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Lorenzo Maria Pacini
November 23, 2024
© Photo: Public domain

Si parla spesso di Occidente collettivo, di Egemone, di Seapower e Civiltà del Mare in relazione agli Stati Uniti d’America. Occorre comprendere bene quale è l’origine di questo potere geopoliticamente determinante per l’ordine mondiale.

Segue nostro Telegram.

Chi vince la guerra, detta le regole

Mettiamo subito in chiaro una verità fattuale empiricamente incontrovertibile: chi vince la guerra, detta le regole dell’ordine post-bellico. Chi vince, scrive la Storia. Che ci piaccia o no, gli sconfitti non hanno mai avuto grande potere decisionale (il che non vuole dire che non possano organizzarsi bene per vendicarsi e tornare al potere – ma questo è un altro discorso).

La Seconda Guerra Mondiale si concluse con la vittoria degli Stati Uniti d’America come prima potenza, imbattuta e predominante. Da lì seguì una espansione dell’influenza statunitense toto orbe terrarum sotto tutti i punti di vista (culturale, economico, militare, politico).

Il Novecento è stato il “secolo americano”. Quasi tutto il mondo ha preso la forma che gli USA volevano dargli. La seconda metà del secolo è stata caratterizzata dal conflitto a bassa tensione della Guerra Fredda, terminata – se così realmente è stato – con il crollo del sistema politico sovietico nell’URSS e l’inizio della fase unipolare di dominio globale americano.  Quel periodo suscitò in Occidente molto ottimismo per un nuovo ordine mondiale, segnando il termine della rivalità militare e ideologica del XX secolo. Si prospettavano due possibilità: un sistema basato sull’equilibrio di potere e la sovranità egualitaria, oppure un’egemonia liberale guidata dagli Stati Uniti, fondata sui valori della democrazia. Il primo approccio evocava un conflitto perpetuo, mentre il secondo prometteva pace duratura e stabilità globale.

L’egemonia statunitense, già dominante nella regione transatlantica dopo la Seconda guerra mondiale, era vista come un modello di pace e prosperità. Tuttavia, il crollo dell’Unione Sovietica rimosse la giustificazione di un ordine mondiale costruito sull’equilibrio di potere, spingendo gli Stati Uniti verso una missione di egemonia riconosciuta per evitare l’ascesa di nuovi rivali. La supremazia americana, come dichiarato dal Segretario di Stato Madeleine Albright, era ritenuta «indispensabile per garantire stabilità globale».

Si trattava della Pax Americana: gli USA avrebbero garantito un periodo di prosperità e pace globale – già a partire dalla fine della WWII – estendendo il controllo sul mondo intero. Una pace per l’America equivaleva al una pace per il globo; una guerra per l’America avrebbe significato guerra per l’intero globo. L’obiettivo dichiarato di costruire un mondo pacifico ha spesso giustificato approcci imperialistici, rivelando le contraddizioni del progetto egemonico.

Impostato questo paradigma come assioma del ragionamento nelle relazioni internazionali e nelle programmazioni geopolitiche, ecco che tutto acquisiva un nuovo significato. Il mondo era stato formattato e la “sala dei bottoni” si trovava adesso a Washington.

Il tempo delle ideologie

Era il tempo delle ideologie. Nel “secolo breve” tutto era cambiato rapidamente. Il grande scacchiere mondiale veniva continuamente scosso e rimescolato. Lo scontro fra il blocco occidentale e il blocco orientale – o sovietico – caratterizzò in maniera estremamente potente tutti i concetti della politica di ogni Paese.

Negli anni ’90, due visioni hanno dominato il dibattito sull’ordine mondiale: quella di Francis Fukuyama e quella di Samuel Huntington. Fukuyama nel suo celebre libro La fine della Storia, immaginava un futuro in cui la democrazia liberale e il capitalismo avrebbero trionfato universalmente, portando a una pace perpetua sotto la guida degli Stati Uniti: sosteneva che l’interdipendenza economica, le riforme democratiche e le istituzioni condivise avrebbero unito il mondo attorno a valori comuni, che erano, ovviamente, quelli americani. Qualsiasi altro modello di civiltà non avrebbe avuto di che dire, perché la Storia era terminata, non ci sarebbe stato più niente da scrivere. In contrasto, Huntington, scrisse Lo scontro di civiltà, nel quale prevedeva che il mondo sarebbe stato frammentato in blocchi culturali distinti, basati su identità civili, religiose ed economiche. L’individualismo e i diritti umani, secondo lui, erano peculiari dell’Occidente e non universali. La sua teorizzazione presupponeva un futuro segnato da conflitti tra civiltà, alimentati dal declino dell’egemonia occidentale e dall’emergere di poteri alternativi, in particolare nelle società confuciane e islamiche.

L’influenza delle idee di Fukuyama ha plasmato la politica occidentale post-Guerra Fredda, giustificando l’espansione e l’eccezionalismo della Pax Americana. Eccezionalismo che è stato uno dei “valori” più pragmatici degli USA: ci sono delle regole e solo noi le possiamo infrangere, quando vogliamo, come vogliamo e senza dove rendere conto a nessuno.

La Storia, però, non ha un solo attore: altri Paesi, come la Russia, hanno scelto di lasciarsi affascinare dalla proposta di Huntington – conflittuale, certamente, ma non già “definitivo”. In Russia, tale dibattito ha radici profonde, legate alla rivalità storica tra occidentalisti e slavofili. Negli anni ’90, la Russia ha inizialmente cercato di avvicinarsi all’Occidente, ma l’incapacità dell’Occidente di includerla ha rafforzato l’idea di una civiltà russa distinta, culminando nella visione di Vladimir Putin, secondo cui nessuna civiltà può dichiararsi superiore.

Una questione di ideologie, appunto, una battaglia di basso profilo ma altissimo valore, nella quale si sarebbero andati a definire i passi del nuovo secolo che stava cominciando. Queste divergenze hanno evidenziato la tensione tra aspirazioni universalistiche e identità culturali distintive, definendo i conflitti geopolitici del XXI secolo.

Costruire la Pax Americana a qualunque costo

Washington promosse un ordine mondiale basato sulla Pax Americana, un’egemonia liberale che rifletteva il successo del sistema transatlantico, pacifico e prospero, creato dagli Stati Uniti durante il conflitto con l’Unione Sovietica. Si proponeva di estendere tale modello a livello globale, citando come esempi Germania e Giappone, trasformati da nazioni militariste e imperialiste in democrazie “pacifiche” – o, meglio, sconfitte – sotto l’influenza statunitense. Ma il successo di queste trasformazioni era stato possibile grazie alla presenza di un avversario comune, la Russia, e la storia dell’America Latina suggeriva che l’egemonia statunitense non fosse sempre sinonimo di progresso e pace.

Charles Krauthammer descrisse il periodo post-Guerra Fredda come un “momento unipolare”, caratterizzato dalla predominanza americana, dove il nuovo Egemone dettava le regole e gli altri non avevano grande possibilità di scegliere. Sebbene riconoscesse che un assetto a più partecipanti (oggi possiamo dire “multipolarismo”) sarebbe inevitabilmente tornato, riteneva necessario sfruttare l’unipolarismo per garantire una pace temporanea, evitando un ritorno a periodi turbolenti. C’era però un punto debole: era improbabile che gli Stati Uniti cedessero volontariamente il loro ruolo dominante, preferendo invece contrastare ogni minaccia con la forza, alimentati da un’ossessione per la propria grandezza storica. È una questione missile: chi lo ha più grande, vince. Non dimentichiamoci che gli USA inventarono il concetto strategico di deterrenza proprio in virtù dell’arma atomica che detenevano, gettando il mondo in un clima di paura e rischio costante, in cui ancora oggi viviamo.

È altrettanto vero che molti americani auspicavano uno smantellamento dell’impero statunitense, proponendo una politica estera meno interventista e concentrata sulle sfide interne: abbandonare il ruolo di superpotenza avrebbe permesso agli Stati Uniti di rafforzare la propria società, affrontando questioni economiche, industriali e sociali. Walter Lippmann sosteneva che una grande potenza matura dovrebbe evitare crociate globali, limitando l’uso del potere per preservare stabilità e coerenza interna. Una sorta di “egemone begnigno”. Ma così non è stato.

La nozione di “egemone benigno” è stata criticata per il rischio di corruzione insito nel potere stesso. John Quincy Adams aveva avvertito che la ricerca di nemici da combattere poteva trasformare gli Stati Uniti da paladini della libertà a dittatori globali. Allo stesso modo, il Presidente Kennedy, nel suo discorso del 1963 all’American University, si opponeva a una Pax Americana imposta con le armi, auspicando invece una pace autentica e inclusiva, che promuovesse il progresso umano globale, che definì «La pace di tutti i tempi». Un ideale che è finito nell’oblio della memoria collettiva.

L’egemonia americana è la conditio sine qua non per avere una Pax americana. L’universalismo che caratterizza questa egemonia non ammette sconti. La disuguaglianza fra potenze globali è stata sfruttata come perno per accrescere i profitti e l’espansione amministrativa degli USA a discapito dei Paesi più deboli. Neoliberisticamente parlando, non vi è errore in ciò. Tutto è molto coerente. La lotta del più forte per distruggere tutti i più piccoli. Vince non soltanto chi produce e guadagna di più, bensì vince colui che riesce a mantenere il potere di produrre e guadagnare di più.

Un sistema egemonico necessita di una stabilità interna senza la quale non è possibile sussistere. Un regno diviso in se stesso non può funzionare. Ciò vale per l’economia come per la politica. È fondamentale che non cambi il paradigma ideologico, che il potere possa essere sempre compreso e trasmesso, di leader in leader, così come è stato stabilito con successo. Perché la “pace” degli antichi romani era una pace data dal mantenimento del controllo politico sino agli estremi confini dell’Impero, cosa che avveniva solo grazie ad una solida amministrazione militare.

Gli americani non si sono inventati niente. Per controllare realmente (realpolitik) occorre avere il controllo militare. Davanti ad una bomba atomica, i ragionamenti sulle filosofie politiche valgono poco. Gli USA questo lo sanno molto bene e il loro concetto di Pax è sempre stato inequivocabilmente basato sulla supremazia militare e sul mantenimento di essa.

Qualcosa è cambiato allorché con il primo decennio degli anni Duemila sono cominciati ad apparire nuovi poli, nuovi Stati-civiltà, che hanno promosso modelli alternativi di vita globale. Gli Stati Uniti hanno cominciato a vedere il loro poter calare a picco, giorno dopo giorno, fino ad arrivare ad oggi, dove l’Occidente vale meno del “resto del mondo”, gli USA non hanno più la loro “esclusiva” e non siamo nemmeno più tanto sicuri che siano poi così forti da poter controllare il globo. Le geometrie cambiano di nuovo. Quale Pax per quali confini di quale Impero?

Trump è pronto a rinunciare alla sua Pax?

Il nocciolo della questione è: se la supremazia militare di tipo imperialistico è ciò che ha permesso agli USA di mantenere il loro dominio e questo dominio oggi sta precipitando, il neoeletto Presidente americano Donald Trump sarà davvero pronto a compromettere la Pax Americana?

Parliamo di una compromissione polimorfa:

  • Economicamente, dovrebbe accettare la fine dell’era del dollaro e ridimensionare il mercato statunitense sul confronto con le monete globali sovrane. Praticamente buttare nel cestino un secolo di architettura finanziaria globale.
  • Politicamente, accettare che è possibile pensare altrimenti e fare altrimenti. La politica non è solo la “democrazia” americana. Esistono tante possibilità, tanti modelli diversi, tanti futuri da scrivere secondo altri copioni.
  • Militarmente, vuol dire fermarsi con la diplomazia dell’arroganza e delle minacce, accettare di non poter decidere arbitrariamente come comportarsi con chiunque e smettere di puntare missili sulle bandiere di altri Stati.
  • Cosa più complicata e rischiosa di tutte, tutto questo significa rinunciare alla pace all’interno degli Stati Uniti. Se vengono meno gli equilibri di forza attuati all’esterno, quelli all’interno cominciano a vacillare e l’organismo subisce un rimodellamento.

Rinunciare alla Pax Americana così come è stata conosciuta non vuol dire che non esistano delle alternative. Il concetto di “pax” è ampio e può essere interpretato diversamente dalla scuola americana. Fare questo passo, però, implica di rinunciare ad una “tradizione” di potere globale, dovendo passare attraverso il crollo di tutto il sistema domestico statunitense e poi ricostruire un’alternativa.

Make America Great Again cosa significherà? Ripristinare l’egemonia americana nel mondo, oppure ricostruire l’America?

In principio fu la Pax Americana

Si parla spesso di Occidente collettivo, di Egemone, di Seapower e Civiltà del Mare in relazione agli Stati Uniti d’America. Occorre comprendere bene quale è l’origine di questo potere geopoliticamente determinante per l’ordine mondiale.

Segue nostro Telegram.

Chi vince la guerra, detta le regole

Mettiamo subito in chiaro una verità fattuale empiricamente incontrovertibile: chi vince la guerra, detta le regole dell’ordine post-bellico. Chi vince, scrive la Storia. Che ci piaccia o no, gli sconfitti non hanno mai avuto grande potere decisionale (il che non vuole dire che non possano organizzarsi bene per vendicarsi e tornare al potere – ma questo è un altro discorso).

La Seconda Guerra Mondiale si concluse con la vittoria degli Stati Uniti d’America come prima potenza, imbattuta e predominante. Da lì seguì una espansione dell’influenza statunitense toto orbe terrarum sotto tutti i punti di vista (culturale, economico, militare, politico).

Il Novecento è stato il “secolo americano”. Quasi tutto il mondo ha preso la forma che gli USA volevano dargli. La seconda metà del secolo è stata caratterizzata dal conflitto a bassa tensione della Guerra Fredda, terminata – se così realmente è stato – con il crollo del sistema politico sovietico nell’URSS e l’inizio della fase unipolare di dominio globale americano.  Quel periodo suscitò in Occidente molto ottimismo per un nuovo ordine mondiale, segnando il termine della rivalità militare e ideologica del XX secolo. Si prospettavano due possibilità: un sistema basato sull’equilibrio di potere e la sovranità egualitaria, oppure un’egemonia liberale guidata dagli Stati Uniti, fondata sui valori della democrazia. Il primo approccio evocava un conflitto perpetuo, mentre il secondo prometteva pace duratura e stabilità globale.

L’egemonia statunitense, già dominante nella regione transatlantica dopo la Seconda guerra mondiale, era vista come un modello di pace e prosperità. Tuttavia, il crollo dell’Unione Sovietica rimosse la giustificazione di un ordine mondiale costruito sull’equilibrio di potere, spingendo gli Stati Uniti verso una missione di egemonia riconosciuta per evitare l’ascesa di nuovi rivali. La supremazia americana, come dichiarato dal Segretario di Stato Madeleine Albright, era ritenuta «indispensabile per garantire stabilità globale».

Si trattava della Pax Americana: gli USA avrebbero garantito un periodo di prosperità e pace globale – già a partire dalla fine della WWII – estendendo il controllo sul mondo intero. Una pace per l’America equivaleva al una pace per il globo; una guerra per l’America avrebbe significato guerra per l’intero globo. L’obiettivo dichiarato di costruire un mondo pacifico ha spesso giustificato approcci imperialistici, rivelando le contraddizioni del progetto egemonico.

Impostato questo paradigma come assioma del ragionamento nelle relazioni internazionali e nelle programmazioni geopolitiche, ecco che tutto acquisiva un nuovo significato. Il mondo era stato formattato e la “sala dei bottoni” si trovava adesso a Washington.

Il tempo delle ideologie

Era il tempo delle ideologie. Nel “secolo breve” tutto era cambiato rapidamente. Il grande scacchiere mondiale veniva continuamente scosso e rimescolato. Lo scontro fra il blocco occidentale e il blocco orientale – o sovietico – caratterizzò in maniera estremamente potente tutti i concetti della politica di ogni Paese.

Negli anni ’90, due visioni hanno dominato il dibattito sull’ordine mondiale: quella di Francis Fukuyama e quella di Samuel Huntington. Fukuyama nel suo celebre libro La fine della Storia, immaginava un futuro in cui la democrazia liberale e il capitalismo avrebbero trionfato universalmente, portando a una pace perpetua sotto la guida degli Stati Uniti: sosteneva che l’interdipendenza economica, le riforme democratiche e le istituzioni condivise avrebbero unito il mondo attorno a valori comuni, che erano, ovviamente, quelli americani. Qualsiasi altro modello di civiltà non avrebbe avuto di che dire, perché la Storia era terminata, non ci sarebbe stato più niente da scrivere. In contrasto, Huntington, scrisse Lo scontro di civiltà, nel quale prevedeva che il mondo sarebbe stato frammentato in blocchi culturali distinti, basati su identità civili, religiose ed economiche. L’individualismo e i diritti umani, secondo lui, erano peculiari dell’Occidente e non universali. La sua teorizzazione presupponeva un futuro segnato da conflitti tra civiltà, alimentati dal declino dell’egemonia occidentale e dall’emergere di poteri alternativi, in particolare nelle società confuciane e islamiche.

L’influenza delle idee di Fukuyama ha plasmato la politica occidentale post-Guerra Fredda, giustificando l’espansione e l’eccezionalismo della Pax Americana. Eccezionalismo che è stato uno dei “valori” più pragmatici degli USA: ci sono delle regole e solo noi le possiamo infrangere, quando vogliamo, come vogliamo e senza dove rendere conto a nessuno.

La Storia, però, non ha un solo attore: altri Paesi, come la Russia, hanno scelto di lasciarsi affascinare dalla proposta di Huntington – conflittuale, certamente, ma non già “definitivo”. In Russia, tale dibattito ha radici profonde, legate alla rivalità storica tra occidentalisti e slavofili. Negli anni ’90, la Russia ha inizialmente cercato di avvicinarsi all’Occidente, ma l’incapacità dell’Occidente di includerla ha rafforzato l’idea di una civiltà russa distinta, culminando nella visione di Vladimir Putin, secondo cui nessuna civiltà può dichiararsi superiore.

Una questione di ideologie, appunto, una battaglia di basso profilo ma altissimo valore, nella quale si sarebbero andati a definire i passi del nuovo secolo che stava cominciando. Queste divergenze hanno evidenziato la tensione tra aspirazioni universalistiche e identità culturali distintive, definendo i conflitti geopolitici del XXI secolo.

Costruire la Pax Americana a qualunque costo

Washington promosse un ordine mondiale basato sulla Pax Americana, un’egemonia liberale che rifletteva il successo del sistema transatlantico, pacifico e prospero, creato dagli Stati Uniti durante il conflitto con l’Unione Sovietica. Si proponeva di estendere tale modello a livello globale, citando come esempi Germania e Giappone, trasformati da nazioni militariste e imperialiste in democrazie “pacifiche” – o, meglio, sconfitte – sotto l’influenza statunitense. Ma il successo di queste trasformazioni era stato possibile grazie alla presenza di un avversario comune, la Russia, e la storia dell’America Latina suggeriva che l’egemonia statunitense non fosse sempre sinonimo di progresso e pace.

Charles Krauthammer descrisse il periodo post-Guerra Fredda come un “momento unipolare”, caratterizzato dalla predominanza americana, dove il nuovo Egemone dettava le regole e gli altri non avevano grande possibilità di scegliere. Sebbene riconoscesse che un assetto a più partecipanti (oggi possiamo dire “multipolarismo”) sarebbe inevitabilmente tornato, riteneva necessario sfruttare l’unipolarismo per garantire una pace temporanea, evitando un ritorno a periodi turbolenti. C’era però un punto debole: era improbabile che gli Stati Uniti cedessero volontariamente il loro ruolo dominante, preferendo invece contrastare ogni minaccia con la forza, alimentati da un’ossessione per la propria grandezza storica. È una questione missile: chi lo ha più grande, vince. Non dimentichiamoci che gli USA inventarono il concetto strategico di deterrenza proprio in virtù dell’arma atomica che detenevano, gettando il mondo in un clima di paura e rischio costante, in cui ancora oggi viviamo.

È altrettanto vero che molti americani auspicavano uno smantellamento dell’impero statunitense, proponendo una politica estera meno interventista e concentrata sulle sfide interne: abbandonare il ruolo di superpotenza avrebbe permesso agli Stati Uniti di rafforzare la propria società, affrontando questioni economiche, industriali e sociali. Walter Lippmann sosteneva che una grande potenza matura dovrebbe evitare crociate globali, limitando l’uso del potere per preservare stabilità e coerenza interna. Una sorta di “egemone begnigno”. Ma così non è stato.

La nozione di “egemone benigno” è stata criticata per il rischio di corruzione insito nel potere stesso. John Quincy Adams aveva avvertito che la ricerca di nemici da combattere poteva trasformare gli Stati Uniti da paladini della libertà a dittatori globali. Allo stesso modo, il Presidente Kennedy, nel suo discorso del 1963 all’American University, si opponeva a una Pax Americana imposta con le armi, auspicando invece una pace autentica e inclusiva, che promuovesse il progresso umano globale, che definì «La pace di tutti i tempi». Un ideale che è finito nell’oblio della memoria collettiva.

L’egemonia americana è la conditio sine qua non per avere una Pax americana. L’universalismo che caratterizza questa egemonia non ammette sconti. La disuguaglianza fra potenze globali è stata sfruttata come perno per accrescere i profitti e l’espansione amministrativa degli USA a discapito dei Paesi più deboli. Neoliberisticamente parlando, non vi è errore in ciò. Tutto è molto coerente. La lotta del più forte per distruggere tutti i più piccoli. Vince non soltanto chi produce e guadagna di più, bensì vince colui che riesce a mantenere il potere di produrre e guadagnare di più.

Un sistema egemonico necessita di una stabilità interna senza la quale non è possibile sussistere. Un regno diviso in se stesso non può funzionare. Ciò vale per l’economia come per la politica. È fondamentale che non cambi il paradigma ideologico, che il potere possa essere sempre compreso e trasmesso, di leader in leader, così come è stato stabilito con successo. Perché la “pace” degli antichi romani era una pace data dal mantenimento del controllo politico sino agli estremi confini dell’Impero, cosa che avveniva solo grazie ad una solida amministrazione militare.

Gli americani non si sono inventati niente. Per controllare realmente (realpolitik) occorre avere il controllo militare. Davanti ad una bomba atomica, i ragionamenti sulle filosofie politiche valgono poco. Gli USA questo lo sanno molto bene e il loro concetto di Pax è sempre stato inequivocabilmente basato sulla supremazia militare e sul mantenimento di essa.

Qualcosa è cambiato allorché con il primo decennio degli anni Duemila sono cominciati ad apparire nuovi poli, nuovi Stati-civiltà, che hanno promosso modelli alternativi di vita globale. Gli Stati Uniti hanno cominciato a vedere il loro poter calare a picco, giorno dopo giorno, fino ad arrivare ad oggi, dove l’Occidente vale meno del “resto del mondo”, gli USA non hanno più la loro “esclusiva” e non siamo nemmeno più tanto sicuri che siano poi così forti da poter controllare il globo. Le geometrie cambiano di nuovo. Quale Pax per quali confini di quale Impero?

Trump è pronto a rinunciare alla sua Pax?

Il nocciolo della questione è: se la supremazia militare di tipo imperialistico è ciò che ha permesso agli USA di mantenere il loro dominio e questo dominio oggi sta precipitando, il neoeletto Presidente americano Donald Trump sarà davvero pronto a compromettere la Pax Americana?

Parliamo di una compromissione polimorfa:

  • Economicamente, dovrebbe accettare la fine dell’era del dollaro e ridimensionare il mercato statunitense sul confronto con le monete globali sovrane. Praticamente buttare nel cestino un secolo di architettura finanziaria globale.
  • Politicamente, accettare che è possibile pensare altrimenti e fare altrimenti. La politica non è solo la “democrazia” americana. Esistono tante possibilità, tanti modelli diversi, tanti futuri da scrivere secondo altri copioni.
  • Militarmente, vuol dire fermarsi con la diplomazia dell’arroganza e delle minacce, accettare di non poter decidere arbitrariamente come comportarsi con chiunque e smettere di puntare missili sulle bandiere di altri Stati.
  • Cosa più complicata e rischiosa di tutte, tutto questo significa rinunciare alla pace all’interno degli Stati Uniti. Se vengono meno gli equilibri di forza attuati all’esterno, quelli all’interno cominciano a vacillare e l’organismo subisce un rimodellamento.

Rinunciare alla Pax Americana così come è stata conosciuta non vuol dire che non esistano delle alternative. Il concetto di “pax” è ampio e può essere interpretato diversamente dalla scuola americana. Fare questo passo, però, implica di rinunciare ad una “tradizione” di potere globale, dovendo passare attraverso il crollo di tutto il sistema domestico statunitense e poi ricostruire un’alternativa.

Make America Great Again cosa significherà? Ripristinare l’egemonia americana nel mondo, oppure ricostruire l’America?

Si parla spesso di Occidente collettivo, di Egemone, di Seapower e Civiltà del Mare in relazione agli Stati Uniti d’America. Occorre comprendere bene quale è l’origine di questo potere geopoliticamente determinante per l’ordine mondiale.

Segue nostro Telegram.

Chi vince la guerra, detta le regole

Mettiamo subito in chiaro una verità fattuale empiricamente incontrovertibile: chi vince la guerra, detta le regole dell’ordine post-bellico. Chi vince, scrive la Storia. Che ci piaccia o no, gli sconfitti non hanno mai avuto grande potere decisionale (il che non vuole dire che non possano organizzarsi bene per vendicarsi e tornare al potere – ma questo è un altro discorso).

La Seconda Guerra Mondiale si concluse con la vittoria degli Stati Uniti d’America come prima potenza, imbattuta e predominante. Da lì seguì una espansione dell’influenza statunitense toto orbe terrarum sotto tutti i punti di vista (culturale, economico, militare, politico).

Il Novecento è stato il “secolo americano”. Quasi tutto il mondo ha preso la forma che gli USA volevano dargli. La seconda metà del secolo è stata caratterizzata dal conflitto a bassa tensione della Guerra Fredda, terminata – se così realmente è stato – con il crollo del sistema politico sovietico nell’URSS e l’inizio della fase unipolare di dominio globale americano.  Quel periodo suscitò in Occidente molto ottimismo per un nuovo ordine mondiale, segnando il termine della rivalità militare e ideologica del XX secolo. Si prospettavano due possibilità: un sistema basato sull’equilibrio di potere e la sovranità egualitaria, oppure un’egemonia liberale guidata dagli Stati Uniti, fondata sui valori della democrazia. Il primo approccio evocava un conflitto perpetuo, mentre il secondo prometteva pace duratura e stabilità globale.

L’egemonia statunitense, già dominante nella regione transatlantica dopo la Seconda guerra mondiale, era vista come un modello di pace e prosperità. Tuttavia, il crollo dell’Unione Sovietica rimosse la giustificazione di un ordine mondiale costruito sull’equilibrio di potere, spingendo gli Stati Uniti verso una missione di egemonia riconosciuta per evitare l’ascesa di nuovi rivali. La supremazia americana, come dichiarato dal Segretario di Stato Madeleine Albright, era ritenuta «indispensabile per garantire stabilità globale».

Si trattava della Pax Americana: gli USA avrebbero garantito un periodo di prosperità e pace globale – già a partire dalla fine della WWII – estendendo il controllo sul mondo intero. Una pace per l’America equivaleva al una pace per il globo; una guerra per l’America avrebbe significato guerra per l’intero globo. L’obiettivo dichiarato di costruire un mondo pacifico ha spesso giustificato approcci imperialistici, rivelando le contraddizioni del progetto egemonico.

Impostato questo paradigma come assioma del ragionamento nelle relazioni internazionali e nelle programmazioni geopolitiche, ecco che tutto acquisiva un nuovo significato. Il mondo era stato formattato e la “sala dei bottoni” si trovava adesso a Washington.

Il tempo delle ideologie

Era il tempo delle ideologie. Nel “secolo breve” tutto era cambiato rapidamente. Il grande scacchiere mondiale veniva continuamente scosso e rimescolato. Lo scontro fra il blocco occidentale e il blocco orientale – o sovietico – caratterizzò in maniera estremamente potente tutti i concetti della politica di ogni Paese.

Negli anni ’90, due visioni hanno dominato il dibattito sull’ordine mondiale: quella di Francis Fukuyama e quella di Samuel Huntington. Fukuyama nel suo celebre libro La fine della Storia, immaginava un futuro in cui la democrazia liberale e il capitalismo avrebbero trionfato universalmente, portando a una pace perpetua sotto la guida degli Stati Uniti: sosteneva che l’interdipendenza economica, le riforme democratiche e le istituzioni condivise avrebbero unito il mondo attorno a valori comuni, che erano, ovviamente, quelli americani. Qualsiasi altro modello di civiltà non avrebbe avuto di che dire, perché la Storia era terminata, non ci sarebbe stato più niente da scrivere. In contrasto, Huntington, scrisse Lo scontro di civiltà, nel quale prevedeva che il mondo sarebbe stato frammentato in blocchi culturali distinti, basati su identità civili, religiose ed economiche. L’individualismo e i diritti umani, secondo lui, erano peculiari dell’Occidente e non universali. La sua teorizzazione presupponeva un futuro segnato da conflitti tra civiltà, alimentati dal declino dell’egemonia occidentale e dall’emergere di poteri alternativi, in particolare nelle società confuciane e islamiche.

L’influenza delle idee di Fukuyama ha plasmato la politica occidentale post-Guerra Fredda, giustificando l’espansione e l’eccezionalismo della Pax Americana. Eccezionalismo che è stato uno dei “valori” più pragmatici degli USA: ci sono delle regole e solo noi le possiamo infrangere, quando vogliamo, come vogliamo e senza dove rendere conto a nessuno.

La Storia, però, non ha un solo attore: altri Paesi, come la Russia, hanno scelto di lasciarsi affascinare dalla proposta di Huntington – conflittuale, certamente, ma non già “definitivo”. In Russia, tale dibattito ha radici profonde, legate alla rivalità storica tra occidentalisti e slavofili. Negli anni ’90, la Russia ha inizialmente cercato di avvicinarsi all’Occidente, ma l’incapacità dell’Occidente di includerla ha rafforzato l’idea di una civiltà russa distinta, culminando nella visione di Vladimir Putin, secondo cui nessuna civiltà può dichiararsi superiore.

Una questione di ideologie, appunto, una battaglia di basso profilo ma altissimo valore, nella quale si sarebbero andati a definire i passi del nuovo secolo che stava cominciando. Queste divergenze hanno evidenziato la tensione tra aspirazioni universalistiche e identità culturali distintive, definendo i conflitti geopolitici del XXI secolo.

Costruire la Pax Americana a qualunque costo

Washington promosse un ordine mondiale basato sulla Pax Americana, un’egemonia liberale che rifletteva il successo del sistema transatlantico, pacifico e prospero, creato dagli Stati Uniti durante il conflitto con l’Unione Sovietica. Si proponeva di estendere tale modello a livello globale, citando come esempi Germania e Giappone, trasformati da nazioni militariste e imperialiste in democrazie “pacifiche” – o, meglio, sconfitte – sotto l’influenza statunitense. Ma il successo di queste trasformazioni era stato possibile grazie alla presenza di un avversario comune, la Russia, e la storia dell’America Latina suggeriva che l’egemonia statunitense non fosse sempre sinonimo di progresso e pace.

Charles Krauthammer descrisse il periodo post-Guerra Fredda come un “momento unipolare”, caratterizzato dalla predominanza americana, dove il nuovo Egemone dettava le regole e gli altri non avevano grande possibilità di scegliere. Sebbene riconoscesse che un assetto a più partecipanti (oggi possiamo dire “multipolarismo”) sarebbe inevitabilmente tornato, riteneva necessario sfruttare l’unipolarismo per garantire una pace temporanea, evitando un ritorno a periodi turbolenti. C’era però un punto debole: era improbabile che gli Stati Uniti cedessero volontariamente il loro ruolo dominante, preferendo invece contrastare ogni minaccia con la forza, alimentati da un’ossessione per la propria grandezza storica. È una questione missile: chi lo ha più grande, vince. Non dimentichiamoci che gli USA inventarono il concetto strategico di deterrenza proprio in virtù dell’arma atomica che detenevano, gettando il mondo in un clima di paura e rischio costante, in cui ancora oggi viviamo.

È altrettanto vero che molti americani auspicavano uno smantellamento dell’impero statunitense, proponendo una politica estera meno interventista e concentrata sulle sfide interne: abbandonare il ruolo di superpotenza avrebbe permesso agli Stati Uniti di rafforzare la propria società, affrontando questioni economiche, industriali e sociali. Walter Lippmann sosteneva che una grande potenza matura dovrebbe evitare crociate globali, limitando l’uso del potere per preservare stabilità e coerenza interna. Una sorta di “egemone begnigno”. Ma così non è stato.

La nozione di “egemone benigno” è stata criticata per il rischio di corruzione insito nel potere stesso. John Quincy Adams aveva avvertito che la ricerca di nemici da combattere poteva trasformare gli Stati Uniti da paladini della libertà a dittatori globali. Allo stesso modo, il Presidente Kennedy, nel suo discorso del 1963 all’American University, si opponeva a una Pax Americana imposta con le armi, auspicando invece una pace autentica e inclusiva, che promuovesse il progresso umano globale, che definì «La pace di tutti i tempi». Un ideale che è finito nell’oblio della memoria collettiva.

L’egemonia americana è la conditio sine qua non per avere una Pax americana. L’universalismo che caratterizza questa egemonia non ammette sconti. La disuguaglianza fra potenze globali è stata sfruttata come perno per accrescere i profitti e l’espansione amministrativa degli USA a discapito dei Paesi più deboli. Neoliberisticamente parlando, non vi è errore in ciò. Tutto è molto coerente. La lotta del più forte per distruggere tutti i più piccoli. Vince non soltanto chi produce e guadagna di più, bensì vince colui che riesce a mantenere il potere di produrre e guadagnare di più.

Un sistema egemonico necessita di una stabilità interna senza la quale non è possibile sussistere. Un regno diviso in se stesso non può funzionare. Ciò vale per l’economia come per la politica. È fondamentale che non cambi il paradigma ideologico, che il potere possa essere sempre compreso e trasmesso, di leader in leader, così come è stato stabilito con successo. Perché la “pace” degli antichi romani era una pace data dal mantenimento del controllo politico sino agli estremi confini dell’Impero, cosa che avveniva solo grazie ad una solida amministrazione militare.

Gli americani non si sono inventati niente. Per controllare realmente (realpolitik) occorre avere il controllo militare. Davanti ad una bomba atomica, i ragionamenti sulle filosofie politiche valgono poco. Gli USA questo lo sanno molto bene e il loro concetto di Pax è sempre stato inequivocabilmente basato sulla supremazia militare e sul mantenimento di essa.

Qualcosa è cambiato allorché con il primo decennio degli anni Duemila sono cominciati ad apparire nuovi poli, nuovi Stati-civiltà, che hanno promosso modelli alternativi di vita globale. Gli Stati Uniti hanno cominciato a vedere il loro poter calare a picco, giorno dopo giorno, fino ad arrivare ad oggi, dove l’Occidente vale meno del “resto del mondo”, gli USA non hanno più la loro “esclusiva” e non siamo nemmeno più tanto sicuri che siano poi così forti da poter controllare il globo. Le geometrie cambiano di nuovo. Quale Pax per quali confini di quale Impero?

Trump è pronto a rinunciare alla sua Pax?

Il nocciolo della questione è: se la supremazia militare di tipo imperialistico è ciò che ha permesso agli USA di mantenere il loro dominio e questo dominio oggi sta precipitando, il neoeletto Presidente americano Donald Trump sarà davvero pronto a compromettere la Pax Americana?

Parliamo di una compromissione polimorfa:

  • Economicamente, dovrebbe accettare la fine dell’era del dollaro e ridimensionare il mercato statunitense sul confronto con le monete globali sovrane. Praticamente buttare nel cestino un secolo di architettura finanziaria globale.
  • Politicamente, accettare che è possibile pensare altrimenti e fare altrimenti. La politica non è solo la “democrazia” americana. Esistono tante possibilità, tanti modelli diversi, tanti futuri da scrivere secondo altri copioni.
  • Militarmente, vuol dire fermarsi con la diplomazia dell’arroganza e delle minacce, accettare di non poter decidere arbitrariamente come comportarsi con chiunque e smettere di puntare missili sulle bandiere di altri Stati.
  • Cosa più complicata e rischiosa di tutte, tutto questo significa rinunciare alla pace all’interno degli Stati Uniti. Se vengono meno gli equilibri di forza attuati all’esterno, quelli all’interno cominciano a vacillare e l’organismo subisce un rimodellamento.

Rinunciare alla Pax Americana così come è stata conosciuta non vuol dire che non esistano delle alternative. Il concetto di “pax” è ampio e può essere interpretato diversamente dalla scuola americana. Fare questo passo, però, implica di rinunciare ad una “tradizione” di potere globale, dovendo passare attraverso il crollo di tutto il sistema domestico statunitense e poi ricostruire un’alternativa.

Make America Great Again cosa significherà? Ripristinare l’egemonia americana nel mondo, oppure ricostruire l’America?

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November 11, 2024

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