Giorgia Meloni è sempre più favorevole alla politica di Washington di sostenere l’Ucraina. L’Italia può essere messa in guerra con la Federaziome Russa, il paese è pronto per questo?
Questa settimana, dal vertice G20 di Rio de Janeiro in Brasile, il Presidente del Consiglio dei Ministri Giorgia Meloni ha lanciato parole di sostegno all’Ucraina, difendendo la decisione americana di permettere a Zelensky di impiegare i missili ATACMS, per colpire la Russia in profondità nel suo territorio. Al diavolo ogni tentativo di diplomazia, contraddicendo le affermazioni – per la prima volta dopo mesi sensate – del Ministro degli Esteri Antonio Tajani, che si era opposto all’idea di questo ingaggio. Spingere l’Italia verso la guerra diretta con la Russia è un tentativo che Meloni sta portando avanti sin da prima dell’inizio del suo mandato.
Dal primo giorno del conflitto russo-ucraino era chiaro che una sconfitta militare della Russia da parte dell’Ucraina col supporto della NATO non fosse concepibile se non in forma di Terza Guerra Mondiale. Nessuno poteva pensare neppure per un minuto che, se la Russia si fosse trovata in grave difficoltà sul campo di battaglia in una guerra convenzionale, avrebbe semplicemente accettato una sconfitta strategica sul proprio territorio. L’unica possibilità di una sconfitta della Russia che non passasse attraverso un olocausto nucleare era un collasso dell’economia a causa delle sanzioni, ma una volta che quella strada si è dimostrata impercorribile, la strada della sopraffazione militare era ovviamente preclusa. L’esistenza dello stato federale russo è consentita e alimentata dalla certezza percepita dell’unità del Paese in futuro, con un controllo capillare dei territori, perciò una sconfitta strategica significherebbe la dissoluzione interna. Né questo, né un fallimento sul campo di battaglia, sono contemplati nei programmi della Russia. Questo quadro era ovvio dall’inizio.
Quello che invece era meno ovvio, perlomeno ai cittadini italiani ed europei, è che il Governo Meloni stesse letteralmente progettando la partecipazione dell’Italia nel conflitto. Un ordine che sicuramente proviene dall’alto, dai centri di comando di Washington, ma comunque una scelta che ricade sulle cariche istituzionali del Paese.
Nel mese di ottobre, l’azienda italiana di difesa Leonardo S.p.A. ha ufficializzato una partnership con l’azienda tedesca Rheinmetall per la costituzione di un colosso europeo delle armi. Sul tavolo sono stati accordati oltre 20 miliardi di euro in dieci anni che, essendo Leonardo S.p.A. un’azienda a partecipazione statale, saranno finanziati con fondi pubblici. La nuova joint venture produrrà centinaia di carri armati e cingolati leggeri, e intende lanciare sul mercato un nuovo modello di carro armato pesante europeo nell’ambito del progetto Main Ground Combat System. Il progetto Leonardo Rheinmetall Military Vehicles (LRMV) prevede una partecipazione paritetica, con la maggior parte delle attività da svolgersi in Italia, principalmente nella provincia di La Spezia, dove Leonardo sta già pensando di cercare nuove aree da acquisire e destinare alla produzione bellica.
Tutto in linea con il “Rapporto Draghi” sulla competitività europea, per il quale la guerra è una sorta di igiene dei mercati. Leonardo e Rheinmetall sono infatti rispettivamente le maggiori industrie italiana e tedesca nel campo degli armamenti. Leonardo, con i suoi oltre 12 miliardi di fatturato, risulta la dodicesima produttrice di armi per guadagno al mondo, seconda nel continente, e prima nell’Unione Europea. Molti dei suoi guadagni del 2023 derivano anche dalla guerra a Gaza.
D’altronde, Meloni già a luglio aveva promesso alla Casa Bianca una estensione dell’impegno finanziario nel settore difesa. Accontentare il governo americano, di Biden o Trump poco importa, era il primo scopo. Al vertice NATO di Washington, aveva annunciato un aumento dal 1,46% al 1,53% del PIL nazionale, auspicando di raggiungere il famigerato 2%. Trump a tale riguardo è stato molto chiaro in campagna elettorale, avendo sostenuto persino l’idea di cacciare dalla NATO i Paesi che non spendono almeno il 2%. L’aumento, che nel settembre 2023 era stato giustificato dal Sottosegretario alla difesa Matteo Perego di Cremnago come causato dall’inflazione e dall’impegno sul fronte orientale, è stato un vero e proprio drenaggio di denaro, qualcosa di molto più complesso di un semplice assestamento in seno al Patto di Stabilità europeo.
Già più volte l’Italia si è resa strumento della NATO in azioni militari contro la Russia nel conflitto ucraino, riuscendo sempre a scampare dal punto di vista mediatico e politico. L’obbedienza ai dettami del Patto dell’Atlantico è una situazione ben nota a Mosca. A giugno, per esempio, in occasione dell’attacco a Sebastopoli, in Crimea, l’Italia aveva messo a disposizione l’aeroporto di Sigonella, nella Sicilia Orientale, da cui era partito il drone Global Hawk che sorvolava il Mar Nero. La stessa Sigonella presso cui già nel 1973, durante la guerra dello Yom Kippur, l’allora segretario di Stato americano, Henry Kissinger, chiedeva all’Italia l’autorizzazione a far decollare gli aerei americani dalla base siciliana per dare sostegno allo stato ebraico nella sua guerra con i Paesi arabi, ma il Ministro degli Esteri Aldo Moro rifiutò l’approvazione e nacque un contenzioso internazionale fra Roma e Washington, che vide Moro minacciato dagli americani (e nel 1978 ucciso dalle Brigate Rosse infiltrate di CIA e Mossad). Ma anche la Sigonella dei tempi del Presidente Bettino Craxi, ultimo statista italiano, che in un braccio di ferro con gli USA si giocò la sua presidenza e venne condannato all’esilio.
Adesso Giorgia Meloni interviene direttamente contro Putin, affermando che non c’è via di dialogo con la Russia in questo contesto. Uno sputo in faccia alla diplomazia e al buon senso, quello che in un Paese in recessione economica da trent’anni e con una crisi politica senza precedenti, dovrebbe occuparsi più dei propri problemi interni che di quelli internazionali suggeriti da altri.
La tanto millantata sovranità nazionale e lo sbandierato interesse italiano non valgono niente davanti alla voce del padrone di Washington.
Qui però non si tratta di semplici parole, bensì di fatti concreti: l’Italia non è pronta ad un conflitto aperto, soprattutto nucleare. La Russia sì.
La guerra non è democratica. 1 a 0, palla al centro.