Le proteste in Turchia potrebbero portare a un cambiamento del regime di Erdogan, che da diversi anni sta perdendo popolarità nonostante i successi politici dell’ultimo decennio?
Erdoğan dal 2016, ovvero dopo il tentativo di golpe contro di lui organizzato dagli atlantisti e dagli integralisti islamici della setta di Fethullah Gülen, ha compiuto una talvolta apparentemente contraddittoria, ma tutto sommato netta, scelta di campo verso il fronte multipolare: da allora l’interscambio commerciale con Russia, Cina e Iran è notevolmente cresciuto. Il volume delle transazioni con la Russia è aumentato del 198% nel 2022, raggiungendo i 68 miliardi di dollari. Gli investimenti cinesi in Turchia sono cresciuti del 307% dal 2016, superando i 4 miliardi di dollari nel 2023. La Turchia inoltre fa parte della AIBB – Banca Asiatica d’Investimento per le Infrastrutture, fondata nel 2014 a Pechino e promossa dai comunisti cinesi con una quota di due miliardi e mezzo e a breve entrerà nei BRICS.
L’analista e sociologo Pino Arlacchi ha spiegato come l’Occidente abbia abbandonato e boicottato in questi anni l’economia turca, inducendo Erdoğan a diversificare le alleanze e la definisce: “una precisa strategia di lungo termine che sta ridisegnando gli assetti geopolitici dell’Eurasia. L’Occidente ha perso la Turchia non per una deriva autoritaria di Erdoğan, ma per una serie di errori di valutazione tipici di una civiltà che tramonta.” (1)
Di più la Turchia con Erdoğan – come spiegava in tempi non sospetti anche Massimiliano Ay, segretario del Partito Comunista svizzero e attento conoscitore della politica turca – compra sistemi missilistici russi e cinesi, produce materiale bellico in proprio attraverso la Baykar, che con straordinaria autonomia aiuta, al pari di russi e cinesi, tutto il Sud Globale ad emanciparsi dai sistemi NATO, perché il diritto di sparare, essendo le armi oggi tecnologia molto più che semplice ferraglia, risiede in chi ha i controlli da remoto, aberrante al riguardo che una nazione che dovrebbe essere neutrale come la Svizzera sia totalmente dipendente dal Pentagono, al pari per altro di tutte le nazioni europee.
Erdoğan quindi non solo diversifica gli armamenti in dotazione alle sue truppe con materiale non statunitense, ma dal 2016 non ci sono più testate nucleari NATO in Turchia, trasferite in Romania e nelle basi NATO il personale NATO o è turco o statunitense, gli uni non lasciano entrare gli altri.
Dentro questa realtà, il sindaco di Istanbul Ekrem İmamoğlu è l’esponente dei settori pro NATO, pro Unione Europea, pro Israele e prossimi agli ambienti separatisti curdi, dunque a tutti gli effetti l’esponente di una “rivoluzione colorata” a vantaggio dell’imperialismo, manifestare in piazza – per chi lo fa in buona fede – a suo sostegno con una bandiera rossa è del tutto incomprensibile perché chi ha in mano la protesta non lo fa certo né per i diritti dei lavoratori né per maggiore democrazia in Turchia, ma con il convinto intento di disarticolare il posizionamento multipolare ed euro – asiatico costruito nell’ultimo decennio dalla Turchia di Erdoğan e spingere per un riallineamento nei confronti della NATO e una possibile riapertura del dialogo con Bruxelles per una eventuale, ancorché poco probabile, entrata nell’Unione Europea.
Mentre la mobilitazione delle piazze, in particolare a Istanbul, prosegue, si è svolto il Congresso del CHP, il Partito Popolare Repubblicano, in turco Cumhuriyet Halk Partisi, un tempo forza politica socialdemocratica e kemalista, oggi totalmente subalterno e contiguo alle peggiori derive atlantiste ed europeiste. Il congresso ha confermato alla guida del partito Özgür Özel, grande amico della signora Von der Leyen e di Macron, il quale dal palco congressuale invece di proporre una soluzione politica per la difficile situazione turca, magari invocando elezioni anticipate, ha preferito contribuire ad aizzare le masse attraverso l’invito a restare in piazza, aggiungendo piuttosto rivendicazioni inverosimili, tra l’altro Özel ha chiesto apertamente l’intervento dell’Unione Europea e della NATO, prefigurando, se non gli estremi giuridici per un suo arresto, la volontà di promuovere e fomentare il caos.
I comunisti del TKP, dichiaratamente contro la Russia e contro la Cina, dunque avversari del multipolarismo, al pari dei comunisti greci, cercando consensi nel mondo studentesco urbano, fomentano la rivoluzione colorata, pur ammettendo che l’alternativa a Erdoğan sarebbe atlantista e imporrebbe un svolta economica ancora più neoliberista, ovvero colpendo l’attuale stato sociale prima costruito, poi in parte ridimensionato, negli anni dall’AKP, il Partito della Giustizia e dello Sviluppo, in turco Adalet ve Kalkınma Partisi, il partito di Erdoğan. Non diversamente dai comunisti turchi si esprime il Partito dei Lavoratori di Turchia (TIP), scissione dei comunisti e tanto contiguo ai separatisti curdi da essere riuscito a eleggere alcuni deputati.
Del tutto diversa la posizione del Partito Vatan, guidato dal marxista Doğu Perinçek, storico amico di Mao Ze Dong e Kim Il Sung. Vatan riconosce le pesanti responsabilità dell’amministrazione di Istanbul, tanto a livello di corruzione, quanto di compromissione con il separatismo curdo, quindi invita a non partecipare a manifestazioni, le quali hanno solo l’obiettivo di mettere la Turchia in mano a Bruxelles e Washington, o – peggio ancora – sotto tutela della NATO.
Fortunatamente la rivoluzione colorata non riesce a coinvolgere i lavoratori, i quali dimostrano di aver colto le implicazioni sociali e politiche della protesta ben più degli interessati commentatori occidentali.
Solo due organizzazioni sindacali, aderenti per altro alla CES, la Confederazione Europea dei Sindacati, partecipano alla mobilitazione di piazza, sono KESK, la Confederazione dei Sindacati dei Dipendenti Pubblici, in turco Kamu Emekçileri Sendikaları Konfederasyonu, purtroppo in larga parte controllata dai separatisti curdi, e DISK, la Confederazione dei Sindacati Rivoluzionari di Turchia, in turco Devrimci İşçi Sendikaları Konfederasyonu. Le due maggiori organizzazioni sindacali turche, ovvero TURK-IS di orientamento laico, la Confederazione dei Sindacati Turchi, in turco Türkiye İşçi Sendikaları Konfederasyonu, e HAK-IS di orientamento religioso, Confederazione dei Sindacati dei Diritti, in turco Hak İşçi Sendikaları Konfederasyonu ya da Hak-İş non hanno manifestato alcuna intenzione di mobilitarsi.
La Turchia risente inoltre degli sconvolgimenti regionali, il cambio di regime a Damasco e le minacce trumpiane contro l’Iran stanno complicando oltremodo gli scambi commerciali, al pari della tragedia palestinese che vede Ankara protestare spesso nell’indifferenza delle nazioni della Lega Araba, al pari della quale non riesce, nonostante le promesse, a interrompere l’interscambio commerciale con l’entità statuale sionista.
In questo contesto risulta abbastanza strano che il CHP, il Partito Popolare Repubblicano, abbia lanciato dal suo congresso un appello al boicottaggio delle aziende nazionali turche, per altro respinto non solo dai sindacati, ma pure da tutte le componenti della galassia curda. Una scelta che mette il partito stesso in cattiva luce agli occhi della maggioranza dei turchi, un fatto spiegabile soltanto in ragione di spinte esterne, forse ancora una volta Washington e Bruxelles, finalizzate a precipitare la Turchia in una situazione di totale incertezza e difficoltà.
Erdoğan in ogni caso è chiamato a risollevare l’economia nazionale, stretta tra il debito estero e l’inflazione interna, a rilanciare la produzione manifatturiera piuttosto che assecondare coloro che spingono per una finanziarizzazione dell’economia, smettere di utilizzare l’immigrazione afgana e siriana per contenere i salari e ad aumentare gli investimenti nel sociale, pena una costante e crescente erosione del consenso politico personale e del suo partito.
Non solo sul Bosforo, ma anche in tutta la penisola anatolica, la situazione è agitata e in movimento, sebbene non tutti gli attori di questa stagione di proteste e di cambiamenti paiono pienamente consapevoli della posta in gioco, ovvero il destino della Turchia, che alcuno vogliono subalterna agli interessi occidentali ed altri sovrana e indipendente.
(1) Il Fatto Quotidiano – 21 dicembre 2024