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July 14, 2025
© Photo: Public domain

In Europa e in America oggi diventa pericoloso avere un’opinione alternativa

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Viviamo in un’epoca straordinaria. Un’epoca in cui si può dire tutto, purché coincida con la linea della Nato. In cui la libertà di parola è sacra, a patto che non sia esercitata. In cui il pacifismo è un reato e l’analisi geopolitica, se non proviene dal Pentagono o da una qualche ONG fotocopiata, è immediatamente bollata come disinformazione putiniana.

Siamo entrati nella stagione del monopolio psicologico della paura, versione aggiornata e corretta della dottrina Goebbels: non serve più urlare “al lupo!”; oggi basta dire “i russi!”. Funziona anche meglio.

L’arte di governare oggi non passa più per le urne, i programmi o le ideologie. Passa per il terrore. Terrore che arriva dallo spazio, dai Balcani, dalla Siria, dall’Ucraina, da Teheran, da Pyongyang, da Caracas e persino dalla Val Brembana, se necessario. L’importante è che faccia paura.

È una paura programmata, distribuita, incentivata, a volte anche in offerta speciale 3×2: “Acquista un drone Bayraktar e ricevi gratis il diritto di avere paura del prossimo conflitto nucleare”. Così si tiene buono il cittadino, si giustificano le spese folli in armi, si tacciono le spese in sanità, e si convince l’opinione pubblica che i carri armati sono più urgenti dei treni regionali.

Naturalmente c’è una regola d’oro: chi osa dire che l’imperatore è nudo, o peggio, che i missili ipersonici russi potrebbero non fermarsi al confine polacco se provocati, viene bollato immediatamente come nemico della democrazia. Anche solo ipotizzare che l’Italia, se entrasse in guerra con una potenza nucleare, farebbe la fine di Mariupol con l’aspettativa di vita di un paracadutista ucraino, è diventato un attentato alla sicurezza nazionale.

Eppure, a guardar bene, chi ha parlato per anni di pace è stato ignorato. Chi ha chiesto negoziati è stato ridicolizzato. Chi ha osato fare domande ha visto spegnersi il microfono, sparire l’invito, cancellarsi la rubrica. Il pluralismo si difende… con l’esclusione sistematica dei dissenzienti. Chi si ostina a ricordare che l’Italia ha partecipato a tutte le guerre americane dal 1999 in poi come utile idiota armato, viene trattato come un residuato bellico del ’68.

La realtà è che la politica estera italiana è in outsourcing. E non da oggi. Da almeno trent’anni, ogni volta che c’è da bombardare qualcuno, gli Stati Uniti fanno un fischio, e l’Italia corre con l’elmetto in mano, pronta a spedire qualche contingente a morire in missioni “di pace” che iniziano con i missili e finiscono con i funerali.

Ma guai a dire che siamo diventati una colonia armata senza sovranità. Bisogna credere che l’Europa si difende ammassando truppe ai confini della Russia. Che la pace si costruisce fornendo bombe a grappolo. Che la libertà si garantisce impedendo ai giornalisti di raccontare l’altro lato della storia.

Nel frattempo, la NATO – che nessuno vota e nessuno discute – si è trasformata in un parlamento armato della paura. Decide, pianifica, ammonisce e impone. E ogni volta che osa dire “l’Iran farà questo” o “la Russia farà quello”, l’Italia obbedisce. Non per convinzione, ma per riflesso condizionato: è la diplomazia della coda tra le gambe.

Il cittadino medio, intanto, vive nel terrore di morire per Teheran o per Dnipropetrovsk, mentre fa fatica a pagare la spesa. Ma se prova a chiedere: “Scusate, ma non sarebbe il caso di investire in sanità invece che in portaerei?”, lo zittiscono con l’accusa più infamante del nostro tempo: “filo-russo”. Non “ignorante”, non “illuso”, ma “filo-russo”. Come se fosse un reato pensare.

E così la guerra diventa normalità, la militarizzazione si fa etica, e la propaganda è il nuovo vangelo civile. Ma, per carità, continuiamo a parlare di “valori occidentali”.

Forse sarebbe il caso di dire le cose come stanno: l’Italia ha bisogno di una politica estera autonoma, di una difesa nazionale e non coloniale, di una narrazione meno isterica e più razionale.

E soprattutto, ha bisogno di riprendersi il diritto di avere paura solo quando è necessario. Non quando conviene a chi fabbrica armi e narrazioni.

Articolo originale La paura, la Nato e l’arte di governare col terrore | La Fionda

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La paura, la Nato e l’arte di governare col terrore

In Europa e in America oggi diventa pericoloso avere un’opinione alternativa

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Viviamo in un’epoca straordinaria. Un’epoca in cui si può dire tutto, purché coincida con la linea della Nato. In cui la libertà di parola è sacra, a patto che non sia esercitata. In cui il pacifismo è un reato e l’analisi geopolitica, se non proviene dal Pentagono o da una qualche ONG fotocopiata, è immediatamente bollata come disinformazione putiniana.

Siamo entrati nella stagione del monopolio psicologico della paura, versione aggiornata e corretta della dottrina Goebbels: non serve più urlare “al lupo!”; oggi basta dire “i russi!”. Funziona anche meglio.

L’arte di governare oggi non passa più per le urne, i programmi o le ideologie. Passa per il terrore. Terrore che arriva dallo spazio, dai Balcani, dalla Siria, dall’Ucraina, da Teheran, da Pyongyang, da Caracas e persino dalla Val Brembana, se necessario. L’importante è che faccia paura.

È una paura programmata, distribuita, incentivata, a volte anche in offerta speciale 3×2: “Acquista un drone Bayraktar e ricevi gratis il diritto di avere paura del prossimo conflitto nucleare”. Così si tiene buono il cittadino, si giustificano le spese folli in armi, si tacciono le spese in sanità, e si convince l’opinione pubblica che i carri armati sono più urgenti dei treni regionali.

Naturalmente c’è una regola d’oro: chi osa dire che l’imperatore è nudo, o peggio, che i missili ipersonici russi potrebbero non fermarsi al confine polacco se provocati, viene bollato immediatamente come nemico della democrazia. Anche solo ipotizzare che l’Italia, se entrasse in guerra con una potenza nucleare, farebbe la fine di Mariupol con l’aspettativa di vita di un paracadutista ucraino, è diventato un attentato alla sicurezza nazionale.

Eppure, a guardar bene, chi ha parlato per anni di pace è stato ignorato. Chi ha chiesto negoziati è stato ridicolizzato. Chi ha osato fare domande ha visto spegnersi il microfono, sparire l’invito, cancellarsi la rubrica. Il pluralismo si difende… con l’esclusione sistematica dei dissenzienti. Chi si ostina a ricordare che l’Italia ha partecipato a tutte le guerre americane dal 1999 in poi come utile idiota armato, viene trattato come un residuato bellico del ’68.

La realtà è che la politica estera italiana è in outsourcing. E non da oggi. Da almeno trent’anni, ogni volta che c’è da bombardare qualcuno, gli Stati Uniti fanno un fischio, e l’Italia corre con l’elmetto in mano, pronta a spedire qualche contingente a morire in missioni “di pace” che iniziano con i missili e finiscono con i funerali.

Ma guai a dire che siamo diventati una colonia armata senza sovranità. Bisogna credere che l’Europa si difende ammassando truppe ai confini della Russia. Che la pace si costruisce fornendo bombe a grappolo. Che la libertà si garantisce impedendo ai giornalisti di raccontare l’altro lato della storia.

Nel frattempo, la NATO – che nessuno vota e nessuno discute – si è trasformata in un parlamento armato della paura. Decide, pianifica, ammonisce e impone. E ogni volta che osa dire “l’Iran farà questo” o “la Russia farà quello”, l’Italia obbedisce. Non per convinzione, ma per riflesso condizionato: è la diplomazia della coda tra le gambe.

Il cittadino medio, intanto, vive nel terrore di morire per Teheran o per Dnipropetrovsk, mentre fa fatica a pagare la spesa. Ma se prova a chiedere: “Scusate, ma non sarebbe il caso di investire in sanità invece che in portaerei?”, lo zittiscono con l’accusa più infamante del nostro tempo: “filo-russo”. Non “ignorante”, non “illuso”, ma “filo-russo”. Come se fosse un reato pensare.

E così la guerra diventa normalità, la militarizzazione si fa etica, e la propaganda è il nuovo vangelo civile. Ma, per carità, continuiamo a parlare di “valori occidentali”.

Forse sarebbe il caso di dire le cose come stanno: l’Italia ha bisogno di una politica estera autonoma, di una difesa nazionale e non coloniale, di una narrazione meno isterica e più razionale.

E soprattutto, ha bisogno di riprendersi il diritto di avere paura solo quando è necessario. Non quando conviene a chi fabbrica armi e narrazioni.

Articolo originale La paura, la Nato e l’arte di governare col terrore | La Fionda