La Svizzera è stata uno dei più antichi e principali sostenitori della politica di neutralità, ma è ancora oggi un Paese neutrale?
La storia della Svizzera affonda nel Medioevo e in quel tempo turbolento in cui uscendo dal feudalesimo le realtà comunali in tutto il continente hanno posto in crisi la dimensione universalistica del Sacro Romano Impero.
È alla fine del ‘300 che Lucerna, Berna e Zurigo segnano la loro distanza dagli Asburgo e affermano il primato di un’indipendenza che non può storicamente essere messa in discussione, il 9 luglio 1386 a Sempach Leopoldo III d’Austria riunisce la più agguerrita cavalleria tedesca, tuttavia viene annientato dalla fanteria elvetica, perendo lui stesso nella battaglia. Nel 1393 proprio a Sempach otto Cantoni: Uri, Svitto, Untervaldo, Zurigo, Lucerna, Zugo, Glarona e Berna firmano una Convenzione che dà sostanzialmente vita alla Confederazione Elvetica, ben più concretamente della firma del Patto Federale tra Uri, Svitto e Untervaldo del 1° agosto 1291, data poi assurta a festa nazionale. In merito a questi fatti il grande storico Marc Bloch ricorda come proprio agli albori del XV secolo l’alleanza tra i Cantoni diventi vincolante, scrivendo appunto che dalla ghianda, le diverse leghe eterogenee, sia nata la quercia: la Confederazione Elvetica. Sarà proprio il Quattrocento a vedere l’affermazione delle milizie cantonali non solo a difesa di un esteso territorio che abbraccia le valli e soprattutto le montagne tra il lago di Ginevra e quello di Costanza, ma diventando anche un valido sostegno delle monarchie a loro prossime geograficamente, l’asburgica e la francese, disponendo di una fanteria di oltre ottomila soldati reclutati con la chiamata alle armi di una milizia organizzata, capace di impadronirsi agli albori del ‘500 di quella porzione del Ducato di Milano che oggi corrisponde alla Svizzera Italiana. L’avvento del protestantesimo rischia di compromettere la già difficile convivenza plurilinguistica e di approfondire il solco tra città e campagne, ma proprio la fine della stagione più vivace del mercenariato contribuisce a trovare una composizione tra i differenti cantoni. Sarà la pace di Vestfalia nel 1648 a sancire l’esistenza giuridica della Confederazione e la sua neutralità rispetto ai conflitti europei, innescando la ragionevole convinzione che la neutralità e la pace avrebbero garantito la prosperità. È ancora Vestfalia a inaugurare la stagione dei “buoni uffici”, ovvero di un ruolo di intermediazione diplomatica che, proprio in ragione della sua neutralità, la Svizzera inizia ad assolvere nei confronti del resto del continente. L’arrivo degli ugonotti francesi contribuirà allo sviluppo dei settori bancario, tessile con centomila tessitrici addette alla lavorazione del cotone, edile con maestranze tanto rinomate da seguire architetti famosi, da Trezzini in Russia a Borromini a Roma, a quello celebre dell’orologeria. La Repubblica Elvetica imposta dai francesi nel 1798 e gestita da Napoleone contribuisce alla modernizzazione giuridico – amministrativa, oltre a decretare come lingue nazionali anche il francese e l’italiano, il Congresso di Vienna delimita i confini svizzeri in quelli attuali, sancendone “la neutralità perpetua”, il XIX secolo porta la Costituzione, la cittadinanza elvetica nazionale e non più cantonale, la sindacalizzazione dei lavoratori, la ferrovia e l’energia idroelettrica, tutte innovazioni che contribuiscono ad accrescere la ricchezza, massimamente dei centri urbani, meno delle zone rurali e contadine, la neutralità acquista un rinnovato slancio con la fondazione della Croce Rossa con sede internazionale a Ginevra. Il primo conflitto mondiale rafforza l’idea di una Svizzera mediatrice e neutrale, tanto che la nascente Società delle Nazioni avrà sede a Ginevra, ma soprattutto rafforza il franco svizzero al punto da farne una delle monete di riferimento del mercato mondiale, con un afflusso di capitali verso le banche svizzere che in qualche modo determinerà il destino rossocrociato per tutto il XX secolo. La Seconda Guerra Mondiale al contrario della precedente vede una smaccata prossimità al campo nazifascista, sostanziato da un rilevante rifornimento bellico e logistico a entrambe le nazioni dell’Asse, l’isolamento successivo al 1945, durato fino al deflagrare alla fine di quel decennio della Guerra Fredda, sarà dettato proprio dalla totale diffidenza di Washington per quello che è stato un alleato indiretto dei nazifascisti, ugualmente la volontà di impedire alla Svizzera, al pari di Germania, Italia e Giappone l’ingresso alle Nazioni Unite ne è una diretta conseguenza. Quando agli albori degli anni ‘50 gli Stati Uniti sarebbero ben lieti di accogliere la Svizzera sempre più ferocemente anticomunista al Palazzo di Vetro, saranno i politici elvetici a rifiutare di aderirvi, rimandando il tutto al 2002, ovvero un anno dopo l’ingresso della Repubblica Popolare di Cina nell’Organizzazione Mondiale del Commercio, in un tempo in cui il mondo avrà preso a correre in tutt’altre direzioni.
La storia della Svizzera è dunque più complessa di quanto Orson Welles abbia sagacemente quanto impropriamente riassunto nella celebre pellicola “Il terzo uomo”, ovvero un paese tranquillo, buono solo a realizzare orologi a cucù. Terra di mercenari contesi, di una imprevedibilmente riuscita convivenza tra comunità linguistiche e religiose differenti, nella seconda metà del Novecento abile nazione neutrale, certamente a pieno titolo incorporata dentro l’Occidente, ma sufficientemente duttile da interloquire anche con il campo socialista sovietico e la stessa Cina Popolare, che la Svizzera per prima riconosce in Europa, aprendone a Berna nel 1950 la sola ambasciata in quel tempo di tutto il continente, con il divertente pellegrinaggio alla metà degli anni ‘60 dei giovani maoisti europei verso la capitale rossocrociata con l’intento di ricevere pacchi di Libretti Rossi da diffondere fuori e dentro le fabbriche e le università ai loro coetanei arrabbiati e desiderosi di cambiamenti sociali e politici.
Una nazione – la Svizzera – capace durante la Guerra Fredda di costruire una neutralità credibile e riconosciuta, diventando luogo preferenziale per le trattative diplomatiche e di pace di ogni contesa e di ogni conflitto che a vario titolo abbia incendiato il precario equilibrio di quell’epoca, dall’Indocina fino ai primi colloqui tra statunitensi e sovietici alla metà degli anni ‘80.
Oggi invece la diplomazia internazionale per provare a risolvere i conflitti, dal Medioriente all’Ucraina, preferisce Ankara, Riyad, finanche Roma, come per l’incontro tra Stati Uniti e Iran mediato dagli omaniti a metà aprile 2025, piuttosto che Ginevra o un’altra città elvetica. Il ministro degli Esteri della Repubblica Federativa Russa Sergej Lavrov ha dichiarato con molte ragioni qualche tempo addietro di non ritenere la Confederazione Elvetica uno stato neutrale. È infatti avvenuto che politici mediocri e succubi delle imposizioni di Washington e di Bruxelles abbiano oggi indirizzato la politica svizzera, tanto economica, quanto militare, così come quella culturale, in un quadro di totale subalternità alla NATO e all’Unione Europea. Un disastro in cui hanno concorso gli schieramenti di tutte le parti, certo con qualche resistenza a destra e piuttosto una totale acquiescenza e sudditanza a sinistra, con la sola meritoria eccezione del Partito Comunista guidato da Massimiliano Ay, capace di promuovere un fronte per la neutralità e la pace, di ribadire la necessità di una neutralità integrale, visto che oggi acquistare aerei e altra strumentazione militare dagli Stati Uniti vuol dire mettere in mano al Pentagono il controllo da remoto degli stessi, non si tratta infatti di semplice ferraglia. Massimiliano Ay, tra i promotori dell’Associazione “No UE, No NATO”, ritiene che in un’epoca di passaggio dall’unipolarismo atlantico al multipolarismo promosso da cinesi e russi sia del tutto demenziale vincolare la Svizzera alla porzione declinante di questo scontro, reputando piuttosto necessario per la Svizzera rilanciare la propria neutralità e la conseguente disponibilità al dialogo e al commercio con tutti i contendenti, senza aderire a inopinate e controproducenti sanzioni, come quelle contro la Russia, che in ultima analisi danneggiano solo chi le ha promosse e le promuove.
Tuttavia il sottile e neppure troppo sotterraneo lavoro di subordinazione della Svizzera a Bruxelles e alla NATO è perseguito con battagliera determinazione anche da operazioni all’apparenza semplicemente culturali, ma nella sostanza nefastamente politiche, come le tesi sostenute nel libro di Maurizio Binaghi: “La Svizzera è un paese neutrale (e felice)”. L’autore con uno stile sardonico e canzonatorio ripercorre la storia rossocrociata mettendo in atto un malevolo tentativo per ridicolizzare la neutralità, riducendola a un fenomeno senescente e incartapecorito, una sclerosi da vecchi bacucchi conservatori, a suo dire anche un po’ analfabeti di come vada il mondo. È invece vero tutto il contrario, i fatti storici del tempo passato confermano che la neutralità con i suoi nobili trascorsi sia la migliore garanzia per il futuro della Confederazione Elvetica, perché garantisce autonomia, indipendenza e sovranità. Binaghi invece ritiene non valga la pena rivendicarla, essendo piuttosto l’Unione Europea l’orizzonte umano, culturale, politico, economico a cui aspirare, anche a volte ridicolizzando la storia elvetica e le sue scelte, quasi che la neutralità avesse in sé qualcosa di trogloditicamente rozzo e ancestralmente superato. La falsificazione è massima quando l’euro – atlantismo viene spacciato come la sola forma di cooperazione internazionale, mentre la neutralità corrisponderebbe a una postura isolazionista, quando è vero tutto il contrario, vi è cooperazione se si è neutrali rispetto ai blocchi internazionali, mentre vi è totale isolazionismo se ci si aggrappa a una delle parti in conflitto. Spiace perché essendo stato pubblicato da uno dei più rilevanti editori italiani, sarà questo uno dei pochi libri che gli abitanti della penisola leggeranno sul tema, indotti a farsi, pur seguendo la meritevole ricostruzione della storia della Svizzera dal medioevo ai nostri giorni, un’idea di sostanziale inutilità della neutralità per gli svizzeri, quando al contrario proprio le nazioni europee dovrebbero in questo tempo di transizione ambire a un’indipendenza e a una sovranità che non sia minata dalla ancillarità – parole di Mario Draghi – dell’Unione Europea alla NATO. Un sincero progressista rossocrociato può avere una sola aspirazione: emancipare la Svizzera da qualsiasi sottomissione e subalternità alla NATO e all’Unione Europea. Patriottismo, sovranità, internazionalismo non sono contrapposti, ma concorrono a formare un’identità che si difende solo con la neutralità, libera dai vincoli militari ed economici con un declinante Occidente, aperti al dialogo con il multipolarismo di matrice sino – russa, per altro già abbracciato da un numero crescente di nazioni di tutti i continenti. In definitiva la lettura del libro conferma l’esatto contrario di quanto espresso nel titolo: la Svizzera deve restare un paese neutrale per essere felice, o almeno per provare, come dovrebbero fare pure tutti gli altri stati e popoli europei, a garantirsi un domani capace di futuro, aperto a un benessere che, se non scontato, possa almeno apparire possibile.