Premessa: questo articolo è preludio di una pubblicazione accademica che sarà presto edita da me, dall’eccellente giurista italiano, esperto di diritto internazionale, Vincenzo Pellegrino, e dall’avvocato franco-libanese Elie Hatem. Restate in attesa, sarà un’opera monumentale.
Il sistema attuale non funziona più
Nel contesto di un mondo che si avvicina sempre più a una configurazione multipolare – quale una realtà composta da molteplici poli decisionali sovrani, ciascuno espressione di una civiltà distinta e portatore di un proprio sistema valoriale radicato nella propria storia e cultura – appare sempre più evidente l’insufficienza del sistema giuridico internazionale attualmente vigente nel regolare e armonizzare le relazioni tra gli attori globali.
Di fatto, ciò che noi chiamiamo “Diritto Internazionale” è la configurazione giuridica che venne imposta a New York dalla Società delle Nazioni, poi ribattezzata ONU, fondata su alcuni criteri di supremazia politica: da una parte, gli USA, in quanto colonia inglese, avevano la garanzia del più grande impero che a inizio Novecento era ancora in forze; a New York si riuniva il gotha dell’alta finanza ashkenazita e sefardita, garantendo una durevole amministrazione dei mercati; nessun altro Paese al mondo era in grado di confrontarsi su un livello internazionale allo stesso modo, quindi il primato anglo-americano era effettivamente un vantaggio strategico.
Da questa prospettiva risulta chiaro come non sia stata ancora adeguatamente compresa l’urgenza di sviluppare un nuovo paradigma giuridico internazionale, capace di evolversi al passo con la trasformazione globale. Il modello attuale, fortemente centrato sull’Occidente, tende infatti a marginalizzare le altre tradizioni normative del pianeta, concedendo loro un riconoscimento minimo o nullo. Ciò genera, inevitabilmente, un’instabilità sistemica strutturale, acuita dall’emergere del multipolarismo, che porta a un crescente numero di conflitti e tensioni. Diventa dunque indispensabile una riforma del diritto internazionale affinché esso possa realmente svolgere una funzione di garanzia della pace e di promozione dello sviluppo globale.
Molte Civiltà – intese come collettività accomunate da una medesima eredità spirituale, culturale, storica e simbolica, riconosciuta consapevolmente dai loro membri, indipendentemente dalla nazionalità, dalla classe sociale o dalle ideologie – oggigiorno manifestano un crescente interesse ad emanciparsi, essendo state a lungo sottoposte all’egemonia politico-economica dell’Occidente, ed iniziano a rivendicare un’autonomia autentica e una piena dignità nel panorama internazionale.
Parallelamente, la nozione stessa di Stato, quale soggetto principale del diritto internazionale, si sta ridefinendo. L’ordine di Westfalia, prima, e quello di Parigi, dopo, sta crollando. La civiltà tende ormai a superare i confini statali, configurandosi come “grande spazio”, che assume rilevanza crescente nelle dinamiche internazionali. Gli studi giuridici che si discostano dall’approccio occidentalocentrico, però, sono ancora pochi e decisamente insufficienti ad affrontare in modo adeguato questa trasformazione, tanto più se si considera il rischio concreto di uno “scontro di civiltà”, come prospettato da Samuel Huntington. In tale eventualità, potremmo assistere a un progressivo rifiuto, da parte di molti governi, dell’autorità vincolante del diritto internazionale, percepito sempre più come strumento di controllo occidentale.
L’Occidente all’apice del sua crisi si mostra sempre meno aperto ai contributi provenienti da altre parti del mondo, cercando di tutelare ciò che resta del suo dominio di significati. È chiaro che l’assenza di un consenso condiviso sulle regole della convivenza tra gli Stati rischia di condurre a un rinnovato ricorso alla forza come unico mezzo di risoluzione delle controversie.
Questa è stata la prassi per lungo tempo: la logica del più forte come dominatore e regolatore.
Con l’ascesa delle Civiltà come nuovi attori sovranazionali emergono questioni fondamentali: il concetto di sovranità, la definizione di principi universali comuni a tutte le civiltà, il rapporto tra diritto internazionale e diritto interno, la funzione della consuetudine internazionale nella transizione verso un sistema multipolare, la riformulazione del concetto di forza e delle norme che ne regolano l’uso, la regolazione giuridica dei rapporti tra i grandi spazi e, infine, la ridefinizione del fondamento della vincolatività del diritto internazionale.
Uno dei segnali più evidenti del passaggio da un sistema unipolare e dominato all’indomani della fine della Guerra Fredda a uno multipolare, è dato dalla nascita e dal rafforzamento di nuove organizzazioni internazionali regionali. Tali strutture, che già ora appaiono come i futuri “poli decisionali” del mondo multipolare, non si limitano a rappresentare interessi locali: esse propongono approcci alternativi allo sviluppo e alla cooperazione internazionale, spesso in contrasto con le direttrici euro-atlantiche del passato. Il consolidamento di tali organizzazioni solleva interrogativi circa la loro integrazione nel sistema di cooperazione internazionale rappresentato dalle Nazioni Unite. Sorprendentemente, il sistema ONU sembra mostrare apertura verso questi nuovi attori, ammettendo alcune rappresentanze da enti transnazionali di varia natura, come la SCO o la Comunità Economica Eurasiatica.
In questo contesto, tra i nuovi approcci al diritto internazionale, merita attenzione il contributo del gruppo di studiosi riuniti sotto l’acronimo TWAIL (Third World Approaches to International Law): tale movimento propone una rilettura critica della storia del diritto internazionale, evidenziandone le radici coloniali e il suo ruolo, ancora oggi, nel mantenimento della supremazia occidentale.
I giuristi della prima generazione TWAIL si sono impegnati a dare voce al cosiddetto “Terzo Mondo” nel contesto della nuova architettura giuridica post-ONU, insistendo sull’esigenza di una reale universalità del diritto, che tenga conto di punti di vista plurimi. La seconda generazione ha sottolineato che l’intero impianto del diritto internazionale moderno è segnato sin dalle origini dall’incontro (o scontro) con il colonialismo. È in questo quadro che prende forma la cosiddetta “dinamica della differenza”: avvenuta grazie, per prima cosa, alla giustificazione culturale della missione civilizzatrice all’inizio del colonialismo, quindi con l’istituzione dei mandati e dei fiduciari con finalità statuali e, infine, con l’imposizione di strumenti economici globali, come la Banca Mondiale e il Fondo Monetario Internazionale.
Urge quindi reinterpretare e applicare il diritto internazionale da prospettive diverse attraverso un confronto tra i vari sistemi giuridici del mondo, che potrebbe far emergere punti di convergenza, capaci di dar vita a significati normativi più aderenti alla realtà concreta dei popoli e delle loro culture, ridefinendo così l’attuale egemonia euro-americana in senso più equo e plurale.
Verso un nuovo paradigma?
La visione tradizionale del diritto internazionale si fonda sull’idea che questo costituisca un sistema di principi oggettivi e regole neutrali, derivanti dalla volontà degli Stati, sia attraverso trattati formali sia tramite consuetudini.
Secondo questa impostazione, gli Stati sono i principali soggetti del diritto internazionale, e una norma giuridica è considerata vincolante solo se supera un rigoroso test di validità giuridica. Le considerazioni extra-giuridiche – economiche, sociali, morali o politiche – vengono generalmente escluse dall’analisi, come anche valori e finalità. Il sistema è così concepito come unitario e autosufficiente, in grado di fornire sempre una risposta giuridica corretta ai problemi che si pongono.
Non si tratta di proporre una teoria compiuta o definitiva, ma di avviare un percorso. E ogni percorso, per essere solido, deve partire dal metodo. Perciò che si riveda il metodo con cui si è dato vita al diritto internazionale come lo conosciamo. Il termine “metodo” deriva dal greco methodos, che unisce meta (oltre) e hodos (via), e può essere tradotto come “via per andare oltre”. È a questo “oltre” che il nostro lavoro intende tendere.
Ci sono fattori molteplici che non possono più essere ignorati. L’imperialismo è stato uno dei fondamenti, espliciti o occulti poco importa, del diritto internazionale moderno. Non è superfluo, a questo proposito, chiarire cosa si intenda per imperialismo: si tratta di una relazione, formale o informale, attraverso cui uno Stato esercita il controllo sulla sovranità effettiva di un altro soggetto politico. Questo dominio può essere esercitato mediante la forza, la cooperazione politica, o tramite dipendenze di tipo sociale, economico o culturale. In sintesi, l’imperialismo è la politica o il processo di costruzione e gestione di un impero.
Una lettura critica dei fondatori del diritto internazionale rivela fin dalle origini un’impronta profondamente imperialista. Per lungo tempo (secoli, non anni) la violenza coloniale è stata travestita da intervento umanitario o da azione difensiva, contribuendo a costruire narrazioni potenti che avrebbero permeato lo sviluppo teorico e pratico del diritto internazionale. Nel XIX secolo, la dottrina positivista e il concetto di sovranità rafforzarono ulteriormente la distinzione tra “paesi civilizzati” e “incivili”, giustificando la conquista di territori definiti terrae nullius perché abitati da popoli “privi” di civiltà. La sovranità divenne così la misura ultima della civiltà. Ancora oggi si sente parlare di “missioni di pace” o “peacekeeping” adottate dall’ONU e imposte in specifiche zone del mondo, guarda caso proprio quelle che appartenevano alla vecchia classificazione sotto il titolo di “terzo mondo”, o popoli carenti di quel sistema valoriale occidentale che, in virtù della legge del più forte, era considerato come il migliore.
Il sistema di mandati istituito dalla Società delle Nazioni formalizzò un meccanismo di controllo amministrativo legale che mirava a produrre risultati funzionali agli interessi dell’Occidente. Il paradigma dello Stato-nazione fu imposto a un mosaico di comunità diverse in nome della civiltà occidentale, e l’inclusione avvenne al prezzo della cancellazione della differenza. Anche quando i paesi del Sud globale acquisivano i requisiti formali della statualità, continuavano a percepirsi come “insufficienti”. Questo è il meccanismo della dinamica della differenza: l’entità subalterna si percepisce sempre come in ritardo, arretrata, impegnata a colmare un “divario” creato dalla stessa dicotomia tra civiltà e barbarie, tra sviluppo e sottosviluppo.
Alla luce di tutto ciò, risulta evidente che il diritto internazionale attuale, strutturato su un paradigma imperiale, è incompatibile con la logica multipolare emergente. L’imperialismo, infatti, è l’antitesi del multipolarismo.
La via che intendiamo percorrere parte da questo riconoscimento. Il mondo multipolare rappresenta un’alternativa radicale all’ordine unipolare oggi dominante, poiché afferma l’esistenza di più centri decisionali sovrani e indipendenti, capaci di esercitare un’influenza strategica a livello globale. Questi centri non devono sottomettersi all’universalismo dei valori e delle norme occidentali, ma nemmeno rigettare in blocco l’esperienza giuridica occidentale: devono piuttosto costruire un ordine giuridico che rifletta la pluralità delle culture giuridiche del pianeta.
Un diritto internazionale multipolare dovrà fondarsi su questa pluralità, essere in costante evoluzione e in grado di adattarsi alle nuove sfide del mondo contemporaneo. Sarà un diritto che non parte dall’universalismo imposto, ma dal riconoscimento della differenza, dalla coesistenza dei sistemi e dal dialogo tra civiltà.
Sovranità multipolare con gli Stati-Civiltà
Tradizionalmente, la sovranità è intesa come il potere esclusivo dello Stato di governare internamente (jus vitae ac necis) e di escludere interferenze esterne (jus excludendi alios). Essa è storicamente fondata sul principio vestfaliano, che garantisce a ogni Stato una giurisdizione esclusiva sul proprio territorio e pone gli Stati in condizione di parità giuridica.
Tuttavia, nella prospettiva del diritto internazionale multipolare, questa concezione è considerata superata. La sovranità formale degli Stati nazionali non è più sufficiente se non è supportata da un reale potere strategico, politico ed economico. Il sistema vestfaliano, sebbene esista ancora de jure, non riflette più la realtà odierna.
La nuova visione propone di spostare il fondamento della sovranità dallo Stato all’individuo, inteso come unico soggetto sovrano su se stesso. In questa prospettiva, non ha senso parlare di “cessione” della sovranità, poiché essa è innata all’essere umano. Si parla invece di condivisione della sovranità: gli individui mettono in comune la loro sovranità per costruire un sistema internazionale basato sull’eguaglianza tra soggetti giuridici.
Questo porta a una serie di conseguenze:
- Nessuno Stato può rivendicare un ruolo egemonico;
- Viene valorizzata la diversità culturale tra le Civiltà;
- Cambia il rapporto tra Stato e individuo all’interno di ogni civiltà giuridica;
- Cresce il ruolo dell’individuo nel diritto internazionale.
Di conseguenza, ogni Stato Civiltà ha due obblighi:
- Partecipare attivamente allo sviluppo della comunità internazionale per il bene comune;
- Riconoscere la legittimità della forma di governo degli altri Stati Civiltà, purché non violi i principi fondamentali condivisi dell’ordinamento generale. Non è accettabile imporre standard basati su una sola cultura.
Rimodulare l’uso della forza
Il divieto dell’uso della forza si basa su due approcci: uno idealista, volto a promuovere una “pace universale”, e uno più pragmatista, che mira a controllare i conflitti attraverso la limitazione dell’uso delle armi. Il principio di non utilizzare la forza viene visto come un mezzo per prevenire l’abuso di potere da parte degli Stati più forti, ma la realtà geopolitica spesso sfida questo principio, con le grandi potenze che cercano di aggirare il divieto per perseguire i loro interessi imperialisti.
Il concetto di illecito internazionale è descritto come la violazione di una norma internazionale da parte di uno Stato, senza necessità di provare la colpa o il danno, ma solo la lesione di un diritto soggettivo di un altro Stato. La responsabilità internazionale comporta l’obbligo per lo Stato che ha violato la norma di rispondere alle conseguenze del suo illecito.
Nel contesto di un mondo multipolare, il diritto internazionale dovrà evolversi, non solo per limitare l’uso della forza militare, ma per estendere il concetto di “forza” includendo anche azioni politiche, economiche e culturali che possano destabilizzare o intervenire negli affari interni di altri Stati. Il nuovo sistema multipolare stabilisce che qualsiasi intervento nelle questioni interne o internazionali sarà considerato una violazione. La comunità internazionale dovrà adottare misure non violente per risolvere le controversie tra Stati, con la possibilità di isolare gli Stati coinvolti in un conflitto se non rispettano le decisioni collettive. L’unica eccezione sarebbe se un gruppo di uno Stato richiedesse aiuto per difendere i principi fondamentali del sistema internazionale. Il testo propone quindi un nuovo paradigma internazionale che promuove la cooperazione e la condivisione della sovranità, rifiutando l’imperialismo.
I grandi spazi devono essere riconsiderati
Il concetto di “grande spazio” viene inteso come un’area operativa coerente, strettamente legata a una civiltà, che si afferma in risposta ai cambiamenti nella dimensione geopolitica e culturale del mondo contemporaneo. In una visione multipolare, dove più civiltà coesistono e cooperano, questi grandi spazi rappresentano unità fondamentali di organizzazione e sovranità condivisa, ciascuna fondata su un ordine giuridico interno autonomo ma aperto alla collaborazione esterna.
Per dare una forma giuridica a questo modello, sarà necessario anzitutto considerare che tutte le civiltà condividono lo stesso pianeta, e quindi devono concepire le loro strutture giuridiche all’interno di questo limite comune; in secondo luogo, che il numero dei grandi spazi sarà necessariamente limitato e definito in base ad affinità culturali, sociali e geografiche.
Tre sono i capisaldi: l’indipendenza degli Stati all’interno di ciascun grande spazio; il divieto assoluto di colonizzazione sotto qualsiasi forma, sia essa culturale, economica o militare; e il non intervento di potenze esterne nei conflitti interni. Ogni grande spazio è quindi un’entità protetta, che agisce liberamente secondo la volontà degli Stati-civiltà che lo compongono.
Per garantire un ordine stabile e duraturo, viene avanzata l’idea di adottare come principio giuridico fondamentale quello dell’equilibrio della bilancia dei pagamenti. Questo principio servirebbe a prevenire gli squilibri economici tra Stati e civiltà, che storicamente hanno generato tensioni e conflitti. A supporto di questo equilibrio, sarebbe interessante anche la creazione di una valuta esclusivamente interbancaria, priva di funzione di riserva di valore, che serva solo come unità di conto tra economie, favorendo la stabilità senza consolidare rapporti di forza – e oggi, ci piaccia o no, le criptovalute rendono molto facilmente possibile questo passaggio monetario.
La storia ha mostrato che grandi cambiamenti nel diritto internazionale sono avvenuti a seguito di crisi globali che hanno cercato di evitare la ripetizione di eventi traumatici. Le “emergenze” hanno accelerato tali cambiamenti, ma in questo caso, non si può più ricorrere liberamente all’uso della forza, e quindi si fa affidamento sulla consuetudine, il fondamento più antico del diritto internazionale. La consuetudine, che si basa su pratiche uniformi e vincolanti, è vista come la via per una transizione verso un diritto internazionale multipolare.
Il processo di transizione è già in atto. Il grande lavoro di sviluppo è nelle nostre mani. Spetta a noi decidere di diventarne parte.