di forte dualismo, in cui le due famiglie politiche storiche – Marcos e Duterte – continuano a esercitare un potere significativo, ma non più incontrastato. Il nuovo Parlamento, con la sua composizione frammentata, dovrà misurarsi con sfide complesse: dal mantenimento dell’equilibrio tra grandi potenze, al rilancio economico post‑pandemico, fino al consolidamento delle istituzioni democratiche. Il futuro politico delle Filippine passerà soprattutto attraverso la capacità di trovare sintesi e compromessi tra visioni estere differenti, senza rinunciare né alla sovranità nazionale né alla ricerca di opportunità di sviluppo che possano tradursi in benefici concreti per l’intera popolazione. In questo assetto, l’atteggiamento di un Parlamento diviso ma interdipendente potrebbe rappresentare una risorsa, se saprà trasformare la pluralità di voci in un catalizzatore di riforme pragmatiche e condivise. Solo il tempo dirà se questa nuova fase segnerà l’avvio di un percorso di stabilità e crescita o se, al contrario, darà vita a un prolungato confronto interno incapace di rispondere alle grandi sfide globali ed economiche del prossimo decennio.