Quando l’incompetenza indossa il tailleur: anatomia di un potere educato, elegante e pericolosamente vuoto.
Rocco Valentino MOTTOLA
C’è, oggi, un’estetica particolare nel potere europeo: l’eleganza dell’inconsistenza. Una classe dirigente che, pur senza scandali clamorosi né sfoghi populisti, riesce nell’impresa di sembrare ogni giorno più lontana dalla storia e più vicina al marketing. Si veste bene, comunica meglio, governa poco. Ma soprattutto: pensa meno. E questa, nel nostro tempo, non è più una colpa, bensì un merito.
Al vertice di questa geometria dell’inefficacia svetta la figura di Ursula von der Leyen, presidente della Commissione europea per designazione celeste e conferma procedurale, protetta da uno scudo di parole alte e risultati modesti. Tedesca di nascita, tecnocrate per vocazione, ha attraversato la sua carriera politica come una danzatrice sul filo: mai un vero inciampo certo, ma anche mai un vero salto. Alla Difesa tedesca lasciò dietro di sé una scia di consulenze costose e una Bundeswehr ancora in cerca d’identità. In Europa ha perfezionato la coreografia: parole vuote in confezioni prestigiose, gesti solenni privi di sostanza, decisioni coraggiose quanto un algoritmo. È la personificazione di un’Europa che ha smesso di interrogarsi, e ha iniziato a recitare.
Accanto a lei ora si affaccia sulla scena la nuova plenipotenziaria della politica estera europea, Kaja Kallas, già primo ministro estone, recentemente promossa a simbolo del rigore russofobo di Bruxelles. La sua visione geopolitica pare provenire da un manuale della Guerra Fredda illustrato per bambini: i buoni da una parte, i cattivi dall’altra, e in mezzo solo sanzioni, armi, e parole roboanti sul destino dell’Occidente. Il fatto che l’Europa, nel frattempo, si stia impoverendo, disunendo e disorientando, è un dettaglio secondario. Ciò che conta è mantenere la postura morale, anche a costo di perdere il senso della realtà.
Ma qui non siamo solo di fronte a due nomi: von der Leyen e Kallas sono il sintomo di una più ampia e allarmante mutazione della governance europea. Una metamorfosi gentile, indolore, eppure irreversibile: dal governo alla gestione, dalla politica alla comunicazione, dal pensiero alla replica. In altre epoche, la mediocrità al potere produceva tragedie. Oggi produce conferenze stampa.
La nuova élite europea educata, anglofona, inclusiva e transatlantica, ha imparato tutto ciò che serve per non sbagliare mai, ma ha dimenticato tutto ciò che serve per decidere davvero. Si affida alla simulazione del dibattito, alla liturgia del consenso, alla burocrazia come alibi e al moralismo come scudo. Ha sostituito la visione con la procedura, la complessità con la semplificazione etica, la memoria con l’hashtag.
Questa classe politica non è né cinica né corrotta nel senso classico: è convinta, sincera, persino devota. Ma proprio per questo è pericolosa. Perché crede profondamente nella bontà delle sue formule, nella nobiltà delle sue intenzioni, nella superiorità del suo vocabolario. E mentre l’Europa brucia, nei suoi margini geopolitici, nelle sue economie in crisi, nelle sue tensioni sociali, essa continua a raccontarsi favole sul futuro verde e digitale, sul soft power, sulla “resilienza”.
Intanto i cittadini europei, quelli reali, concreti, che non vivono nelle infografiche, vedono solo il vuoto mascherato da governance. Vedono i costi dell’energia salire, il lavoro precario cronicizzarsi, la sicurezza internazionale sgretolarsi sotto i proclami. E capiscono, lentamente, che l’Europa non è in buone mani. È in mani ferme, certo: ferme come l’inazione, come l’arroganza placida dell’ignoranza istituzionalizzata. Mani tragicamente scollegate dalla realtà.
Non è necessario evocare l’apocalisse né invocare sovranismi per comprendere la gravità della situazione. Basta osservare il volto sempre più affilato del potere europeo: un volto che non ha più rughe, ma nemmeno più espressioni. Nessun conflitto interno, nessun dissenso visibile. Solo armonia artificiale e perfezione formale. È l’epoca della “leadership dermatologica”: liscia, rassicurante, anestetizzata. Peccato che nel frattempo la storia, fuori dai palazzi di vetro, si stia facendo di nuovo feroce.
Ci si interroga allora se questa élite davvero non veda il precipizio che si sta aprendo davanti a sé. Forse sì, ma non può permettersi di rallentare. Forse no, perché accecata dal riflesso dorato della propria immagine. O più tragicamente forse se ne accorge e ride, come chi balla sull’orlo dell’abisso convinto che sia solo un palcoscenico.
Non resta che concludere con un pensiero adatto a questi tempi che si credono razionali e invece sono solo meccanici: non saranno i barbari a distruggere l’Europa. Saranno i suoi amministratori. I suoi zelanti tecnocrati, i suoi funzionari irreprensibili, i suoi moralisti inamidati. Saranno loro, proprio loro, a smontarla pezzo per pezzo, senza neppure rendersi conto che chiamano “governare” ciò che in realtà è solo l’arte raffinata del declino.
Articolo originale Notizie Geopolitiche