Italiano
Giacomo Gabellini
March 18, 2025
© Photo: Public domain

La Germania sta rivitalizzando la sua industria militare, riuscirà il nuovo governo a farne il motore dell’economia tedesca?

Segue nostro Telegram.

Il 27 febbraio 2022, ad appena tre giorni di distanza dall’avvio dell’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina, il cancelliere Olaf Scholz proclamò l’immediato adeguamento della spesa militare tedesca al limite minimo previsto dal Trattato del Nord Atlantico, nel contesto di un piano di riarmo da 102 miliardi di euro ancorato direttamente alla Costituzione tedesca.

L’annuncio segna una sorta di spartiacque storico (Zeitenwende), che conclude l’epoca post-bellica caratterizzata da un diffuso anti-militarismo e da un assai ridotto grado di legittimazione della Bundeswehr attraverso una scolta politica destinata a rendere il bilancio della difesa tedesco il terzo per dimensioni su scala globale, palesando urbi et orbi l’ambizione tedesca di costituire in maniera unilaterale uno strumento militare potente e soprattutto autonomo. Non necessariamente compatibile, cioè, con le regole “non scritte” della Nato, istituita nell’aprile del 1949 al fine, come spiegato dal primo segretario generale dell’organizzazione Lord Ismay, di «tenere i sovietici fuori [dall’Europa, nda], gli americani dentro e i tedeschi sotto» («to keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down»).

Il piano di riarmo definito da Berlino nel 2022 va tuttavia a innestarsi su un processo di espansione del bilancio della difesa risalente al 2015, che il governo guidato dal cancelliere Angela Merkel implementò parallelamente al progetto di costituzione di una forza di difesa comunitaria scollegata dalla Nato, di cui la Bundeswehr avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia. O meglio, una sorta di “ancora” (Ankerarmee) rispetto agli eserciti degli Stati limitrofi con cui le forze armate tedesche hanno sviluppato un elevato livello di cooperazione e interoperabilità e ai quali il complesso militar-industriale germanico (gravitante attorno alle imprese Baainw, ThyssenKrupp, Krauss Maffei Weigmann e Rheinmetall) fornisce parte importante delle attrezzature. Una menzione speciale spetta all’Olanda, la cui decisione di integrare due terzi delle proprie forze armate all’interno delle strutture militari tedesche potrebbe fungere da esempio per gli Stati mitteleuropei.

Il disegno tedesco ha subito una brusca accelerata a partire dai primi mesi del 2017, quando gli analisti della Bundeswehr consegnarono al governo uno studio in cui si esaminavano le tendenze geopolitiche in atto e il loro possibile impatto al 2040. «Der Spiegel», entrato in possesso del documento, rivelò in proposito che «la Bundeswehr ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni […]. Per la prima volta nella storia, questo documento della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire […]. In uno dei sei scenari prefigurati (La disintegrazione dell’Unione Europea e la Germania in modalità reattiva) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine […]. L’ampliamento dell’Unione Europea è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri Paesi hanno lasciato il blocco comunitario e l’Europa ha perso la sua competitività globale […]. Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa. Nel quinto scenario (Oriente contro Occidente), alcuni Paesi orientali dell’Unione Europea hanno bloccato il processo di integrazione europea mentre altri hanno già aderito al blocco orientale. Nel quarto scenario (Competizione multipolare) l’estremismo è in crescita, con una serie di Paesi europei che tendono ad avvicinarsi al modello di capitalismo statale vigente in Russia».

In tutti gli scenari presi in esame, la risposta caldeggiata dagli analisti della Bundeswehr alla prospettiva di un aumento del caos e della conflittualità internazionale consisteva nel potenziamento dell’esercito, da attuare attraverso il progressivo incremento delle spese militari inaugurato nel 2015 e l’inquadramento nei ranghi delle forze armate di cittadini di altri Paesi europei che risiedano da diversi anni in Germania. Secondo l’ex presidente Horst Kohler, si trattava di uno sforzo necessario per «un Paese delle nostre dimensioni, con il suo orientamento verso il commercio estero, e perciò dipendente dal commercio estero. Occorre essere consapevoli che, in caso di urgenza, si renderà necessario schierare l’esercito per difendere i nostri interessi, quali ad esempio proteggere le rotte del libero commercio o prevenire instabilità regionali che avrebbero un impatto negativo nei confronti della nostra capacità di salvaguardare il commercio, il lavoro e i salari».

Alcune personalità tedesche di spicco si sono persino spinte a caldeggiare la trasformazione della Bundesrepublik in una potenza atomica; vecchia aspirazione tramontata per effetto delle politiche condotte dal generale De Gaulle, la cui decisione di mettere autonomamente a punto la force de frappe aveva costretto la Germania ad accontentarsi della “condivisione nucleare” nell’ambito della Nato e del possibile coinvolgimento di Bonn nella pianificazione e nell’eventuale impiego di armi non convenzionali da parte dell’Alleanza Atlantica. «Al piccolo fantocciocommentò sarcasticamente Franz Josep Strauss nelle sue memorie – fu concesso di sfilare insieme alla fanfara militare con la sua tromba giocattolo, facendogli credere di suonare la grancassa». Un’umiliazione conclamata, che palesava lo status di Paese a sovranità limitata che rimaneva inchiodata la Germania nel periodo post-bellico. Viceversa, «l’indipendenza richiede che la Germania si doti di una deterrenza nucleare. La cosa rientra nei nostri vitali interessi nazionali», ha affermato pubblicamente il maggiore della Bundeswehr Maximilian Terhalle facendo eco al deputato della Cdu Roderich Kiewesetter (vicino al complesso militar-industriale tedesco) e al direttore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» Berthold Kohler. Nel novembre 2016, quest’ultimo aveva esortato i tedeschi a «pensare l’impensabile» alludendo proprio all’allestimento di un arsenale atomico tedesco. A sua volta, l’arma nucleare si sarebbe configurata come la punta di lancia dell’Ankerarmee, intesa come prolungamento militare della vecchia idea di Kerneuropa, rivisitata nel 2015 dal ministro della Difesa tedesco Ursula Von Der Leyen con l’espressione “guida dal centro” (Führung aus der Mitte) ispirata a sua volta al concetto di “potenza del centro” (Macht in der Mitte) coniato dallo storico e politologo Herfried Münkler.

Il quadro strategico dipinto dal conflitto russo-ucraino e dalla radicale alterazione della postura statunitense nei confronti dell’Europa varata sotto l’egida dell’amministrazione Trump, votata a un graduale disimpegno in omaggio a una visione che qualifica l’Alleanza Atlantica come una camicia di forza ormai anacronistica, rinvigoriscono in maniera decisiva queste tendenze, di cui il piano di riarmo varato da Scholz nel 2022 costituisce una trasposizione.

Stesso discorso vale per il programma da 900 miliardi di euro predisposto da Friedrich Merz, ex alto dirigente di BlackRock, esponente verticistico della Cdu e cancelliere in pectore. Nello specifico, si tratta di rimuovere i vincoli all’indebitamento integrati nel 2009 nella Legge Fondamentale della Repubblica per porre lo Stato nelle condizioni di raccogliere capitali da convogliare in due fondi d’investimento distinti: il primo dovrebbe occuparsi di manutenzione e ammodernamento delle infrastrutture mentre il secondo del potenziamento della Bundeswehr. La Bundesbank, dal canto suo, ha avanzato una proposta di riforma atta a incrementare significativamente le capacità di indebitamento di Berlino (dallo 0,35 all’1,4% del Pil) a condizione che il debito pubblico non superi la soglia del 60% del Pil. L’aggiustamento concepito dalla Banca Centrale tedesca, che autorizzerebbe il governo federale a contrarre prestiti aggiuntivi per un ammontare di circa 220 miliardi entro il 2030, non soddisfa tuttavia i requisiti minimi fissati da Merz, che necessita di una maggioranza qualificata al Bundestag per ottenere la convalida del suo ambizioso progetto.  La meticolosa opera di persuasione a cui i collaboratori del prossimo cancelliere stanno sottoponendo i rappresentanti di tutte le forze politiche tedesche nasce proprio dall’esigenza di sviluppare un consenso sufficientemente ampio attorno al programma, che mira palesemente a promuovere la transizione dell’apparato produttivo tedesco verso un’economia di guerra.

Detto in altri termini, la Cdu intende trasformare la spesa militare nel volano fondamentale per l’intero tessuto industriale tedesco, e potrebbe verosimilmente trovare nella Spd una valida sponda per conseguire l’obiettivo. Lo si evince dalle dichiarazioni formulate nel maggio 2024 dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, secondo cui il piano di riarmo predisposto dal suo governo risultava imprescindibile per rendere la Germania «pronta alla guerra entro il 2029», in quanto «non dobbiamo credere che Putin si fermerà ai confini dell’Ucraina». Occorre pertanto operare a fondo a livello di software (uomini ed equipaggiamento di base), dove la Bundeswehr rimane poco più di un’«accozzaglia di aggressivi campeggiatori», come la definì anni addietro un ufficiale britannico. Lo attesta un recente rapporto redatto dal Bundestag, in cui si denuncia una carenza cronica e strutturale di elmetti, giubbotti antiproiettile, giacche invernali, ecc. Il discorso cambia invece se si considera la struttura hardware (mezzi militari), destinata ad assorbire gran parte dei piani di riarmo tedeschi. Con effetti già rivelatisi assolutamente dirompenti. La società franco-tedesca Knds ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario per adattarlo alla produzione di veicoli blindati, collocandosi nel solco tracciato da Rheinmetall. Quest’ultima ha attuato un piano di conversione in fabbriche di armi e munizioni di due dei suoi impianti preposti alla produzione automobilistica. La decisione, spiegano i vertici dell’azienda, scaturisce dalla forte domanda di attrezzature belliche a livello sia domestico che internazionale, come certificato dall’aumento del suo utile operativo nel settore delle armi e munizioni (pressoché raddoppiato a 339 milioni di euro nei primi nove mesi del 2024) associato al calo del 3,8% registrato dalla divisione automobilistica. Volkswagen, identificata a livello globale come emblema della Germania, ha accusato una caduta di gran lunga più pesante (pari al 30,6% su base annua). Al punto da indurre i vertici dell’azienda ad annunciare la propria disponibilità a sostenere l’incremento della produzione bellica richiesto sia dai programmi tedeschi che da ReArm Europe, e a valutare l’opportunità di cedere alcuni stabilimenti inattivi di proprietà proprio a Rheinmetall, intenzionata a convertirli in fabbriche di materiale militare.

Segno che il comparto bellico sta affermandosi come vero e proprio driver della crescita a scapito dell’automotive, le cui filiere occupano oltre 13 milioni di lavoratori, generano circa l’8% del Pil dell’Unione Europea e sostengono il 32% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il settore automobilistico dipende tuttavia dalla domanda privata, flagellata su scala europea dalle politiche di compressione salariale imposte in omaggio al dogma ordoliberista e penalizzata a livello internazionale dai colpi di maglio inferti dagli Stati Uniti – già dall’epoca di Obama – all’assetto liberoscambista.

Sebbene non sia assolutamente in grado di assorbire il bacino di manodopera impiegato dall’industria automobilistica, il settore bellico offre il vantaggio di prosperare non sulla domanda privata, ma sulle commesse pubbliche. Cosa che comporta un ruolo più attivo dello Stato nel condizionamento dei processi economici, se non nel loro indirizzo tout court, ma non necessariamente una maggiore autonomia dell’Europa – e segnatamente della Germania – dagli Stati Uniti. Il caso di Rheinmetall, in proposito, risulta paradigmatico. Soltanto dall’inizio del 2025, l’azienda ha registrato una crescita azionaria del 92,2%, garantendo dividendi proporzionali a un azionariato composto in misura molto limitata da partecipazioni governative, e in larghissima parte da interessi finanziari europei ma anche statunitensi, riconducibili a colossi del calibro di BlackRock, Bank of America, Goldman Sachs e Capital Group. Una situazione analoga riguarda altre imprese europee della difesa e comunque connesse alla sfera della produzione bellica quali Airbus (12,6% da inizio anno), Kongsberg (27% da inizio anno), Bae Systems (41% da inizio anno), Rolls-Royce (41% da inizio anno), Dassault (45,5% da inizio anno), Saab (58% da inizio anno), Leonardo-Finmeccanica (73,3% da inizio anno) e Thales (76% da inizio anno). Alla penetrazione finanziaria statunitense corrisponde una saldatura – grazie al sistema del subappalto – tra le grandi aziende tedesche operanti nel settore bellico e il complesso militar-industriale Usa, a cui il governo di Berlino è legato da centinaia e centinaia di contratti.

Ne consegue che, agitando lo spauracchio russo, la Germania sta cercando di costruire consenso politico attorno a un progetto di riarmo continentale concepito o comunque destinato a spostare il baricentro dell’economia europea dal consumo privato alla asset price inflation trainata dalla spesa militare. Il tutto in conformità a un modello di (sotto)sviluppo dannoso per gli interessi dei cittadini, ma particolarmente vantaggioso per ristrette élite industriali del “vecchio continente” collegate alla finanza e al complesso militar-industriale d’oltreoceano.

La Germania trascina l’Europa verso un’economia di guerra

La Germania sta rivitalizzando la sua industria militare, riuscirà il nuovo governo a farne il motore dell’economia tedesca?

Segue nostro Telegram.

Il 27 febbraio 2022, ad appena tre giorni di distanza dall’avvio dell’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina, il cancelliere Olaf Scholz proclamò l’immediato adeguamento della spesa militare tedesca al limite minimo previsto dal Trattato del Nord Atlantico, nel contesto di un piano di riarmo da 102 miliardi di euro ancorato direttamente alla Costituzione tedesca.

L’annuncio segna una sorta di spartiacque storico (Zeitenwende), che conclude l’epoca post-bellica caratterizzata da un diffuso anti-militarismo e da un assai ridotto grado di legittimazione della Bundeswehr attraverso una scolta politica destinata a rendere il bilancio della difesa tedesco il terzo per dimensioni su scala globale, palesando urbi et orbi l’ambizione tedesca di costituire in maniera unilaterale uno strumento militare potente e soprattutto autonomo. Non necessariamente compatibile, cioè, con le regole “non scritte” della Nato, istituita nell’aprile del 1949 al fine, come spiegato dal primo segretario generale dell’organizzazione Lord Ismay, di «tenere i sovietici fuori [dall’Europa, nda], gli americani dentro e i tedeschi sotto» («to keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down»).

Il piano di riarmo definito da Berlino nel 2022 va tuttavia a innestarsi su un processo di espansione del bilancio della difesa risalente al 2015, che il governo guidato dal cancelliere Angela Merkel implementò parallelamente al progetto di costituzione di una forza di difesa comunitaria scollegata dalla Nato, di cui la Bundeswehr avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia. O meglio, una sorta di “ancora” (Ankerarmee) rispetto agli eserciti degli Stati limitrofi con cui le forze armate tedesche hanno sviluppato un elevato livello di cooperazione e interoperabilità e ai quali il complesso militar-industriale germanico (gravitante attorno alle imprese Baainw, ThyssenKrupp, Krauss Maffei Weigmann e Rheinmetall) fornisce parte importante delle attrezzature. Una menzione speciale spetta all’Olanda, la cui decisione di integrare due terzi delle proprie forze armate all’interno delle strutture militari tedesche potrebbe fungere da esempio per gli Stati mitteleuropei.

Il disegno tedesco ha subito una brusca accelerata a partire dai primi mesi del 2017, quando gli analisti della Bundeswehr consegnarono al governo uno studio in cui si esaminavano le tendenze geopolitiche in atto e il loro possibile impatto al 2040. «Der Spiegel», entrato in possesso del documento, rivelò in proposito che «la Bundeswehr ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni […]. Per la prima volta nella storia, questo documento della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire […]. In uno dei sei scenari prefigurati (La disintegrazione dell’Unione Europea e la Germania in modalità reattiva) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine […]. L’ampliamento dell’Unione Europea è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri Paesi hanno lasciato il blocco comunitario e l’Europa ha perso la sua competitività globale […]. Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa. Nel quinto scenario (Oriente contro Occidente), alcuni Paesi orientali dell’Unione Europea hanno bloccato il processo di integrazione europea mentre altri hanno già aderito al blocco orientale. Nel quarto scenario (Competizione multipolare) l’estremismo è in crescita, con una serie di Paesi europei che tendono ad avvicinarsi al modello di capitalismo statale vigente in Russia».

In tutti gli scenari presi in esame, la risposta caldeggiata dagli analisti della Bundeswehr alla prospettiva di un aumento del caos e della conflittualità internazionale consisteva nel potenziamento dell’esercito, da attuare attraverso il progressivo incremento delle spese militari inaugurato nel 2015 e l’inquadramento nei ranghi delle forze armate di cittadini di altri Paesi europei che risiedano da diversi anni in Germania. Secondo l’ex presidente Horst Kohler, si trattava di uno sforzo necessario per «un Paese delle nostre dimensioni, con il suo orientamento verso il commercio estero, e perciò dipendente dal commercio estero. Occorre essere consapevoli che, in caso di urgenza, si renderà necessario schierare l’esercito per difendere i nostri interessi, quali ad esempio proteggere le rotte del libero commercio o prevenire instabilità regionali che avrebbero un impatto negativo nei confronti della nostra capacità di salvaguardare il commercio, il lavoro e i salari».

Alcune personalità tedesche di spicco si sono persino spinte a caldeggiare la trasformazione della Bundesrepublik in una potenza atomica; vecchia aspirazione tramontata per effetto delle politiche condotte dal generale De Gaulle, la cui decisione di mettere autonomamente a punto la force de frappe aveva costretto la Germania ad accontentarsi della “condivisione nucleare” nell’ambito della Nato e del possibile coinvolgimento di Bonn nella pianificazione e nell’eventuale impiego di armi non convenzionali da parte dell’Alleanza Atlantica. «Al piccolo fantocciocommentò sarcasticamente Franz Josep Strauss nelle sue memorie – fu concesso di sfilare insieme alla fanfara militare con la sua tromba giocattolo, facendogli credere di suonare la grancassa». Un’umiliazione conclamata, che palesava lo status di Paese a sovranità limitata che rimaneva inchiodata la Germania nel periodo post-bellico. Viceversa, «l’indipendenza richiede che la Germania si doti di una deterrenza nucleare. La cosa rientra nei nostri vitali interessi nazionali», ha affermato pubblicamente il maggiore della Bundeswehr Maximilian Terhalle facendo eco al deputato della Cdu Roderich Kiewesetter (vicino al complesso militar-industriale tedesco) e al direttore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» Berthold Kohler. Nel novembre 2016, quest’ultimo aveva esortato i tedeschi a «pensare l’impensabile» alludendo proprio all’allestimento di un arsenale atomico tedesco. A sua volta, l’arma nucleare si sarebbe configurata come la punta di lancia dell’Ankerarmee, intesa come prolungamento militare della vecchia idea di Kerneuropa, rivisitata nel 2015 dal ministro della Difesa tedesco Ursula Von Der Leyen con l’espressione “guida dal centro” (Führung aus der Mitte) ispirata a sua volta al concetto di “potenza del centro” (Macht in der Mitte) coniato dallo storico e politologo Herfried Münkler.

Il quadro strategico dipinto dal conflitto russo-ucraino e dalla radicale alterazione della postura statunitense nei confronti dell’Europa varata sotto l’egida dell’amministrazione Trump, votata a un graduale disimpegno in omaggio a una visione che qualifica l’Alleanza Atlantica come una camicia di forza ormai anacronistica, rinvigoriscono in maniera decisiva queste tendenze, di cui il piano di riarmo varato da Scholz nel 2022 costituisce una trasposizione.

Stesso discorso vale per il programma da 900 miliardi di euro predisposto da Friedrich Merz, ex alto dirigente di BlackRock, esponente verticistico della Cdu e cancelliere in pectore. Nello specifico, si tratta di rimuovere i vincoli all’indebitamento integrati nel 2009 nella Legge Fondamentale della Repubblica per porre lo Stato nelle condizioni di raccogliere capitali da convogliare in due fondi d’investimento distinti: il primo dovrebbe occuparsi di manutenzione e ammodernamento delle infrastrutture mentre il secondo del potenziamento della Bundeswehr. La Bundesbank, dal canto suo, ha avanzato una proposta di riforma atta a incrementare significativamente le capacità di indebitamento di Berlino (dallo 0,35 all’1,4% del Pil) a condizione che il debito pubblico non superi la soglia del 60% del Pil. L’aggiustamento concepito dalla Banca Centrale tedesca, che autorizzerebbe il governo federale a contrarre prestiti aggiuntivi per un ammontare di circa 220 miliardi entro il 2030, non soddisfa tuttavia i requisiti minimi fissati da Merz, che necessita di una maggioranza qualificata al Bundestag per ottenere la convalida del suo ambizioso progetto.  La meticolosa opera di persuasione a cui i collaboratori del prossimo cancelliere stanno sottoponendo i rappresentanti di tutte le forze politiche tedesche nasce proprio dall’esigenza di sviluppare un consenso sufficientemente ampio attorno al programma, che mira palesemente a promuovere la transizione dell’apparato produttivo tedesco verso un’economia di guerra.

Detto in altri termini, la Cdu intende trasformare la spesa militare nel volano fondamentale per l’intero tessuto industriale tedesco, e potrebbe verosimilmente trovare nella Spd una valida sponda per conseguire l’obiettivo. Lo si evince dalle dichiarazioni formulate nel maggio 2024 dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, secondo cui il piano di riarmo predisposto dal suo governo risultava imprescindibile per rendere la Germania «pronta alla guerra entro il 2029», in quanto «non dobbiamo credere che Putin si fermerà ai confini dell’Ucraina». Occorre pertanto operare a fondo a livello di software (uomini ed equipaggiamento di base), dove la Bundeswehr rimane poco più di un’«accozzaglia di aggressivi campeggiatori», come la definì anni addietro un ufficiale britannico. Lo attesta un recente rapporto redatto dal Bundestag, in cui si denuncia una carenza cronica e strutturale di elmetti, giubbotti antiproiettile, giacche invernali, ecc. Il discorso cambia invece se si considera la struttura hardware (mezzi militari), destinata ad assorbire gran parte dei piani di riarmo tedeschi. Con effetti già rivelatisi assolutamente dirompenti. La società franco-tedesca Knds ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario per adattarlo alla produzione di veicoli blindati, collocandosi nel solco tracciato da Rheinmetall. Quest’ultima ha attuato un piano di conversione in fabbriche di armi e munizioni di due dei suoi impianti preposti alla produzione automobilistica. La decisione, spiegano i vertici dell’azienda, scaturisce dalla forte domanda di attrezzature belliche a livello sia domestico che internazionale, come certificato dall’aumento del suo utile operativo nel settore delle armi e munizioni (pressoché raddoppiato a 339 milioni di euro nei primi nove mesi del 2024) associato al calo del 3,8% registrato dalla divisione automobilistica. Volkswagen, identificata a livello globale come emblema della Germania, ha accusato una caduta di gran lunga più pesante (pari al 30,6% su base annua). Al punto da indurre i vertici dell’azienda ad annunciare la propria disponibilità a sostenere l’incremento della produzione bellica richiesto sia dai programmi tedeschi che da ReArm Europe, e a valutare l’opportunità di cedere alcuni stabilimenti inattivi di proprietà proprio a Rheinmetall, intenzionata a convertirli in fabbriche di materiale militare.

Segno che il comparto bellico sta affermandosi come vero e proprio driver della crescita a scapito dell’automotive, le cui filiere occupano oltre 13 milioni di lavoratori, generano circa l’8% del Pil dell’Unione Europea e sostengono il 32% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il settore automobilistico dipende tuttavia dalla domanda privata, flagellata su scala europea dalle politiche di compressione salariale imposte in omaggio al dogma ordoliberista e penalizzata a livello internazionale dai colpi di maglio inferti dagli Stati Uniti – già dall’epoca di Obama – all’assetto liberoscambista.

Sebbene non sia assolutamente in grado di assorbire il bacino di manodopera impiegato dall’industria automobilistica, il settore bellico offre il vantaggio di prosperare non sulla domanda privata, ma sulle commesse pubbliche. Cosa che comporta un ruolo più attivo dello Stato nel condizionamento dei processi economici, se non nel loro indirizzo tout court, ma non necessariamente una maggiore autonomia dell’Europa – e segnatamente della Germania – dagli Stati Uniti. Il caso di Rheinmetall, in proposito, risulta paradigmatico. Soltanto dall’inizio del 2025, l’azienda ha registrato una crescita azionaria del 92,2%, garantendo dividendi proporzionali a un azionariato composto in misura molto limitata da partecipazioni governative, e in larghissima parte da interessi finanziari europei ma anche statunitensi, riconducibili a colossi del calibro di BlackRock, Bank of America, Goldman Sachs e Capital Group. Una situazione analoga riguarda altre imprese europee della difesa e comunque connesse alla sfera della produzione bellica quali Airbus (12,6% da inizio anno), Kongsberg (27% da inizio anno), Bae Systems (41% da inizio anno), Rolls-Royce (41% da inizio anno), Dassault (45,5% da inizio anno), Saab (58% da inizio anno), Leonardo-Finmeccanica (73,3% da inizio anno) e Thales (76% da inizio anno). Alla penetrazione finanziaria statunitense corrisponde una saldatura – grazie al sistema del subappalto – tra le grandi aziende tedesche operanti nel settore bellico e il complesso militar-industriale Usa, a cui il governo di Berlino è legato da centinaia e centinaia di contratti.

Ne consegue che, agitando lo spauracchio russo, la Germania sta cercando di costruire consenso politico attorno a un progetto di riarmo continentale concepito o comunque destinato a spostare il baricentro dell’economia europea dal consumo privato alla asset price inflation trainata dalla spesa militare. Il tutto in conformità a un modello di (sotto)sviluppo dannoso per gli interessi dei cittadini, ma particolarmente vantaggioso per ristrette élite industriali del “vecchio continente” collegate alla finanza e al complesso militar-industriale d’oltreoceano.

La Germania sta rivitalizzando la sua industria militare, riuscirà il nuovo governo a farne il motore dell’economia tedesca?

Segue nostro Telegram.

Il 27 febbraio 2022, ad appena tre giorni di distanza dall’avvio dell’Operazione Militare Speciale russa in Ucraina, il cancelliere Olaf Scholz proclamò l’immediato adeguamento della spesa militare tedesca al limite minimo previsto dal Trattato del Nord Atlantico, nel contesto di un piano di riarmo da 102 miliardi di euro ancorato direttamente alla Costituzione tedesca.

L’annuncio segna una sorta di spartiacque storico (Zeitenwende), che conclude l’epoca post-bellica caratterizzata da un diffuso anti-militarismo e da un assai ridotto grado di legittimazione della Bundeswehr attraverso una scolta politica destinata a rendere il bilancio della difesa tedesco il terzo per dimensioni su scala globale, palesando urbi et orbi l’ambizione tedesca di costituire in maniera unilaterale uno strumento militare potente e soprattutto autonomo. Non necessariamente compatibile, cioè, con le regole “non scritte” della Nato, istituita nell’aprile del 1949 al fine, come spiegato dal primo segretario generale dell’organizzazione Lord Ismay, di «tenere i sovietici fuori [dall’Europa, nda], gli americani dentro e i tedeschi sotto» («to keep the Soviet Union out, the Americans in, and the Germans down»).

Il piano di riarmo definito da Berlino nel 2022 va tuttavia a innestarsi su un processo di espansione del bilancio della difesa risalente al 2015, che il governo guidato dal cancelliere Angela Merkel implementò parallelamente al progetto di costituzione di una forza di difesa comunitaria scollegata dalla Nato, di cui la Bundeswehr avrebbe dovuto rappresentare l’avanguardia. O meglio, una sorta di “ancora” (Ankerarmee) rispetto agli eserciti degli Stati limitrofi con cui le forze armate tedesche hanno sviluppato un elevato livello di cooperazione e interoperabilità e ai quali il complesso militar-industriale germanico (gravitante attorno alle imprese Baainw, ThyssenKrupp, Krauss Maffei Weigmann e Rheinmetall) fornisce parte importante delle attrezzature. Una menzione speciale spetta all’Olanda, la cui decisione di integrare due terzi delle proprie forze armate all’interno delle strutture militari tedesche potrebbe fungere da esempio per gli Stati mitteleuropei.

Il disegno tedesco ha subito una brusca accelerata a partire dai primi mesi del 2017, quando gli analisti della Bundeswehr consegnarono al governo uno studio in cui si esaminavano le tendenze geopolitiche in atto e il loro possibile impatto al 2040. «Der Spiegel», entrato in possesso del documento, rivelò in proposito che «la Bundeswehr ritiene che la fine dell’Occidente nella sua forma attuale sia una possibilità che potrebbe verificarsi entro i prossimi decenni […]. Per la prima volta nella storia, questo documento della Bundeswehr mostra come le tendenze nella società e i conflitti internazionali possano influenzare le politiche di sicurezza tedesche dei decenni a venire […]. In uno dei sei scenari prefigurati (La disintegrazione dell’Unione Europea e la Germania in modalità reattiva) gli autori ipotizzano una serie di “contrapposizioni multiple”. Le proiezioni future descrivono un mondo nel quale l’ordine internazionale sarà eroso dopo “decenni di instabilità”, i sistemi di valori globali divergeranno e la globalizzazione avrà termine […]. L’ampliamento dell’Unione Europea è stato un obiettivo per lo più abbandonato, già altri Paesi hanno lasciato il blocco comunitario e l’Europa ha perso la sua competitività globale […]. Un mondo sempre più caotico e propenso al conflitto ha mutato drasticamente il contesto della difesa per la Germania e l’Europa. Nel quinto scenario (Oriente contro Occidente), alcuni Paesi orientali dell’Unione Europea hanno bloccato il processo di integrazione europea mentre altri hanno già aderito al blocco orientale. Nel quarto scenario (Competizione multipolare) l’estremismo è in crescita, con una serie di Paesi europei che tendono ad avvicinarsi al modello di capitalismo statale vigente in Russia».

In tutti gli scenari presi in esame, la risposta caldeggiata dagli analisti della Bundeswehr alla prospettiva di un aumento del caos e della conflittualità internazionale consisteva nel potenziamento dell’esercito, da attuare attraverso il progressivo incremento delle spese militari inaugurato nel 2015 e l’inquadramento nei ranghi delle forze armate di cittadini di altri Paesi europei che risiedano da diversi anni in Germania. Secondo l’ex presidente Horst Kohler, si trattava di uno sforzo necessario per «un Paese delle nostre dimensioni, con il suo orientamento verso il commercio estero, e perciò dipendente dal commercio estero. Occorre essere consapevoli che, in caso di urgenza, si renderà necessario schierare l’esercito per difendere i nostri interessi, quali ad esempio proteggere le rotte del libero commercio o prevenire instabilità regionali che avrebbero un impatto negativo nei confronti della nostra capacità di salvaguardare il commercio, il lavoro e i salari».

Alcune personalità tedesche di spicco si sono persino spinte a caldeggiare la trasformazione della Bundesrepublik in una potenza atomica; vecchia aspirazione tramontata per effetto delle politiche condotte dal generale De Gaulle, la cui decisione di mettere autonomamente a punto la force de frappe aveva costretto la Germania ad accontentarsi della “condivisione nucleare” nell’ambito della Nato e del possibile coinvolgimento di Bonn nella pianificazione e nell’eventuale impiego di armi non convenzionali da parte dell’Alleanza Atlantica. «Al piccolo fantocciocommentò sarcasticamente Franz Josep Strauss nelle sue memorie – fu concesso di sfilare insieme alla fanfara militare con la sua tromba giocattolo, facendogli credere di suonare la grancassa». Un’umiliazione conclamata, che palesava lo status di Paese a sovranità limitata che rimaneva inchiodata la Germania nel periodo post-bellico. Viceversa, «l’indipendenza richiede che la Germania si doti di una deterrenza nucleare. La cosa rientra nei nostri vitali interessi nazionali», ha affermato pubblicamente il maggiore della Bundeswehr Maximilian Terhalle facendo eco al deputato della Cdu Roderich Kiewesetter (vicino al complesso militar-industriale tedesco) e al direttore della «Frankfurter Allgemeine Zeitung» Berthold Kohler. Nel novembre 2016, quest’ultimo aveva esortato i tedeschi a «pensare l’impensabile» alludendo proprio all’allestimento di un arsenale atomico tedesco. A sua volta, l’arma nucleare si sarebbe configurata come la punta di lancia dell’Ankerarmee, intesa come prolungamento militare della vecchia idea di Kerneuropa, rivisitata nel 2015 dal ministro della Difesa tedesco Ursula Von Der Leyen con l’espressione “guida dal centro” (Führung aus der Mitte) ispirata a sua volta al concetto di “potenza del centro” (Macht in der Mitte) coniato dallo storico e politologo Herfried Münkler.

Il quadro strategico dipinto dal conflitto russo-ucraino e dalla radicale alterazione della postura statunitense nei confronti dell’Europa varata sotto l’egida dell’amministrazione Trump, votata a un graduale disimpegno in omaggio a una visione che qualifica l’Alleanza Atlantica come una camicia di forza ormai anacronistica, rinvigoriscono in maniera decisiva queste tendenze, di cui il piano di riarmo varato da Scholz nel 2022 costituisce una trasposizione.

Stesso discorso vale per il programma da 900 miliardi di euro predisposto da Friedrich Merz, ex alto dirigente di BlackRock, esponente verticistico della Cdu e cancelliere in pectore. Nello specifico, si tratta di rimuovere i vincoli all’indebitamento integrati nel 2009 nella Legge Fondamentale della Repubblica per porre lo Stato nelle condizioni di raccogliere capitali da convogliare in due fondi d’investimento distinti: il primo dovrebbe occuparsi di manutenzione e ammodernamento delle infrastrutture mentre il secondo del potenziamento della Bundeswehr. La Bundesbank, dal canto suo, ha avanzato una proposta di riforma atta a incrementare significativamente le capacità di indebitamento di Berlino (dallo 0,35 all’1,4% del Pil) a condizione che il debito pubblico non superi la soglia del 60% del Pil. L’aggiustamento concepito dalla Banca Centrale tedesca, che autorizzerebbe il governo federale a contrarre prestiti aggiuntivi per un ammontare di circa 220 miliardi entro il 2030, non soddisfa tuttavia i requisiti minimi fissati da Merz, che necessita di una maggioranza qualificata al Bundestag per ottenere la convalida del suo ambizioso progetto.  La meticolosa opera di persuasione a cui i collaboratori del prossimo cancelliere stanno sottoponendo i rappresentanti di tutte le forze politiche tedesche nasce proprio dall’esigenza di sviluppare un consenso sufficientemente ampio attorno al programma, che mira palesemente a promuovere la transizione dell’apparato produttivo tedesco verso un’economia di guerra.

Detto in altri termini, la Cdu intende trasformare la spesa militare nel volano fondamentale per l’intero tessuto industriale tedesco, e potrebbe verosimilmente trovare nella Spd una valida sponda per conseguire l’obiettivo. Lo si evince dalle dichiarazioni formulate nel maggio 2024 dal ministro della Difesa tedesco Boris Pistorius, secondo cui il piano di riarmo predisposto dal suo governo risultava imprescindibile per rendere la Germania «pronta alla guerra entro il 2029», in quanto «non dobbiamo credere che Putin si fermerà ai confini dell’Ucraina». Occorre pertanto operare a fondo a livello di software (uomini ed equipaggiamento di base), dove la Bundeswehr rimane poco più di un’«accozzaglia di aggressivi campeggiatori», come la definì anni addietro un ufficiale britannico. Lo attesta un recente rapporto redatto dal Bundestag, in cui si denuncia una carenza cronica e strutturale di elmetti, giubbotti antiproiettile, giacche invernali, ecc. Il discorso cambia invece se si considera la struttura hardware (mezzi militari), destinata ad assorbire gran parte dei piani di riarmo tedeschi. Con effetti già rivelatisi assolutamente dirompenti. La società franco-tedesca Knds ha annunciato l’acquisizione di uno stabilimento ferroviario per adattarlo alla produzione di veicoli blindati, collocandosi nel solco tracciato da Rheinmetall. Quest’ultima ha attuato un piano di conversione in fabbriche di armi e munizioni di due dei suoi impianti preposti alla produzione automobilistica. La decisione, spiegano i vertici dell’azienda, scaturisce dalla forte domanda di attrezzature belliche a livello sia domestico che internazionale, come certificato dall’aumento del suo utile operativo nel settore delle armi e munizioni (pressoché raddoppiato a 339 milioni di euro nei primi nove mesi del 2024) associato al calo del 3,8% registrato dalla divisione automobilistica. Volkswagen, identificata a livello globale come emblema della Germania, ha accusato una caduta di gran lunga più pesante (pari al 30,6% su base annua). Al punto da indurre i vertici dell’azienda ad annunciare la propria disponibilità a sostenere l’incremento della produzione bellica richiesto sia dai programmi tedeschi che da ReArm Europe, e a valutare l’opportunità di cedere alcuni stabilimenti inattivi di proprietà proprio a Rheinmetall, intenzionata a convertirli in fabbriche di materiale militare.

Segno che il comparto bellico sta affermandosi come vero e proprio driver della crescita a scapito dell’automotive, le cui filiere occupano oltre 13 milioni di lavoratori, generano circa l’8% del Pil dell’Unione Europea e sostengono il 32% degli investimenti in ricerca e sviluppo. Il settore automobilistico dipende tuttavia dalla domanda privata, flagellata su scala europea dalle politiche di compressione salariale imposte in omaggio al dogma ordoliberista e penalizzata a livello internazionale dai colpi di maglio inferti dagli Stati Uniti – già dall’epoca di Obama – all’assetto liberoscambista.

Sebbene non sia assolutamente in grado di assorbire il bacino di manodopera impiegato dall’industria automobilistica, il settore bellico offre il vantaggio di prosperare non sulla domanda privata, ma sulle commesse pubbliche. Cosa che comporta un ruolo più attivo dello Stato nel condizionamento dei processi economici, se non nel loro indirizzo tout court, ma non necessariamente una maggiore autonomia dell’Europa – e segnatamente della Germania – dagli Stati Uniti. Il caso di Rheinmetall, in proposito, risulta paradigmatico. Soltanto dall’inizio del 2025, l’azienda ha registrato una crescita azionaria del 92,2%, garantendo dividendi proporzionali a un azionariato composto in misura molto limitata da partecipazioni governative, e in larghissima parte da interessi finanziari europei ma anche statunitensi, riconducibili a colossi del calibro di BlackRock, Bank of America, Goldman Sachs e Capital Group. Una situazione analoga riguarda altre imprese europee della difesa e comunque connesse alla sfera della produzione bellica quali Airbus (12,6% da inizio anno), Kongsberg (27% da inizio anno), Bae Systems (41% da inizio anno), Rolls-Royce (41% da inizio anno), Dassault (45,5% da inizio anno), Saab (58% da inizio anno), Leonardo-Finmeccanica (73,3% da inizio anno) e Thales (76% da inizio anno). Alla penetrazione finanziaria statunitense corrisponde una saldatura – grazie al sistema del subappalto – tra le grandi aziende tedesche operanti nel settore bellico e il complesso militar-industriale Usa, a cui il governo di Berlino è legato da centinaia e centinaia di contratti.

Ne consegue che, agitando lo spauracchio russo, la Germania sta cercando di costruire consenso politico attorno a un progetto di riarmo continentale concepito o comunque destinato a spostare il baricentro dell’economia europea dal consumo privato alla asset price inflation trainata dalla spesa militare. Il tutto in conformità a un modello di (sotto)sviluppo dannoso per gli interessi dei cittadini, ma particolarmente vantaggioso per ristrette élite industriali del “vecchio continente” collegate alla finanza e al complesso militar-industriale d’oltreoceano.

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.

See also

See also

The views of individual contributors do not necessarily represent those of the Strategic Culture Foundation.