Italiano
Lorenzo Maria Pacini
March 12, 2025
© Photo: Public domain

Gli Stati Uniti d’America sono il più grande teatro del mondo. Una stand up comedy a Cielo aperto. L’incontro di Zelensky con il nuovo governo americano ce ne ha dato un ulteriore esempio, tutto da gustare.

Segue nostro Telegram.

C’erano una volta Zelensky, Trump e Vence…

Abbiamo assistito ad uno dei teatrini più scabrosi della storia delle relazioni internazionali. Il Presidente Donald Trump e il Vicepresidente JD Vence da un angolo del ring, Volodymyr Zelensky all’altro angolo. Una battaglia impari, combattuta con una retorica animalesca, degna della politica americana che è fondata sulla prepotenza e la tracotanza.

Uno scambio di battute fatto davanti ad una sala gremita di giornalisti, pronti a cogliere ogni dettaglio in quel match che era una trappola ben organizzata, sia dall’una che dall’altra parte. Per Trump & Co era l’occasione di rispettare alcune delle promesse elettorali fatte riguardo l’impegno bellico americano, dovendo anche pensare a come ingraziarsi Putin in vista del 9 maggio, ed anche una mossa per lanciare un colpo ai cugini inglesi d’oltreoceano, nonché una mossa interna per scardinare alcuni dei mastini posizionati dalla precedente amministrazione (sebbene Zelensky non sia mai stato mal visto da Trump, anzi…). Per Zelensky era l’occasione di mettere in difficoltà Trump, o comunque di provarci.

Il fatto è che Trump è un troll, ha una retorica politica meritevole di una tavola calda americana, parla alla pancia della gente. Non proviene dal mondo della politica, è un businessman, un uomo d’affari, sa come andare al punto e non è solito rispettare i protocolli. Ha dimostrato in diverse occasioni, anche recenti, che facendo affari bene si ottengono favori politici in tutto il mondo. Questo sa fare, questo fa.

Diverso è Vence, che invece nasce come politico e che sarà un successore preparato. Lui ha un altro taglio, parla calibrando le parole diversamente e, probabilmente, ha ambizioni diverse da Trump. Vence nello scontro è stato molto più tagliente e spudorato. La sua aggressività, il timing con cui interveniva nel discorso, la puntualizzazione su alcuni aspetti di Zelensky usati come fallace per attaccarlo su misura, sono tutti elementi che fanno intendere uno studio molto preciso di quella che sarebbe dovuto accadere.

Zelensky, dal canto suo, ha interagito nel tentativo di trarre in trappola i suoi interlocutori, usando argomenti tanto banali da poter essere comprensibili solo come una strategia di stimolazione al ribasso. Probabilmente già sapeva l’esito fallimentare degli accordi militari. La sua presenza è stata più una questione di (pessimo) stile, dove il cattivo gusto già più volte evidenziato si è riaffermato fra provocazioni balbettate e una seria difficoltà a incassare i colpi sul ring.

L’evidente sconfitta di Zelensky è stata notata da tutti. Il punto è: se non avesse avuto intenzione di vincere, ma solo di presentarsi, fare la sua parte e poi tornare a Londra a fare rapporto?

Di sicuro sappiamo che questa scena resterà per sempre nella memori di miliardi di persone. L’Ucraina, sottoprodotto dell’occupazione militare e politica anglo-americana in Europa, è stata ridicolizzata dal suo presidente, Zelensky, che è stato riportato all’ordine dei suoi padroni.

Il significato politico

Pochissimi hanno colto il punto centrale dell’incontro Trump, Vance, Zelensky.

In primo luogo, appare evidente che i tentativi di mediazione di Macron, nonostante i sorrisi di facciata (ricordiamo che lo stesso Macron cercò di accodarsi a Trump già durante la sua prima presidenza), siano falliti in modo clamoroso. In secondo luogo, è fondamentale evidenziare il ruolo di Vance (vicepresidente particolarmente attivo e possibile successore di Trump).

I presunti valori democratici di cui Vance si fa portavoce sono solo una facciata e, come da tradizione, il governo USA si definisce “democratico”, ma in realtà è progettato per essere il meno democratico possibile. Non è un caso che tra i principali riferimenti ideologici di Vance ci sia Curtis Yarvin, il teorizzatore e sostenitore di una “dittatura industriale informale”.

Ancora una volta, non c’è nulla di particolarmente originale. Idee simili hanno attraversato tutta la storia degli Stati Uniti: il mito dell’efficienza tecno-industriale (il taylorismo) e quello della prosperità, dove il progressismo tecnico si fonde con il conservatorismo sociale. Per questo motivo, chi cerca di associare il movimento MAGA e le idee di Trump e Musk alle esperienze totalitarie europee del Novecento commette un errore evidente: il trumpismo è perfettamente in linea con la traiettoria storica degli Stati Uniti (non c’è nulla di rivoluzionario, se consideriamo che anche l’assalto al Congresso del 2020 ha un precedente storico legato alla presidenza di Andrew Jackson nel XIX secolo). Sul piano della propaganda, John Dewey aveva capito come questa potesse essere fondamentale per l’educazione delle masse.

L’altrettanto presunto isolazionismo trumpista merita un breve approfondimento. L’idea che gli Stati Uniti possano rinchiudersi in se stessi è fuorviante, dato che (storicamente) non l’hanno mai fatto completamente. Anche nel primo dopoguerra, quando la presidenza Hoover rifiutò il wilsonismo e l’ingresso nella Società delle Nazioni, gli Stati Uniti non erano affatto fuori dalla scena globale. Semplicemente, scelsero di agire in modo indipendente, senza aderire a strutture internazionali.

Vance afferma che gli Stati Uniti vogliono evitare la distruzione dell’Ucraina. Non c’è nulla di “umanitario” nella dichiarazione del vicepresidente. A prescindere dal fatto che la prima amministrazione Trump sia stata in gran parte responsabile del disastro ucraino, Vance ammette implicitamente che per gli USA è necessario negoziare ora (e arrivare a un accordo in tempi brevi) per evitare che la Russia ottenga troppo sul campo. Sul piano geopolitico, infatti, il proseguimento della guerra comporterebbe il rischio che Mosca isoli l’Ucraina dal Mar Nero.

Una possibilità da evitare assolutamente, poiché comprometterebbe gli interessi strategici a lungo termine degli Stati Uniti e rafforzerebbe notevolmente la posizione internazionale della Russia.

 

Prima Washington, poi Londra

Le immagini dei due eventi parlano da sole. Nel primo contesto a Washington, posture maschili, gambe larghe, atteggiamento da duri. Nel secondo, a Londra, Starmer con le gambe accavallate, stile signorina, una situazione più formale.

L’ambigua Europa ha optato per il secondo stile. In guerra proporranno di mandare zucchero filato e unicorni, sostenendo che i russi ne saranno terrorizzati.

La narrazione dominante è che l’Europa debba blindarsi contro l’espansionismo russo. L’Ucraina non può perdere, deve vincere, altrimenti Putin non si fermerà e arriverà in Portogallo. Così via con miliardi di sterline ed euro sottratti ai servizi pubblici per erigere la fortezza. Si parla di 800 miliardi di euro. Ottocento. Soldi per sanità, scuola, previdenza sociale non ci sono mai, ma per fare la guerra vengono trovati subito. Chissà come mai…

Lo spettacolo della visita di Zelensky alla Casa Bianca non è stato solo un disastro diplomatico, ma un brutale reality check sull’ordine mondiale che ha dominato per decenni. L’Occidente, un tempo avvolto nel linguaggio della “libertà” e della “democrazia”, ha finalmente gettato la maschera. Trump non ha nemmeno provato a fingere: l’Ucraina è merce di scambio, non un alleato. Ecco il destino di chi affida il proprio futuro a un impero in declino.

Le conseguenze di questo momento vanno oltre Kiev o Washington. Il mondo è già spaccato tra chi si aggrappa a un sistema unipolare morente e chi sta creando una nuova realtà multipolare. La frattura si allargherà, le alleanze si stringeranno e, mentre la disperazione porta a decisioni avventate, ci avviciniamo sempre più all’ultima grande guerra della nostra epoca.

Zelensky è stato insediato, nel post-Maidan che tutti conosciamo, con i fondi e sotto la guida del Dipartimento di Stato USA, nel le 2019, sotto la presidenza Trump. Sempre a Zelensky fu imposto di non negoziare con la Russia con un ordine impartito da Washington e sempre sotto Trump iniziarono i primi trasferimenti di armi NATO all’Ucraina.

Il fatto che Zelensky sia andato prima a Washington e poi a Londra, deve farci riflettere sui chi è il più importante dei due per lui o, forse, chi ci tiene di più a tenerlo ancora in vita, prima di farlo sparire nel baratro perché non più definitivamente utile.

L’Europa in attesa

Gli europei si sono resi conto di trovarsi in una posizione difficile senza nemmeno immaginare le conseguenze di opporsi a Trump. In ogni caso, hanno capito che non possono realmente sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia, nemmeno se volessero.

L’intento europeo e britannico era un parziale bluff, ossia sostenere il conflitto per un altro anno, o poco più, per spingere Putin a negoziare, cosa che Putin è già disposto a fare (ma solo secondo le sue condizioni, come accade ora, perché non c’è alcuna prospettiva che l’Ucraina, appoggiata dall’Europa, possa infliggere danni strategici alla Russia nel prossimo anno).

L’idea che tra un anno le condizioni sul campo possano favorire l’Ucraina nelle trattative è una falsa speranza degli europei, probabilmente una via di mezzo tra il tentativo di giustificarsi e l’avere una narrativa da presentare al pubblico. Anche se Starmer non è il più grande esperto di conflitti, credo che abbia capito bene che allungare la guerra di un anno non servirà a nulla, se non a causare altre centinaia di migliaia di morti per l’Ucraina.

Siamo quindi di fronte a un cinismo che cerca di continuare, ma allo stesso tempo c’è la necessità di convincere Zelensky a riaprire il dialogo con Trump, perché alla fine gli stessi europei non potranno vendere per sempre una guerra infinita e fallimentare alla propria opinione pubblica. Ci sono molte motivazioni ideologiche che spingono la classe dirigente europea, molto sensibile alla retorica del partito Democratico, a voler raccontare un’epopea ipocrita sulla loro lotta contro le “autocrazie” e il cattivo popolo russo, ma alla fine hanno anche paura di esporre la loro mancanza di consistenza politica. Sanno che dovranno trovare una via d’uscita, e con un minimo di buon senso, capiscono che devono sfruttare il tempo che hanno per cambiare la narrativa e spiegare alla popolazione che è ora di dialogare, cercando di far credere che la Russia non abbia realmente vinto. In questo scenario, i leader europei potrebbero possedere almeno un pizzico di buon senso pratico. Probabilmente ci possiamo aspettare un avvicinamento graduale alle posizioni della Casa Bianca, ma senza strappi evidenti: l’Europa  forse continuerà a finanziare gli sforzi bellici ucraini ancora per un po’, pena il ridicolo per i nostri politici. Sembra che non vogliano andare allo scontro diretto con Trump, o almeno così appare dalle recenti dichiarazioni di Starmer.

Quasi sicuramente, qualche politico europeo tenterà di sfruttare questa crisi della NATO per promuovere l’idea di una politica di difesa comune europea, processo di ulteriore cessione di sovranità di cui non si sente il bisogno.

Gli Stati Uniti, oggi, possono ancora negoziare da una posizione di forza relativa, nonostante abbiano necessità di farlo (più ancora della Russia, paradossalmente).

L’avventura politica di Zelensky è quasi certo che terminata qui. O si adeguerà alle direttive di Washington, o passerà sotto l’esclusiva di Londra. Questo poco importa. Il dato certo è che è riuscito a far sterminare una quantità incalcolabile di giovani cittadini, venendo celebrato in tutto l’Occidente come il paladino della libertà. L’unica libertà che ha conosciuto è stata quella di spendere soldi non suoi. E potrebbe darsi che fra poco finità pure quella.

L’Europa può ancora sperare nelle eclissi di prossimi giorni, nell’invasione aliena e nell’avvento del Kalki Avatara che fa surf sul Kali Yuga. Di sicuro non può sperare sui propri leader.

Il Grande Show deve andare avanti. Prendete i vostri posti, Signore e Signori. Lo spettacolo continua.

The Greatest Show must go on

Gli Stati Uniti d’America sono il più grande teatro del mondo. Una stand up comedy a Cielo aperto. L’incontro di Zelensky con il nuovo governo americano ce ne ha dato un ulteriore esempio, tutto da gustare.

Segue nostro Telegram.

C’erano una volta Zelensky, Trump e Vence…

Abbiamo assistito ad uno dei teatrini più scabrosi della storia delle relazioni internazionali. Il Presidente Donald Trump e il Vicepresidente JD Vence da un angolo del ring, Volodymyr Zelensky all’altro angolo. Una battaglia impari, combattuta con una retorica animalesca, degna della politica americana che è fondata sulla prepotenza e la tracotanza.

Uno scambio di battute fatto davanti ad una sala gremita di giornalisti, pronti a cogliere ogni dettaglio in quel match che era una trappola ben organizzata, sia dall’una che dall’altra parte. Per Trump & Co era l’occasione di rispettare alcune delle promesse elettorali fatte riguardo l’impegno bellico americano, dovendo anche pensare a come ingraziarsi Putin in vista del 9 maggio, ed anche una mossa per lanciare un colpo ai cugini inglesi d’oltreoceano, nonché una mossa interna per scardinare alcuni dei mastini posizionati dalla precedente amministrazione (sebbene Zelensky non sia mai stato mal visto da Trump, anzi…). Per Zelensky era l’occasione di mettere in difficoltà Trump, o comunque di provarci.

Il fatto è che Trump è un troll, ha una retorica politica meritevole di una tavola calda americana, parla alla pancia della gente. Non proviene dal mondo della politica, è un businessman, un uomo d’affari, sa come andare al punto e non è solito rispettare i protocolli. Ha dimostrato in diverse occasioni, anche recenti, che facendo affari bene si ottengono favori politici in tutto il mondo. Questo sa fare, questo fa.

Diverso è Vence, che invece nasce come politico e che sarà un successore preparato. Lui ha un altro taglio, parla calibrando le parole diversamente e, probabilmente, ha ambizioni diverse da Trump. Vence nello scontro è stato molto più tagliente e spudorato. La sua aggressività, il timing con cui interveniva nel discorso, la puntualizzazione su alcuni aspetti di Zelensky usati come fallace per attaccarlo su misura, sono tutti elementi che fanno intendere uno studio molto preciso di quella che sarebbe dovuto accadere.

Zelensky, dal canto suo, ha interagito nel tentativo di trarre in trappola i suoi interlocutori, usando argomenti tanto banali da poter essere comprensibili solo come una strategia di stimolazione al ribasso. Probabilmente già sapeva l’esito fallimentare degli accordi militari. La sua presenza è stata più una questione di (pessimo) stile, dove il cattivo gusto già più volte evidenziato si è riaffermato fra provocazioni balbettate e una seria difficoltà a incassare i colpi sul ring.

L’evidente sconfitta di Zelensky è stata notata da tutti. Il punto è: se non avesse avuto intenzione di vincere, ma solo di presentarsi, fare la sua parte e poi tornare a Londra a fare rapporto?

Di sicuro sappiamo che questa scena resterà per sempre nella memori di miliardi di persone. L’Ucraina, sottoprodotto dell’occupazione militare e politica anglo-americana in Europa, è stata ridicolizzata dal suo presidente, Zelensky, che è stato riportato all’ordine dei suoi padroni.

Il significato politico

Pochissimi hanno colto il punto centrale dell’incontro Trump, Vance, Zelensky.

In primo luogo, appare evidente che i tentativi di mediazione di Macron, nonostante i sorrisi di facciata (ricordiamo che lo stesso Macron cercò di accodarsi a Trump già durante la sua prima presidenza), siano falliti in modo clamoroso. In secondo luogo, è fondamentale evidenziare il ruolo di Vance (vicepresidente particolarmente attivo e possibile successore di Trump).

I presunti valori democratici di cui Vance si fa portavoce sono solo una facciata e, come da tradizione, il governo USA si definisce “democratico”, ma in realtà è progettato per essere il meno democratico possibile. Non è un caso che tra i principali riferimenti ideologici di Vance ci sia Curtis Yarvin, il teorizzatore e sostenitore di una “dittatura industriale informale”.

Ancora una volta, non c’è nulla di particolarmente originale. Idee simili hanno attraversato tutta la storia degli Stati Uniti: il mito dell’efficienza tecno-industriale (il taylorismo) e quello della prosperità, dove il progressismo tecnico si fonde con il conservatorismo sociale. Per questo motivo, chi cerca di associare il movimento MAGA e le idee di Trump e Musk alle esperienze totalitarie europee del Novecento commette un errore evidente: il trumpismo è perfettamente in linea con la traiettoria storica degli Stati Uniti (non c’è nulla di rivoluzionario, se consideriamo che anche l’assalto al Congresso del 2020 ha un precedente storico legato alla presidenza di Andrew Jackson nel XIX secolo). Sul piano della propaganda, John Dewey aveva capito come questa potesse essere fondamentale per l’educazione delle masse.

L’altrettanto presunto isolazionismo trumpista merita un breve approfondimento. L’idea che gli Stati Uniti possano rinchiudersi in se stessi è fuorviante, dato che (storicamente) non l’hanno mai fatto completamente. Anche nel primo dopoguerra, quando la presidenza Hoover rifiutò il wilsonismo e l’ingresso nella Società delle Nazioni, gli Stati Uniti non erano affatto fuori dalla scena globale. Semplicemente, scelsero di agire in modo indipendente, senza aderire a strutture internazionali.

Vance afferma che gli Stati Uniti vogliono evitare la distruzione dell’Ucraina. Non c’è nulla di “umanitario” nella dichiarazione del vicepresidente. A prescindere dal fatto che la prima amministrazione Trump sia stata in gran parte responsabile del disastro ucraino, Vance ammette implicitamente che per gli USA è necessario negoziare ora (e arrivare a un accordo in tempi brevi) per evitare che la Russia ottenga troppo sul campo. Sul piano geopolitico, infatti, il proseguimento della guerra comporterebbe il rischio che Mosca isoli l’Ucraina dal Mar Nero.

Una possibilità da evitare assolutamente, poiché comprometterebbe gli interessi strategici a lungo termine degli Stati Uniti e rafforzerebbe notevolmente la posizione internazionale della Russia.

 

Prima Washington, poi Londra

Le immagini dei due eventi parlano da sole. Nel primo contesto a Washington, posture maschili, gambe larghe, atteggiamento da duri. Nel secondo, a Londra, Starmer con le gambe accavallate, stile signorina, una situazione più formale.

L’ambigua Europa ha optato per il secondo stile. In guerra proporranno di mandare zucchero filato e unicorni, sostenendo che i russi ne saranno terrorizzati.

La narrazione dominante è che l’Europa debba blindarsi contro l’espansionismo russo. L’Ucraina non può perdere, deve vincere, altrimenti Putin non si fermerà e arriverà in Portogallo. Così via con miliardi di sterline ed euro sottratti ai servizi pubblici per erigere la fortezza. Si parla di 800 miliardi di euro. Ottocento. Soldi per sanità, scuola, previdenza sociale non ci sono mai, ma per fare la guerra vengono trovati subito. Chissà come mai…

Lo spettacolo della visita di Zelensky alla Casa Bianca non è stato solo un disastro diplomatico, ma un brutale reality check sull’ordine mondiale che ha dominato per decenni. L’Occidente, un tempo avvolto nel linguaggio della “libertà” e della “democrazia”, ha finalmente gettato la maschera. Trump non ha nemmeno provato a fingere: l’Ucraina è merce di scambio, non un alleato. Ecco il destino di chi affida il proprio futuro a un impero in declino.

Le conseguenze di questo momento vanno oltre Kiev o Washington. Il mondo è già spaccato tra chi si aggrappa a un sistema unipolare morente e chi sta creando una nuova realtà multipolare. La frattura si allargherà, le alleanze si stringeranno e, mentre la disperazione porta a decisioni avventate, ci avviciniamo sempre più all’ultima grande guerra della nostra epoca.

Zelensky è stato insediato, nel post-Maidan che tutti conosciamo, con i fondi e sotto la guida del Dipartimento di Stato USA, nel le 2019, sotto la presidenza Trump. Sempre a Zelensky fu imposto di non negoziare con la Russia con un ordine impartito da Washington e sempre sotto Trump iniziarono i primi trasferimenti di armi NATO all’Ucraina.

Il fatto che Zelensky sia andato prima a Washington e poi a Londra, deve farci riflettere sui chi è il più importante dei due per lui o, forse, chi ci tiene di più a tenerlo ancora in vita, prima di farlo sparire nel baratro perché non più definitivamente utile.

L’Europa in attesa

Gli europei si sono resi conto di trovarsi in una posizione difficile senza nemmeno immaginare le conseguenze di opporsi a Trump. In ogni caso, hanno capito che non possono realmente sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia, nemmeno se volessero.

L’intento europeo e britannico era un parziale bluff, ossia sostenere il conflitto per un altro anno, o poco più, per spingere Putin a negoziare, cosa che Putin è già disposto a fare (ma solo secondo le sue condizioni, come accade ora, perché non c’è alcuna prospettiva che l’Ucraina, appoggiata dall’Europa, possa infliggere danni strategici alla Russia nel prossimo anno).

L’idea che tra un anno le condizioni sul campo possano favorire l’Ucraina nelle trattative è una falsa speranza degli europei, probabilmente una via di mezzo tra il tentativo di giustificarsi e l’avere una narrativa da presentare al pubblico. Anche se Starmer non è il più grande esperto di conflitti, credo che abbia capito bene che allungare la guerra di un anno non servirà a nulla, se non a causare altre centinaia di migliaia di morti per l’Ucraina.

Siamo quindi di fronte a un cinismo che cerca di continuare, ma allo stesso tempo c’è la necessità di convincere Zelensky a riaprire il dialogo con Trump, perché alla fine gli stessi europei non potranno vendere per sempre una guerra infinita e fallimentare alla propria opinione pubblica. Ci sono molte motivazioni ideologiche che spingono la classe dirigente europea, molto sensibile alla retorica del partito Democratico, a voler raccontare un’epopea ipocrita sulla loro lotta contro le “autocrazie” e il cattivo popolo russo, ma alla fine hanno anche paura di esporre la loro mancanza di consistenza politica. Sanno che dovranno trovare una via d’uscita, e con un minimo di buon senso, capiscono che devono sfruttare il tempo che hanno per cambiare la narrativa e spiegare alla popolazione che è ora di dialogare, cercando di far credere che la Russia non abbia realmente vinto. In questo scenario, i leader europei potrebbero possedere almeno un pizzico di buon senso pratico. Probabilmente ci possiamo aspettare un avvicinamento graduale alle posizioni della Casa Bianca, ma senza strappi evidenti: l’Europa  forse continuerà a finanziare gli sforzi bellici ucraini ancora per un po’, pena il ridicolo per i nostri politici. Sembra che non vogliano andare allo scontro diretto con Trump, o almeno così appare dalle recenti dichiarazioni di Starmer.

Quasi sicuramente, qualche politico europeo tenterà di sfruttare questa crisi della NATO per promuovere l’idea di una politica di difesa comune europea, processo di ulteriore cessione di sovranità di cui non si sente il bisogno.

Gli Stati Uniti, oggi, possono ancora negoziare da una posizione di forza relativa, nonostante abbiano necessità di farlo (più ancora della Russia, paradossalmente).

L’avventura politica di Zelensky è quasi certo che terminata qui. O si adeguerà alle direttive di Washington, o passerà sotto l’esclusiva di Londra. Questo poco importa. Il dato certo è che è riuscito a far sterminare una quantità incalcolabile di giovani cittadini, venendo celebrato in tutto l’Occidente come il paladino della libertà. L’unica libertà che ha conosciuto è stata quella di spendere soldi non suoi. E potrebbe darsi che fra poco finità pure quella.

L’Europa può ancora sperare nelle eclissi di prossimi giorni, nell’invasione aliena e nell’avvento del Kalki Avatara che fa surf sul Kali Yuga. Di sicuro non può sperare sui propri leader.

Il Grande Show deve andare avanti. Prendete i vostri posti, Signore e Signori. Lo spettacolo continua.

Gli Stati Uniti d’America sono il più grande teatro del mondo. Una stand up comedy a Cielo aperto. L’incontro di Zelensky con il nuovo governo americano ce ne ha dato un ulteriore esempio, tutto da gustare.

Segue nostro Telegram.

C’erano una volta Zelensky, Trump e Vence…

Abbiamo assistito ad uno dei teatrini più scabrosi della storia delle relazioni internazionali. Il Presidente Donald Trump e il Vicepresidente JD Vence da un angolo del ring, Volodymyr Zelensky all’altro angolo. Una battaglia impari, combattuta con una retorica animalesca, degna della politica americana che è fondata sulla prepotenza e la tracotanza.

Uno scambio di battute fatto davanti ad una sala gremita di giornalisti, pronti a cogliere ogni dettaglio in quel match che era una trappola ben organizzata, sia dall’una che dall’altra parte. Per Trump & Co era l’occasione di rispettare alcune delle promesse elettorali fatte riguardo l’impegno bellico americano, dovendo anche pensare a come ingraziarsi Putin in vista del 9 maggio, ed anche una mossa per lanciare un colpo ai cugini inglesi d’oltreoceano, nonché una mossa interna per scardinare alcuni dei mastini posizionati dalla precedente amministrazione (sebbene Zelensky non sia mai stato mal visto da Trump, anzi…). Per Zelensky era l’occasione di mettere in difficoltà Trump, o comunque di provarci.

Il fatto è che Trump è un troll, ha una retorica politica meritevole di una tavola calda americana, parla alla pancia della gente. Non proviene dal mondo della politica, è un businessman, un uomo d’affari, sa come andare al punto e non è solito rispettare i protocolli. Ha dimostrato in diverse occasioni, anche recenti, che facendo affari bene si ottengono favori politici in tutto il mondo. Questo sa fare, questo fa.

Diverso è Vence, che invece nasce come politico e che sarà un successore preparato. Lui ha un altro taglio, parla calibrando le parole diversamente e, probabilmente, ha ambizioni diverse da Trump. Vence nello scontro è stato molto più tagliente e spudorato. La sua aggressività, il timing con cui interveniva nel discorso, la puntualizzazione su alcuni aspetti di Zelensky usati come fallace per attaccarlo su misura, sono tutti elementi che fanno intendere uno studio molto preciso di quella che sarebbe dovuto accadere.

Zelensky, dal canto suo, ha interagito nel tentativo di trarre in trappola i suoi interlocutori, usando argomenti tanto banali da poter essere comprensibili solo come una strategia di stimolazione al ribasso. Probabilmente già sapeva l’esito fallimentare degli accordi militari. La sua presenza è stata più una questione di (pessimo) stile, dove il cattivo gusto già più volte evidenziato si è riaffermato fra provocazioni balbettate e una seria difficoltà a incassare i colpi sul ring.

L’evidente sconfitta di Zelensky è stata notata da tutti. Il punto è: se non avesse avuto intenzione di vincere, ma solo di presentarsi, fare la sua parte e poi tornare a Londra a fare rapporto?

Di sicuro sappiamo che questa scena resterà per sempre nella memori di miliardi di persone. L’Ucraina, sottoprodotto dell’occupazione militare e politica anglo-americana in Europa, è stata ridicolizzata dal suo presidente, Zelensky, che è stato riportato all’ordine dei suoi padroni.

Il significato politico

Pochissimi hanno colto il punto centrale dell’incontro Trump, Vance, Zelensky.

In primo luogo, appare evidente che i tentativi di mediazione di Macron, nonostante i sorrisi di facciata (ricordiamo che lo stesso Macron cercò di accodarsi a Trump già durante la sua prima presidenza), siano falliti in modo clamoroso. In secondo luogo, è fondamentale evidenziare il ruolo di Vance (vicepresidente particolarmente attivo e possibile successore di Trump).

I presunti valori democratici di cui Vance si fa portavoce sono solo una facciata e, come da tradizione, il governo USA si definisce “democratico”, ma in realtà è progettato per essere il meno democratico possibile. Non è un caso che tra i principali riferimenti ideologici di Vance ci sia Curtis Yarvin, il teorizzatore e sostenitore di una “dittatura industriale informale”.

Ancora una volta, non c’è nulla di particolarmente originale. Idee simili hanno attraversato tutta la storia degli Stati Uniti: il mito dell’efficienza tecno-industriale (il taylorismo) e quello della prosperità, dove il progressismo tecnico si fonde con il conservatorismo sociale. Per questo motivo, chi cerca di associare il movimento MAGA e le idee di Trump e Musk alle esperienze totalitarie europee del Novecento commette un errore evidente: il trumpismo è perfettamente in linea con la traiettoria storica degli Stati Uniti (non c’è nulla di rivoluzionario, se consideriamo che anche l’assalto al Congresso del 2020 ha un precedente storico legato alla presidenza di Andrew Jackson nel XIX secolo). Sul piano della propaganda, John Dewey aveva capito come questa potesse essere fondamentale per l’educazione delle masse.

L’altrettanto presunto isolazionismo trumpista merita un breve approfondimento. L’idea che gli Stati Uniti possano rinchiudersi in se stessi è fuorviante, dato che (storicamente) non l’hanno mai fatto completamente. Anche nel primo dopoguerra, quando la presidenza Hoover rifiutò il wilsonismo e l’ingresso nella Società delle Nazioni, gli Stati Uniti non erano affatto fuori dalla scena globale. Semplicemente, scelsero di agire in modo indipendente, senza aderire a strutture internazionali.

Vance afferma che gli Stati Uniti vogliono evitare la distruzione dell’Ucraina. Non c’è nulla di “umanitario” nella dichiarazione del vicepresidente. A prescindere dal fatto che la prima amministrazione Trump sia stata in gran parte responsabile del disastro ucraino, Vance ammette implicitamente che per gli USA è necessario negoziare ora (e arrivare a un accordo in tempi brevi) per evitare che la Russia ottenga troppo sul campo. Sul piano geopolitico, infatti, il proseguimento della guerra comporterebbe il rischio che Mosca isoli l’Ucraina dal Mar Nero.

Una possibilità da evitare assolutamente, poiché comprometterebbe gli interessi strategici a lungo termine degli Stati Uniti e rafforzerebbe notevolmente la posizione internazionale della Russia.

 

Prima Washington, poi Londra

Le immagini dei due eventi parlano da sole. Nel primo contesto a Washington, posture maschili, gambe larghe, atteggiamento da duri. Nel secondo, a Londra, Starmer con le gambe accavallate, stile signorina, una situazione più formale.

L’ambigua Europa ha optato per il secondo stile. In guerra proporranno di mandare zucchero filato e unicorni, sostenendo che i russi ne saranno terrorizzati.

La narrazione dominante è che l’Europa debba blindarsi contro l’espansionismo russo. L’Ucraina non può perdere, deve vincere, altrimenti Putin non si fermerà e arriverà in Portogallo. Così via con miliardi di sterline ed euro sottratti ai servizi pubblici per erigere la fortezza. Si parla di 800 miliardi di euro. Ottocento. Soldi per sanità, scuola, previdenza sociale non ci sono mai, ma per fare la guerra vengono trovati subito. Chissà come mai…

Lo spettacolo della visita di Zelensky alla Casa Bianca non è stato solo un disastro diplomatico, ma un brutale reality check sull’ordine mondiale che ha dominato per decenni. L’Occidente, un tempo avvolto nel linguaggio della “libertà” e della “democrazia”, ha finalmente gettato la maschera. Trump non ha nemmeno provato a fingere: l’Ucraina è merce di scambio, non un alleato. Ecco il destino di chi affida il proprio futuro a un impero in declino.

Le conseguenze di questo momento vanno oltre Kiev o Washington. Il mondo è già spaccato tra chi si aggrappa a un sistema unipolare morente e chi sta creando una nuova realtà multipolare. La frattura si allargherà, le alleanze si stringeranno e, mentre la disperazione porta a decisioni avventate, ci avviciniamo sempre più all’ultima grande guerra della nostra epoca.

Zelensky è stato insediato, nel post-Maidan che tutti conosciamo, con i fondi e sotto la guida del Dipartimento di Stato USA, nel le 2019, sotto la presidenza Trump. Sempre a Zelensky fu imposto di non negoziare con la Russia con un ordine impartito da Washington e sempre sotto Trump iniziarono i primi trasferimenti di armi NATO all’Ucraina.

Il fatto che Zelensky sia andato prima a Washington e poi a Londra, deve farci riflettere sui chi è il più importante dei due per lui o, forse, chi ci tiene di più a tenerlo ancora in vita, prima di farlo sparire nel baratro perché non più definitivamente utile.

L’Europa in attesa

Gli europei si sono resi conto di trovarsi in una posizione difficile senza nemmeno immaginare le conseguenze di opporsi a Trump. In ogni caso, hanno capito che non possono realmente sostenere la guerra dell’Ucraina contro la Russia, nemmeno se volessero.

L’intento europeo e britannico era un parziale bluff, ossia sostenere il conflitto per un altro anno, o poco più, per spingere Putin a negoziare, cosa che Putin è già disposto a fare (ma solo secondo le sue condizioni, come accade ora, perché non c’è alcuna prospettiva che l’Ucraina, appoggiata dall’Europa, possa infliggere danni strategici alla Russia nel prossimo anno).

L’idea che tra un anno le condizioni sul campo possano favorire l’Ucraina nelle trattative è una falsa speranza degli europei, probabilmente una via di mezzo tra il tentativo di giustificarsi e l’avere una narrativa da presentare al pubblico. Anche se Starmer non è il più grande esperto di conflitti, credo che abbia capito bene che allungare la guerra di un anno non servirà a nulla, se non a causare altre centinaia di migliaia di morti per l’Ucraina.

Siamo quindi di fronte a un cinismo che cerca di continuare, ma allo stesso tempo c’è la necessità di convincere Zelensky a riaprire il dialogo con Trump, perché alla fine gli stessi europei non potranno vendere per sempre una guerra infinita e fallimentare alla propria opinione pubblica. Ci sono molte motivazioni ideologiche che spingono la classe dirigente europea, molto sensibile alla retorica del partito Democratico, a voler raccontare un’epopea ipocrita sulla loro lotta contro le “autocrazie” e il cattivo popolo russo, ma alla fine hanno anche paura di esporre la loro mancanza di consistenza politica. Sanno che dovranno trovare una via d’uscita, e con un minimo di buon senso, capiscono che devono sfruttare il tempo che hanno per cambiare la narrativa e spiegare alla popolazione che è ora di dialogare, cercando di far credere che la Russia non abbia realmente vinto. In questo scenario, i leader europei potrebbero possedere almeno un pizzico di buon senso pratico. Probabilmente ci possiamo aspettare un avvicinamento graduale alle posizioni della Casa Bianca, ma senza strappi evidenti: l’Europa  forse continuerà a finanziare gli sforzi bellici ucraini ancora per un po’, pena il ridicolo per i nostri politici. Sembra che non vogliano andare allo scontro diretto con Trump, o almeno così appare dalle recenti dichiarazioni di Starmer.

Quasi sicuramente, qualche politico europeo tenterà di sfruttare questa crisi della NATO per promuovere l’idea di una politica di difesa comune europea, processo di ulteriore cessione di sovranità di cui non si sente il bisogno.

Gli Stati Uniti, oggi, possono ancora negoziare da una posizione di forza relativa, nonostante abbiano necessità di farlo (più ancora della Russia, paradossalmente).

L’avventura politica di Zelensky è quasi certo che terminata qui. O si adeguerà alle direttive di Washington, o passerà sotto l’esclusiva di Londra. Questo poco importa. Il dato certo è che è riuscito a far sterminare una quantità incalcolabile di giovani cittadini, venendo celebrato in tutto l’Occidente come il paladino della libertà. L’unica libertà che ha conosciuto è stata quella di spendere soldi non suoi. E potrebbe darsi che fra poco finità pure quella.

L’Europa può ancora sperare nelle eclissi di prossimi giorni, nell’invasione aliena e nell’avvento del Kalki Avatara che fa surf sul Kali Yuga. Di sicuro non può sperare sui propri leader.

Il Grande Show deve andare avanti. Prendete i vostri posti, Signore e Signori. Lo spettacolo continua.

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March 9, 2025

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